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Alessio Zuccari

Come prima, Tommy Weber e Antonio Folletto raccontano il film

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All’interno della selezione ufficiale della XIX edizione Alice nella Città trova posto anche l’ultimo film di Tommy Weber, Come prima, in sceneggiatura al fianco di Filippo Bologna e Luca Renucci. Un road movie che lega la Francia a Procida, una storia di due fratelli costretti a ritrovarsi dopo essersi separati 17 anni prima, ai tempi della Seconda guerra mondiale. Fabio (Francesco Di Leva) è una camicia nera mai pentita, rimasto aggressivo e violento nel corso del tempo, mentre André (Antonio Folletto) accantona l’orgoglio per tornare ad abbracciare il sangue del suo sangue in occasione del funerale del padre, scomparso da pochissimo e il cui ultimo desiderio è far riunire i propri figli. Abbiamo discusso del film con il regista e Antonio Folletto in occasione di un incontro ravvicinato.

Come prima è tratto dall’omonimo graphic novel dell’artista francese Alfred. Cosa ti ha affascinato e come è nata poi l’idea di farne un film?

Tommy Weber: Cercavo da diverso tempo di scrivere una mia sceneggiatura che parlasse di due fratelli. Quando poi mi è capitato di leggere il lavoro di Alfred mi è sembrato che fosse tutto già pronto per essere portato sul grande schermo. L’ho amato tanto e da subito, raccontava tutto in maniera molto diretta, piena di luce e umanità.

Antonio Folletto: Io il graphic novel l’avevo già letto in tempi non sospetti. Un anno e mezzo prima del film il nostro produttore, Luciano Stella, mi dice di leggere assolutamente il lavoro di Alfred perché era convinto che avrebbe trovato il modo di portarlo al cinema. Siccome lui è una persona seria che se dice una cosa poi la fa, poi è andata effettivamente così. Tommy ci ha aiutato molto per l’impianto della storia, ma non ci siamo mai posti il problema di essere esattamente aderenti a quello che c’è nel lavoro originale. L’importante è la dinamica tra i due fratelli, del loro amore e del viaggio che li porta a Procida.

Il film è sostanzialmente un road movie, un viaggio di formazione e di riscoperta della relazione tra i fratelli. Come avete gestito il passaggio dai momenti più tesi a quelli di rilascio, a volte quasi comici?

TW: Abbiamo lavorato a quattro o cinque letture del copione prima di lavorare in scena. È stata una cosa molto importante per me perché non parlo l’italiano molto bene e ai tempi delle riprese lo parlavo anche peggio. La comunicazione con gli attori era la mia più grande paura. Ho avuto un’assistente che mi ha aiutato moltissimo, Lucia Ceracchi, così da avere un dialogo con Antonio e Francesco con i quali abbiamo parlato molto tranquillamente di come io sentivo i momenti di violenza e di tormento. Sono una persona molto impulsiva e mi piace quando l’emozione emerge ed esce fuori. L’ho detto agli attori e Antonio e Francesco hanno avuto fiducia di me come io l’ho avuta della loro idea di personaggio. Ho avuto la fortuna di lavorare con due attori come loro, che si sono “tuffati” e hanno abbracciato i momenti di violenza come quelli di tenerezza.

AF: In questo senso ti aiuta molto la stanchezza… Come accade nella vita di tutti i giorni, dove quando discuti a lungo con una persona le cose alla fine diventano naturali, perché sei stremato e non ce la fai più. Quei momenti arrivavano così, ci aiutavano perché andavano a smussare lo scontro perenne tra i due personaggi.

Come prima di Tommy Weber
Un momento di “Come prima”.

La scelta dei luoghi e delle location in un film in movimento come questo è importante. Come avete lavorato da questo punto di vista?

TW: La verità è che non abbiamo avuto tanta scelta perché dovevamo girare una gran parte del film entro cinque settimane. Abbiamo girato molto ad Arpino, un luogo ricco di paesaggi e differenti scorci.

I personaggi di André e Fabio sono in contrapposizione tutto il tempo. L’unica cosa che hanno in comune sono il padre e una donna che forse amano entrambi. Come emerge nel carattere dei personaggi?

