È stata la mano di Dio, a Venezia 78 per Sorrentino applausi a scena aperta

è stata la mano di dio Sorrentino
Filippo Scotti, protagonista di "È stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino.

Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo Sorrentino torna a Napoli con È stata la mano di Dio.

È un ritorno felice, felicissimo, cinematograficamente parlando, pur con al centro un enorme dolore, che qui l’autore semina e dissemina in un memoir, in un racconto di formazione, in un coming of age sulla base di una scrittura che quasi mai è stata così precisa, essenziale, leggera. In una parola: vera.

Vera, nonostante il racconto di È stata la mano di Dio cominci subito con un’evocazione che più napoletana non si può: un enorme abbraccio alla città, che comincia dal mare, individua Castel dell’Ovo, la collina di San Martino, finisce sul mare e poi si inoltra, di notte, insieme niente di meno che a San Gennaro, nei meandri oscuri della città dove facciamo la conoscenza di una presenza misteriosa, che a Napoli – come racconta Matilde Serao – esiste dalla notte dei tempi: il munaciello. Lo possono vedere solo in pochi. Lo può vedere solo chi ha il dono.

L’alter ego che Sorrentino sceglie per questa trasposizione divertita e insieme commovente della propria giovinezza si chiama Fabietto Schisa, interpretato dal giovane Filippo Scotti che è bravissimo. Certo, è stato guidato da un grande direttore di attori, ma il ragazzo ha stoffa.

Questo giovanotto solitario, allampanato, caratterizzato splendidamente dall’inseparabile walkman con le cuffie, si muove nella Napoli alta della metà degli anni ’80, l’epoca che potremmo chiamare a.D., avanti Diego, se è vero che un Messia venuto dall’Argentina ha segnato in questa città un evidente prima e dopo che ancora oggi porta i suoi malinconici strascichi.

Napoli alta perché Sorrentino racconta una classe sociale che nella proficua produzione cinematografica napoletana si vede rarissimamente: la borghesia. Gli Schisa abitano al Vomero, in un parco sobrio e pieno di gente per bene, al piano di sopra c’è una baronessa decaduta e decadente ma che gioca un ruolo decisivo in questa storia, la dirimpettaia è un’aspirante attrice che sogna di fare la protagonista per Zeffirelli e per un attimo sembra esserci riuscita, c’è anche il fool dal cuore d’oro che si traveste da Super Mario. E poi le vacanze: i momenti di svago, meravigliosamente corali, con una rappresentazione precisa, impietosa ma affettuosa, del caleidoscopio di umanità di Napoli e dintorni riunita tutta insieme, coppie male assortite, anziane uccellacce del malaugurio che poi avranno il loro riscatto, la zia bellissima che genera i primi pruriti adolescenziali, lo zio che agisce al limite dell’illegalità ma ha il cuore d’oro, e tanti altri.

In È stata la mano di Dio Sorrentino ha dato fondo a una mole sconfinata di ricordi, di immagini, di parole ascoltate o origliate in quel momento della sua vita, che verrebbe voglia di guardare questo film seduti accanto a lui e chiedergli cosa sia accaduto davvero e cosa no, cosa sia troppo assurdo per non essere successo invece veramente oppure cosa sia stato ammorbidito per pudore, o per qualunque altro motivo.

Eppure, in questo romanzo per immagini vivace, colorato, divertente come forse mai è stato Sorrentino, c’è anche un’immane sofferenza, la più grande che un adolescente, già di per sé fragile, potrebbe incontrare sul suo cammino. E quel momento, proprio quella tragica agnizione, è un momento altissimo del film, quasi buzzatiano, con questa surreale impossibilità dei medici di riuscire a dire al ragazzo cosa sia successo ai suoi genitori.

In chiusura, il dialogo con l’agognato maestro Antonio Capuano: quante grandi verità quel profeta è capace di dire al giovane Sorrentino, che illuminazione, che rivelazione devono essere state per lui quelle parole. Che le abbia pronunciate davvero, poco importa, perché il futuro regista dimostra di aver appreso la lezione.

Ultima menzione per gli attori. Già detto del sorprendente Scotti, sugli altri non ci potevano essere dubbi: Servillo e Saponangelo, Betti Pedrazzi memorabile nel ruolo della baronessa, Renato Carpentieri con le sue solite sublimi fiammate, Ciro Capano nei panni di Capuano, il bravissimo Biagio Manna che è il contatto del film – e di Fabio – con il ventre di Napoli, Luisa Ranieri, che in questa storia, della città di Napoli, è un po’ l’incarnazione.