“Pro Loco”, fra pop art e skaters

un'immagine dal documentario Pro Loco

Pro Loco di Tommaso Lipari (passato all’ultimo TFF) non è un film, o mediometraggio che dir si voglia. Non è neanche un documentario. O meglio: non può essere ridotto a questo.

A dispetto del budget  a dir poco limitato, questa produzione sconfina infatti dai generi tradizionali con grande libertà e consapevole autonomia, fino a rendere labili le demarcazioni tra i diversi compartimenti stagni: se da un lato ingloba in sé i moduli dell’animazione, richiamando certe atmosfere del rotoscope di Waking Life a firma di Linklater, dall’altro mostra di aver assorbito la lezione di fumetti d’ispirazione pazienziana; e se è al cinema muto che Lipari strizza l’occhio, è di talune correnti artistiche contemporanee che si fa portavoce e interprete, vestendo i panni di un Koons “de noantri”. Sembra anzi farsi uno dei simboli della pop art del Terzo Millennio.

Quantomeno nel linguaggio, che è quello delle nuove, ma ormai non più tanto nuove, generazioni: nel linguaggio che si esprime nei media senza filtri o provocazione. Lipari mostra di destreggiarsi abilmente – poteva essere diversamente, per uno skater? – nel mondo dei memi e del mainstream, trattandoli come una delle forme possibili del linguaggio: il doppiaggio dei carabinieri nella centrale, alla stregua di quelli di Marco Papa che spopolano sul Grande Tubo, non avrebbe potuto avere una sua legittimazione, né dotarsi di una dignità e una dimensione proprie, se non fosse stato volutamente finto, grezzo, parossistico – insomma: genuinamente amatoriale. La stessa scelta dell’uso dello smartphone al posto della cinepresa non è ideologia, ma semplice aderenza alla realtà. Persino la mente di uno degli skater è abitata da archetipi rivisitati in chiave pop: seni nudi e hot dog convivono sotto l’etichetta comune di “hot”, che appare e scompare a intermittenza come una segnaletica al neon di Kossuth, mentre la materia – nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma in pixel – si fa e disfà a ritmo della voce pornografica robotica che così bene conosciamo, perché s’intromette nei nostri server infestandoli a ogni caricamento di streaming.

Il risultato sono 60 minuti sulla vita skater che, nonostante la natura necessariamente monografica del film, scorrono assai velocemente, proprio grazie alla fusione sapiente di canali diversi offerti dal tanto discusso post-moderno. Una fusione gioiosa, vitale, soprattutto nella seconda parte del film, ma che non riesce a negare il baratro di solitudine in cui sembrano piombate le vite degli skater: essi, muovendosi tra architetture pallide, ampie e desolate, non comunicano mai verbalmente: condividono forse solo la passione dello skate, vissuta con rigore e dedizione.

Che lo skate – mezzo di salvazione e di fuga, collante sociale – possa allora rivelarsi un elemento disgregatore rispetto al resto della società, ai non iniziati? La visione di Pro Loco non solleva né esclude quest’interrogativo.