AF: Il padre è usato da André come pretesto per portare Fabio a casa. Non che non gliene importi realmente, è una cosa che fa soprattutto per se stesso. Va a prendersi suo fratello perché ne ha bisogno. Fabio è tremendamente aggressivo, ma anche André dentro di sé lo è e in alcuni momenti lo vediamo anche da fuori: è come un grido di aiuto nei confronti del fratello più grande che se ne è andato. C’è una frase bellissima che Tommy ha scritto assieme agli sceneggiatori, quando André dice a Fabio «la verità è che Maria stava con me per stare un po’ con te, e per me era lo stesso». Entrambi cercano colmare un vuoto: uno fuggendo lontano da casa, senza più nulla in mano se non i traumi del passato. L’altro facendo lo stesso viaggio, per poter sciogliere tutti i dubbi rivedendo il proprio fratello.

A guardare alcuni eventi recenti accaduti qui in Italia sembra che ci siano dei conti in sospeso con un passato mai realmente affrontato, come quello del fascismo che fa da sfondo anche alla storia di Come prima. Quanto ritieni sia importante approcciare questo genere di discorsi al cinema?

TW: La cosa che per me era più importante era il parlare di uomini, soprattutto quelli come Fabio, che era un fascista e continua a rivendicarlo. Di fatto è uno stronzo, violento e dai tanti aspetti negativi. Per questo penso sia importantissimo portare uno sguardo di amore e umanità su questo tipo di persone: sono persone che dimentichiamo spesso, perché è più facile lasciarle perdere, perché sono difficili da comprendere, ma nei confronti delle quali dobbiamo cercare comunque un dialogo.

 

 

State a casa, il grottesco lockdown di Roan Johnson

«Questa è la storia di un virus». È così che inizia State a casa, il nuovo film di Roan Johnson in uscita nelle sale a partire dal 1° luglio. Ed è immediatamente chiaro dove il nuovo lavoro del regista vuole andarsi a collocare, nel solco di un cinema da pandemia che negli scorsi mesi ha goduto già di una nutrita schiera di esponenti per tutti i gusti e palati. Da Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina al Locked Down di Doug Liman, passando nel mezzo per confezioni più ricercate e chiacchierate come quella, ad esempio, di Malcolm & Marie a firma Sam Levinson. C’è chi dalla sciagura della quarantena forzata ha tratto un impulso creativo scollegato dal discorso pandemico e finalizzato solamente a esplorare le possibilità espressive di un momento così particolare, mentre chi come Johnson invece decide di porlo a sottotesto narrativo del proprio film.

State a casa (qui il trailer) parte infatti dalla costrizione del dover rimanere chiusi nella propria abitazione durante il primo, terribile periodo di lockdown che ha investito l’Italia nella prima parte del 2020. Siamo in un appartamento assieme a Paolo (Dario Aita), Benedetta (Giordana Faggiano), Nicola (Lorenzo Frediani) e Sabra (Martina Sammarco), quattro giovani coinquilini di una città senza nome che si ritrovano a condividere aspirazioni, ipocrisie e disagi di un’entrata nell’età adulta piena di incertezze e precarietà. Il problema di fondo è sempre quello, la mancanza di denaro e l’affitto da pagare allo sgradevole proprietario Spatola (Tommaso Ragno), mentre all’interno del gruppo ribollono anche tensioni emotive e sentimentali.

Johnson lavora per lunghi piani sequenza e lascia ai suoi giovani attori ampio spazio di manovra all’interno di primi quaranta minuti di film che prendono dalla commedia situazionale e che tratteggiano dinamiche e intrecci per i corridoi e le stanze dell’appartamento, dove il film è quasi interamente ambientato. A un certo punto però State a casa muta forma e cambia pelle, così come fa il serpente di Sabra che è un punto di raccordo tra il prima e il dopo della pellicola. Lo ammette lo stesso regista che il suo film parte in un modo e finisce in un altro, a cavallo tra la commedia che diventa dark e finisce per sfiorare i domini del grottesco e del surreale. Uno spettatore messo di fronte solamente all’inizio e alla conclusione dichiarerebbe di aver assistito a due lavori completamente differenti. Il cambio è netto, ma non sempre graduale e lascia ben percepire un cambio di tono che non mantiene in tutte le sue parti l’intensità che alcune sfumature hanno di più rispetto ad altre.

Avviene qualcosa di clamoroso nel racconto ed è chiaro come Johnson voglia andare a ragionare sulle storpiature degli esseri umani quando sono messi davanti a qualcosa di inaspettato e in un contesto di straordinarietà. Lo fa cercando di premere l’acceleratore sulle derive più grette e inconfessabili degli individui e del loro individualismo, tentando di far risaltare gli accenti personali appunto con una progressiva discesa nei meandri di atti e riti che fondono l’incoscienza all’esoterismo. Ma la sezione di State a casa dedicata alla pura commedia è quella che funziona maggiormente e che ragiona su alcuni crack del singolo e della società grazie all’ottima alchimia di un cast energico e in perfetta sintonia.

