“Babylon Sisters”, le donne salveranno il mondo?

babylon sisters

Spesso la realtà mostra un volto sicuramente più fantasioso e imprevedibile di quello evidenziato e raccontato dal cinema. E di questo potere è perfettamente consapevole il regista Gigi Roccati che, dopo aver viaggiato attraverso la Cina, l’Afghanistan, la Nigeria e il Libano per portare sul grande schermo proprio il reale all’interno dei suoi documentari, approda a Trieste per Babylon Sisters, il suo primo lungometraggio, ispirato al romanzo di Laila Wadia, Amiche per la pelle.

Qui, però, ancora una volta, viene raggiunto da una ventata d’inaspettato realismo che, prendendo decisamente il sopravvento, riesce a definire e determinare con decisione il volto del suo Babylon Sisters, conducendolo oltre le atmosfere sognanti di un racconto narrato attraverso i colori e le sonorità bollywoodiane. Ambientata in una città di confine affacciata sul mare e, da sempre, abituata a essere abitata da etnie diverse, la vicenda si concentra sugli eventi che interessano il quartiere di Ponziana. Qui, all’interno di un edificio quasi dismesso e abbandonato a se stesso, vivono veramente le famiglie degli ultimi, ossia di chi, arrivato in Italia da lontano, si trova a condividere condizioni di difficoltà quotidiana e il rifiuto di una comunità non sempre disposta ad accoglierlo.

In quest’ambiente in cui, allo stesso tempo, si sovrappongono e si alleano le diversità culturali di famiglie indiane, turche, cinesi e croate, Roccati si è sentito immediatamente a proprio agio tanto da orchestrare una vicenda che, pur mantenendo una sua leggerezza originaria, prende spunto proprio dalle diverse sonorità linguistiche e dalle discromie sociali presenti in questo specifico tessuto cittadino. Armonizzare un insieme così ampio di colori, tradizioni, accenti e abitudini quotidiane, però, non è un’impresa semplice, soprattutto se si ha intenzione di mantenere un equilibrio tra atmosfere drammatiche e una sorta di positivismo onirico. Per questo motivo, dunque, Babylon Sisters presenta una certa instabilità, soprattutto dal punto di vista narrativo che, però, riflette alla perfezione una realtà di partenza ancora alla ricerca di un equilibrio globale in cui le parole “diversità” e “straniero” dovrebbero essere interpretati, finalmente, in modo positivo per avviare un processo di crescita ed evoluzione.

Andando oltre queste dissonanze, però, il film di Roccati ha il pregio di aver portato al cinema, soprattutto all’interno di un’opera prima italiana, i volti quasi inediti di quattro donne che, muovendo i loro passi proprio dal mondo del reale, si sono impadronite completamente delle atmosfere e dell’andamento di questa vicenda. Le “sorelle”, interpretate da Nav Ghotra, Yasemin Sannino, Nives Ivankovic e Xia Yinghong, cui si aggiunge la giovane Amber Dutta, potrebbero essere interpretate come l’ennesimo esempio di girl power. In realtà, però, accompagnate nei loro passi stentati e impauriti verso il mondo esterno dalle musiche di Peppe Voltarelli, utilizzano le qualità naturali dell’essere femminile per rintracciare un’occasione alternativa alla minaccia di sfratto fisico e sociale in cui vivono. In questo senso, dunque, il processo di riconoscibilità e alleanza è tutt’altro che immediato e privo di miserie personali. Così, contrapponendo tradizioni culinarie, speranze, sogni traditi e sconfitte personali, il progetto di aprire una scuola di danza bollywoodiana si realizza forse troppo repentinamente ma non senza i dovuti tentennamenti. Un aspetto, questo, che, insieme al lavoro svolto sul territorio dal centro sociale “Casa delle Culture” e dagli anziani dell’associazione “Rena Trieste Vecia”, entrambi incorporati nella struttura reale del racconto, contribuisce a mantenere la visione concreta che definisce il cinema di Gigi Roccati.