Fotografi di scena/6: Antonello&Montesi

Antonello e Montesi
Phillippe Antonello e Stefano Montesi in un momento di riposo sul set.

Antonello&Montesi (Philippe Antonello e Stefano Montesi) sono senza ombra di dubbio il duo più prolifico e affascinante fra i fotografi ora in circolazione in Italia. Dal ritratto al posato e alle foto sul set, i loro scatti sono inconfondibili per ricchezza creativa e qualità artistica. Con due storie completamente diverse alle spalle e con due stili molto differenti tra loro, sono riusciti a trovare una miscela esplosiva di visione fotografica. I migliori scatti e i migliori poster di film italiani e stranieri provengono dalla loro officina creative: George Clooney, Woody Allen, Jude Law, Jeremy Irons e tante altre star di Hollywood sono state immortalate da loro. L’estro e la passione spingono Antonello&Montesi a studiare sempre e a evolversi, sperimentando nell’arte della fotografia 3D ed esponendo le loro opere in Italia e all’estero; tra le loro collaborazioni più proficue e longeve c’è sicuramente quella con lo studio di grafica BigJellyFish.

Qual è stata la vostra prima macchina fotografica?

Philippe. La mia prima macchina fotografica copiava il marchio Nikon ed era una Top Con, degli anni ’70. Apparteneva a mio padre, che mi aveva vietato di usarla. Avevo 12 o 13 anni quando mi sono incuriosito e l’ho presa di nascosto per fotografare. Posso dire che è iniziato tutto come una trasgressione del divieto di papà. Sia io che Stefano apparteniamo all’era dell’analogico: erano altri tempi, fotograficamente parlando. Come diceva Giovanni Gastel, parlando della differenza tra analogico e digitale, nel caso del digitale lo scatto è la fase iniziale del processo. Sono due modalità diverse.

Stefano. Una Yashica FX2, ci sono voluti due anni per decidermi tra quelle che erano alla portata del mio portafoglio. Ricordo che un’alternativa all’epoca era la Praktica B200, un vero e proprio mattoncino… Comprai la mia prima reflex dopo aver sfogliato decine e decine di riviste fotografiche dove i test degli apparecchi erano all’ordine del giorno. Alle medie avevo fatto un corso di fotografia e camera oscura, ma sinceramente non era la mia passione, non avrei mai pensato di farne una professione.

Qual è stato il vostro primo film? Potete raccontarci qualche aneddoto?

Philippe. Il mio primissimo film è stato Un’anima divisa in due di Silvio Soldini, conosciuto tramite l’Istituto Europeo di Design: alla fine dell’anno, avevano visionato il portfolio di vari studenti e avevano scelto il mio di street photography in bianco e nero su Milano. Silvio lo aveva visto su una rivista e mi propose di andare sul set del suo lungometraggio con Fabrizio Bentivoglio. Ho iniziato con criteri molto basici, usavo la Leica o la Canon. Mi son ritrovato a lavorare con il colore. Allora, a fine anni ’90, si lavorava con le diapositive. È stata un’esperienza molto difficile, ma anche formativa. L’esperienza sul campo cambia inevitabilmente le tue coordinate, ti ritrovi a fare cose differenti da ciò che ti eri prefissato. D’altronde, è proprio questo il bello dei set cinematografici e devo dire che preferisco l’esperienza alla preparazione scolastica. In genere, poi, il mestiere del fotografo è considerato indipendente e solitario; invece il nostro è un lavoro di squadra a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la post-produzione, ad esempio, ho dovuto imparare alcuni aspetti prettamente tecnici dai ragazzi più bravi al PC rispetto al fotografare. 

Stefano. La prima volta su un set fu un piccolo special che realizzai su Ama il tuo nemico di Damiano Damiani: mi presentai sprovvisto della necessaria esperienza e, alla prima scena girata di notte in un interno troppo buio per me, tirai fuori il flash e scattai… Non aggiungo altro. Il primo vero film fu L’odore della notte di Claudio Caligari. All’epoca lavoravo con le macchine analogiche, due Nikon F90X utilizzando il Sound Blimp per non fare rumore.  Il produttore voleva cacciarmi dal set perché le foto erano spesso mosse, per me era difficilissimo seguire il direttore della fotografia Maurizio Calvesi nelle sue peripezie, non esisteva il digitale e io usavo gli spezzoni di pellicola cinematografica ribobinata nei rullini vuoti, che mi facevo dare dai laboratori di sviluppo e stampa da un’ora. Era la 500 Asa della Fuji, che tiravo di uno stop, ma la poca luce sul set e le azioni rapide richieste agli attori non mi consentivano di fare le foto nitide. Così chiesi agli attori (Mastandrea, Giallini, Tirabassi) di posare per me facendo finta di recitare come si faceva in passato. Ne uscii vivo.