Il film cede e traballa andando avanti, quando si allontana dai lidi sui quali inizialmente ben si pianta e si sporge a sondare l’abbrutimento passando per snodi didascalici e derivativi. L’esponenziale incupirsi non rende giustizia alla possibilità di esplorazione di alcune tematiche che per una prima porzione di girato sembrava potessero essere affrontate di petto e con una graffiante frizzantezza. Una frizzantezza in realtà poi soffocata da un avvicinamento al finale che come abbiamo detto rovescia il punto di partenza, ma lo fa più con demeriti che riconoscimenti e afflosciando inesorabilmente una verve che avrebbe potuto offrire molto di più.

Morrison: così Lorenzo Zurzolo vuole essere una rockstar

Partendo dal suo romanzo uscito nel 2017 e scritto assieme a Giacomo Gensini, Dove tutto è metà, Federico Zampaglione re-immagina con Morrison i primi passi di una aspirante rockstar. Ma tra l’affitto da pagare e gli affetti familiari sempre un po’ fumosi, il percorso per diventare una star a volte è molto meno rock di quanto uno possa immaginare.

Lo sa bene Lodo (Lorenzo Zurzolo), che assieme alla sua band, i Mob, si esibisce nel rinomato e storico locale Morrison in attesa di una svolta forse nemmeno troppo cercata. È importante l’amicizia che si instaura, rapidamente e in modo fortuito, con Libero Ferri (Giovanni Calcagno), meteora di un mondo musicale che pare averlo scottato per sempre dopo un importante successo che gli ha dato molto ma molto gli ha anche tolto. E la svolta arriva, è lì a un passo (con il consenso del cameo di un autoironico Ermal Meta), ma le carte in tavola sono troppo ben apparecchiate per non finire ben presto scombinate dagli eventi.

Così come scombinate sembrano essere un po’ anche le intenzioni del film di Zampaglione, che dice di pensare al suo Morrison come a una canzone dei Tiromancino ma che nella realtà delle cose non imprime né ritmo né scossa vitale. Manca quella vibrazione che una composizione musicale ben riuscita si porta dentro, nelle corde, così come manca quella forza che il Ferri di Calcagno dice al giovane Lodo di dover scaricare a terra per farla arrivare più intensamente al pubblico che incita il suo nome.

In questo racconto che parte dalla musica in fin dei conti di musica ce n’è davvero poca. Ed è un problema, perché il film parte con una canzone scritta e performata da Zurzolo che promette e fa sperare bene per ciò che seguirà. Poi però al ragazzo, che è una delle migliori prospettive del cinema italiano per doti e appeal, tutto questo spazio per far risuonare la musica dei Mob non viene dato. Riecheggia anche il brano Cerotti dei Tiromancino, già pronto a diventare tormentone e costruito ad hoc sul film che in quest’ottica assume funzione quasi da musicarello, ma non è abbastanza.

Un peccato che ci venga concesso così poco delle dinamiche interne alla band, chiaramente ben assortita e affiatata. Il focus non è su di loro ed è qui la maggiore carenza di Morrison, che lascia a metà un potenziale pronto a brillare ma rimasto inesploso. Ci si perde a volte in un bicchier d’acqua, in questioni di carattere emotivo e relazionale che fungono da motore alla narrazione ma paiono stridere e rallentare quando magari sarebbe necessario un riff di chitarra o un assolo di batteria. Molto infatti è sul rapporto che Lodo tesse con Giulia (Carlotta Antonelli), mentre all’altro capo c’è il matrimonio traballante di Libero con Luna (Giglia Marra). Nel mezzo i punti di incontro a volte sono troppo repentini, casuali e di comodo, e il mordente di quello che è un atipico racconto di caduta e ascesa finisce per perdersi. Atipico perché funziona e piace il modo in cui ascesa non sia necessariamente da associare a successo, in un percorso di scoperta individuale che in fin dei conti lascia un sapore agrodolce in bocca.

Insomma, non a tutti il destino riserva di diventare i nuovi Måneskin e anzi molti vengono consumati da quel tritacarne che si chiama spettacolo. Zampaglione prova a dire la sua con Morrison, portando su schermo anche un pizzico di esperienza personale e che funziona davvero nei momenti più spensierati, sopra o dietro al palco e con gli strumenti in mano.

