Esterno notte, la sinfonia della storia di Marco Bellocchio

Esterno notte di Marco Bellocchio
Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in "Esterno notte" di Marco Bellocchio.

Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, da tre episodi ciascuna, è un richiamo al Buongiorno, notte del 2003 ma ne rappresenta il controcanto.

Un controcanto sinfonico nella misura in cui quello era una lettura cameristica di una pagina oscura della storia italiana: l’autore getta contro la sua creatura (peraltro, una creatura meravigliosa, considerabile un classico della modernità) un guanto di sfida, un processo condotto con il codice del cinema, cambia l’angolazione da cui osserva l’affaire Moro e lo espande in un affresco corale con tanti protagonisti, ognuno con una statura epica, avvolgendo il tutto nei toni foschi della fotografia di Francesco Di Giacomo e nella partitura drammatica, bellissima, di Fabio Massimo Capogrosso.

La prima grande virtù dell’opera di Bellocchio è già nella scrittura, e un plauso va tributato a Ludovica Rampoldi, Davide Serino, Stefano Bises e il regista stesso: la più coraggiosa e anche più vincente delle idee è stata quella di raccontare la prigionia di Moro attraverso le reazioni dei politici, dei suoi cari, dei brigatisti stessi. Un “colore”, come insegnano nelle scuole di sceneggiatura: un evento che non è in primo piano, ma influenza tutto quello che vediamo sullo schermo.

Mantenendo la struttura corale del racconto, ci sono comunque personaggi che si elevano a protagonisti di puntata (espressione televisiva, non proprio piacevole da usare per un’opera come questa): è il caso di Toni Servillo nel secondo episodio, straordinario per l’intensità sofferta che ha conferito a papa Paolo VI, dapprima apparentemente padrone della situazione quando illustra alla signora Moro “lo sterco del diavolo” e i suoi impieghi, ma poi in preda a una dolente crisi quando arriva il fatidico momento della scrittura della lettera ai brigatisti.

Ma su tutti, probabilmente, svetta il Cossiga di Fausto Russo Alesi, che già era stato Giovanni Falcone ne Il traditore: è stata decisiva la scelta in sceneggiatura di dare la giusta centralità al ministro degli interni, di fatto il primo a dover correre ai ripari quando la situazione precipita, quando c’è uno stato di allerta da gestire e gli equilibri non si decidono più nelle stanze del palazzo fra un compromesso e l’altro. Cossiga era molto affezionato a Moro, il loro rapporto è molto ben raccontato, e l’impossibilità di trovare una soluzione per l’amico rapito (nonostante l’imponente e avveniristico impiego di risorse investigative), la successiva crisi e il definitivo senso di colpa rendono il personaggio drammaturgicamente fondamentale.

Non si può non ammirare, infine, il Moro di Fabrizio Gifuni: il grande, grandissimo attore riesce a fugare fin dalla prima scena, fin dal discorso all’assemblea, il sospetto della semplice imitazione e grazie a un sapiente uso del corpo, delle mani soprattutto, il suo Moro è più vero del vero: la scena del ritorno a casa e della umile cena a base di uova è una vetta poetica, da parte sua e da parte di Bellocchio.

Esterno notteè più vicino a Todo modo e Cadaveri eccellenti che non ad altri film orientati verso la cronaca e la ricostruzione d’epoca: nella modellazione plastica degli uomini di potere, le cui fisionomie e fisicità sono esaltate, sottolineate, scolpite quasi a fare di loro delle maschere piuttosto che fac-simile storici fedelmente ricostruiti col trucco e il parrucco, Bellocchio raggiunge il difficile e sempre insidioso traguardo del grottesco. Ma sarebbe riduttivo limitare a questo aspetto la riuscita dell’opera di Bellocchio: come ha bene scritto su Quinlan Alessandro Aniballi, “Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità”.