Intolerance, bianco e nero fantasy nella lingua dei segni

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Si può creare un prodotto audiovisivo che affronti una tematica sociale però contornandola con alcuni stilemi di genere? Secondo Giuliano Giacomelli e Lorenzo Giovenga sì, coppia di giovani registi che collabora da oltre dieci anni e che in passato ha firmato l’horror indipendente La progenie del diavolo e il cortometraggio Gemme di maggio con Franco Nero. Così nasce Intolerance (qui il trailer), storia in bianco e nero su un barbone sordo che vive in una città indifferente dove forse risiede ancora un pizzico di inaspettata magia. Ne abbiamo parlato proprio con Giacomelli e Giovenga.

Il vostro corto inizia con queste due frasi sovraimpresse: «Il silenzio è la forma più alta di parola. Comprenderlo è la forma più alta dell’essere umano». Cosa significano e come si legano alla necessità di raccontare Intolerance?

Lorenzo Giovenga: Questo progetto ha un’origine lontanissima. Quando io e Giuliano facevamo l’università ci è venuta in mente l’idea di un sordo che voleva far diventare tutti sordi. Poi la storia è rimasta dormiente per circa sei o sette anni, forse anche di più. Ci è tornata in mente la notte degli Oscar (2019) quando ha vinto Roma di Alfonso Cuarón e ci siamo detti, ironicamente, che facendo un film in bianco e nero e anche muto i soldi li ottieni in un attimo. Dopo questa battuta e con l’uscita del bando Nuovo IMAIE ci siamo detti di provare e vedere come andava. E infatti abbiamo vinto il bando. Quello che era nato inizialmente come un gioco, una volta ottenuti i fondi, è diventato qualcosa di molto più interessante che ci ha messo di fronte a tutte le dinamiche e le difficoltà produttive del caso, come quelle del lavoro sulla lingua dei segni, sul silenzio, sugli effetti visivi. La frase iniziale si allaccia alla volontà di introdurre il discorso non tanto della sordità ma più che altro del silenzio. Il film non solo ha come protagonista una persona sorda, ma è effettivamente muto per tutti e il punto di vista è quello del sordo. Volevamo giocare sul fatto che la visione è senza parole e se lo capisci denota un intento di comprensione alto e nobile, che va oltre la parola.

Giuliano Giacomelli: Ciò su cui il corto vuole andare a riflettere, dietro anche a un finale che può sembrare più o meno cinico, è l’uso sbagliato che si può fare della parola. Viviamo in un sistema di iperstimolazione di linguaggio, di informazioni su informazioni e spesso si finisce per parlare a caso, soprattutto sui social, dove tutti si sentono in diritto di dire tutto.

La città del corto è uno spazio quasi metafisico, alieno. Una sensazione esaltata dalla splendida fotografia in bianco e nero di Daniele Trani. Sembra quasi l’Eur nel finale de L’eclisse di Antonioni.

GG: Per il discorso sulla città siamo partiti da un primissimo presupposto, ovvero raccontare una Roma dal respiro internazionale, cercando di distanziarci da una “Roma da cartolina” fuggendo gli scorci più facilmente riconoscibili e stereotipati. Allo stesso tempo non volevamo nemmeno raccontare la Roma di periferia dei crime movie che in Italia si stanno diffondendo molto nell’ultimo periodo. Volevamo creare un non-luogo che è Roma ma potrebbe essere ovunque.

LG: L’eclisse è uno dei miei film preferiti di Antonioni, ma questa è la prima volta che ci rifletto… Quello di creare uno spazio non precisato è un discorso che stanno facendo moltissimi registi della nostra generazione che cercano di prendere la città da un punto di vista non strettamente riconoscibile. Abbiamo asciugato molto anche in fase di montaggio, perché inizialmente volevamo dare un respiro ancora più internazionale, ad esempio con cartelli in inglese. La città è comunque importante, perché con la sua struttura geometrica aiuta a creare il dramma.

Intolerance i registi Giacomelli e Giovenga
“Intolerance”, i registi Giuliano Giacomelli e Lorenzo Giovenga.

Agli Oscar 2021 uno dei film che ha ottenuto più candidature è Sound of Metal, dove la resa sonora è fondamentale per delineare il discorso sulla sordità. Anche Intolerance fa leva sul lavoro di sound design ed editing.

GG: È stata la cosa più difficile, ma anche la più stimolante e divertente. Quando abbiamo iniziato a lavorare per presentare il film al Nuovo IMAIE abbiamo sottovalutato molti degli aspetti che poi ci saremmo ritrovati ad affrontare, poi abbiamo capito di dover venire a patti con molte cose. Per prima cosa dovevamo incontrare la comunità dei sordi per evitare di cadere in facili errori e durante la fase di preparazione siamo entrati in contatto con la FIAS (Federazione Italiana Associazione Sordi) e la sua presidentessa Laura Santarelli. È stato un processo molto stimolante perché abbiamo provato a capire come effettivamente sentono i sordi. Infatti non è che le persone sorde non sentono, hanno un proprio mondo sonoro a seconda del loro grado di sordità. Una di queste persone ci faceva l’esempio che una suoneria per lei risultava come un petardo che esplode. È un codice sonoro totalmente diverso. Quello che abbiamo provato a fare con il sound design assieme a Leonardo Paoletti, Jacopo Lattanzio ed Enrico Roselli è stato ricreare il paesaggio sonoro e reinventare totalmente certi suoni. E Sound of Metal è interessante anche perché riporta molti dettagli che quando entri a contatto con la comunità dei sordi finisci per ritrovare. Ad esempio come hanno un gesto che equivale al nome di una persona, oppure come anche loro abbiano la musica e la fruiscano captando le vibrazioni.

LG: Quello che mi ha colpito è come le persone sorde immaginino i suoni in una maniera totalmente differente da come li concepiamo noi. Abbiamo fatto del lavoro da foley artist, da rumorista, costruito con microfoni a contatto, che funzionano con il tocco e non tramite vibrazioni di aria. Abbiamo costruito un ambiente sonoro che si può percepire adeguatamente solamente al cinema e che nasconde tonalità davvero interessanti. Inoltre c’è un intero mondo da scoprire nella comunità dei sordi, sono fieri di esserlo e non si considerano disabili. Eravamo terrorizzati che potessero prendere in modo sbagliato la sceneggiatura del corto, perché loro hanno il proprio mondo e gli piace stare nel loro mondo. La scelta compiuta dal protagonista nel finale per noi era un twist narrativo dai contorni quasi negativi, mentre per loro cattura la vera essenza dell’essere sordi e assume una prospettiva differente, molto sfaccettata.

Strettamente collegato a questo è quindi anche il lavoro fatto con gli attori e la lingua dei segni.

LG: il training con gli attori è stato molto particolare. Una delle prime cose che ci è stata chiesta è perché non abbiamo preso degli attori sordi. C’erano alcune direttive da seguire nel bando che abbiamo vinto, ma soprattutto avevamo iniziato un percorso creativo con gli attori scelti ancora prima di partecipare. Per il protagonista Marco Marchese è stato un processo più complesso e talvolta capitava che confondesse alcuni piccoli gesti che finivano per significare altro rispetto a quello che doveva dire, creando delle situazioni anche comiche. Quello di Marial Bajma Riva è stato invece un approccio interessante. Essendo lei anche una ballerina ha interpretato il lavoro da fare con la lingua dei segni quasi come se fosse una danza. Una cosa che ci ha fatto molto piacere è come la nostra tutor abbia notato che nel risultato finale il barbone sembra avere un modo più grezzo e sporco di esprimersi nella lingua dei segni, mentre la ragazza pare avere una “dizione” più pulita ed elegante.

GG: La cosa difficile è mantenere la posizione non solo della mano, ma anche delle dita e del braccio che tutte assieme, nel complesso, vanno a formulare un discorso mimico ben preciso. È stato molto interessante vedere come il carattere dei personaggi, alla fine, sia stato in qualche modo trasmesso anche sulla lingua.

Intolerance, Marial Bajma Riva
Marial Bajma Riva.

È insolito che un prodotto audiovisivo italiano possa contare su effetti visivi di alto livello, soprattutto se è un cortometraggio. Nel caso di Intolerance, però, vi siete avvalsi del lavoro di Nicola Sganga, David di Donatello per Il racconto dei racconti.

LG: Una cosa che ho capito con questo corto è che in Italia non mancano gli effettisti, ma mancano i produttori e i registi. È il tempo di preparazione degli effetti che crea la qualità dell’effetto finale. Prima di girare abbiamo trascorso un paio di mesi di pre-produzione durante i quali ci siamo occupati della scansione del torace in 3D, degli storyboard, delle preview. Sul set abbiamo girato con tre telecamere, necessarie per la rotazione del corpo e per captare i marker. Se qualcosa finiva per uscire male sarebbe stato molto difficile rimediare in seguito, ma la stretta sinergia con Nicola Sganga ha permesso di creare un effetto visivo di qualità con una relativa facilità.

Prossimamente Intolerance arriverà su RAI Play in occasione di una campagna di sensibilizzazione sulla lingua dei segni.

GG: Sono molto soddisfatto del percorso che sta facendo Intolerance, nonostante il periodo non certo dei migliori. RAI Play è sicuramente una vetrina molto importante e siamo riusciti a fare un corto che affronta una tematica sociale come la sordità della quale si sa poco, però allo stesso tempo contaminandola con il cinema di genere.

LG: Voglio ricordare che il corto è stato prodotto da Daitona, di cui sono socio insieme a Lorenzo Lazzarini e Valentina Signorelli, casa di produzione under 35 che crede nei prodotti giovani. Abbiamo finito le riprese a ridosso dell’inizio della quarantena dello scorso anno e anche nella fase di post-produzione a distanza è stata fondamentale la volontà di lavorare tutti assieme.

Quali sono i vostri progetti futuri? Tornerete a collaborare insieme?

LG: Io e Giuliano abbiamo iniziato questo percorso insieme sui banchi dell’università, lavoriamo insieme perché è un valore aggiunto e ci troviamo bene. Abbiamo in cantiere un lungometraggio di genere alla Ari Aster o alla Robert Eggers, per il quale siamo in dialogo con alcune importanti case di produzione. E per Intolerance si è aperta inoltre la possibilità di un discorso seriale.

GG: La volontà è quella di alzare l’asticella della difficoltà per far diventare il corto una serie, che è un’idea sette volte più folle. Quindi la risposta è sì, torneremo di certo a lavorare insieme.

 

 

La partita, il calcio come un western

Quella accalcata attorno al polveroso rettangolo di terra cuore pulsante de La partita è una rapace umanità che “non ha mai vinto un cazzo”. Un prisma dai mille volti e dagli occhi arrossati da alcolismo e sogni infranti che all’interno di quel campo dissestato proietta la migliore estensione di sé, quella che qualche desiderio ancora riesce a immaginarselo davanti. 

Con il suo esordio al lungometraggio Francesco Carnesecchi firma un’opera prima che cattura l’aspro sapore della frontiera, in un racconto non privo di picchi umorali e a tratti acidi e grotteschi. Sembra di muoversi dalle parti di un western moderno, camminando nella terra di confine di una periferia distante mille miglia dal cuore di una Roma indifferente. La cupola di San Pietro rimane lì, sullo sfondo al tramonto, bella da ammirare ma aliena.

D’altronde nei novanta metri del campo non c’è Dio che tenga se non quello del pallone, della coppa che non conta nulla ma della partita che conta tutto, da portare a casa a forza di tacchetti che colpiscono i polpacci e gonfiano le caviglie. Si rivela perfettamente adeguato il taglio grezzo di Carnesecchi nel lasciare fuori fuoco questi uomini e donne sbavati dalla vita e divenuti avvoltoi, che all’interno della storia intrecciata e sovrapposta de La partita tentano una rivalsa, una svolta.

Così se da una parte c’è l’allenatore da decenni della stessa squadra mai vincente ma sempre fedele ad un ideale (Francesco Pannofino), dall’altra un presidente disinnamorato e indebitato fino al collo per rimediare a peccati non suoi (Alberto Di Stasio). E ancora un padre (Paolo Sabbatucci) che tenta di plagiare un figlio che sta diventando grande ed è pronto ad impattare con la realtà, Antonio (Gabriele Fiore), la giovane star locale che porta il numero 10 sulle spalle e un peso sulla coscienza che gli ha succhiato via tutto il talento. 

A vorticare in una danza dalla crescente tensione non ci sono cowboy o sceriffi dal grilletto facile, ma questa periferia è comunque una terra tremendamente ostile. La partita cattura l’immaginario dei lavori di confine di Taylor Sheridan e lo declina sapientemente in un microcosmo infinitamente più insignificante, che alle ampie distese del Texas contrappone alti e grigi palazzi.  

Tutto finisce per convergere verso un finale agrodolce, confezionato in modo così genuino e spontaneo da rendere struggente quella vena di malinconia che irrompe nella consapevolezza di un attimo che oramai è già passato.