Antonello&Montesi
Antonello&Montesi, “Freaks out.”

Curate voi la post-produzione delle vostre foto? Per color e il fotoritocco siete autonomi o preferite affidarvi a collaboratori esterni?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda l’aspetto visivo delle immagini che produciamo durante il set, ce ne occupiamo noi: pasta, grana, contrasto, profili cromatici. La vera capacità durante la post-produzione è quella di adattarsi: il risultato finale deve essere la somma di tanti punti di vista, a partire ovviamente dal tuo. Per quanto riguarda gli scatti per i poster cinematografici, a volte abbiamo delle indicazioni da seguire: ci facciamo sempre una bella chiacchierata col grafico, col dipartimento marketing, con la produzione e il regista. Anche la locandina può cambiare. Proprio per questo motivo, saper coinvolgere quanta più gente possibile è un aspetto essenziale nel nostro lavoro.

Che macchina fotografica usate ora e perché è la più adatta?

Philippe + Stefano. Abbiamo scelto Fujifilm per i set. Le mirrorless ci hanno permesso di non utilizzare più il Sound Blimp per attutire il rumore dello scatto, con la funzione otturatore elettronico sono diventate macchine completamente silenziose. Usiamo anche Canon 5Dsr per quanto riguarda i posati in studio e il medio formato. Oggi si sceglie una macchina per il sensore; prima, invece, si valutavano le sue ottiche o la maneggevolezza. Negli anni, abbiamo notato che il sensore di Fujifilm soddisfa meglio il nostro gusto. Il suo risultato è molto analogico. 

Gli obbiettivi: quali lenti preferite nel vostro lavoro sul set o per i posati in studio?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda le ottiche sul set, usiamo quelle fisse in condizione di scarsa luminosità: dal 23 mm f.1,4 al 56mm f.1,2. In studio usiamo quasi sempre invece lo zoom EF 70-200 mm f / 2.8L IS II USM della Canon. Sui set non possiamo muoverci troppo. Il fotografo, davanti al set, è l’unica figura che non contribuisce a fare il film, partecipa alle riprese come spettatore passivo. L’aiuto attrezzista, ad esempio, sposta delle cose che poi appariranno nel film. Il fotografo invece deve essere discreto e il meno visibile possibile. Nello studio, per i posati, è il contrario: il fotografo è il protagonista assoluto in quanto deve dirigere gli attori.  Insomma, c’è una sorta di schizofrenia in questo mestiere…

Preferite lavorare solo con la luce naturale o con diverse luci artificiali?

Philippe. Il fotografo deve essere capace di maneggiare tanto la luce naturale quanto quella artificiale, soprattutto nel cinema. Per quanto riguarda le attività commerciali, al 99% si lavora con luce artificiale. Quando siamo sul set, dobbiamo adeguarci alle luci di un altro professionista, ossia il direttore della fotografia. Lavoriamo dunque in base alla sua attività. Di solito, il regista e il suo operatore hanno concordato la luce in base al tipo di immagini che si vuole ottenere. Bisogna sposare la scelta del direttore della fotografia. Noi non possiamo assolutamente avere le stesse angolazioni della macchina da presa: la luce va dunque interpretata. Il punto di vista è per forza differente.

Stefano. La mia storia di fotografo si è formata lavorando come assistente con dei mostri sacri della fotografia e quasi tutti prediligevano le luci flash e il lavoro in studio. Parlo di Giuseppe Pino, Elisabetta Catalano, Gianpaolo Barbieri, Guido Harari fra gli altri. Sono state esperienze che hanno segnato il mio cammino e non solo da un punto di vista tecnico.  Comunque non disdegno mischiare le diverse fonti di luce tra loro.

Antonello e Montesi
Antonello e Montesi, “Catch 22”.

Ci potete dire qual è stato il primo vero e importante rimprovero ricevuto durante un lavoro, ma che vi ha insegnato qualcosa di fondamentale sul mestiere?

Philippe. È stato sul primo film, ho ricevuto una bella tirata d’orecchie dal direttore della fotografia Luca Bigazzi, che poi mi ha dato una mano. Venendo da una formazione di street photography, non ero abituato al colore: ha le sue dinamiche e i suoi equilibri, così come per il bianco e nero si lavora sul contrasto. All’epoca, con l’analogico, si sviluppava il diapositivo della Kodak in laboratorio, e lì ho notato subito i miei errori. Ma, essendo la mia prima esperienza, ho ricevuto una grande comprensione. Ovviamente, ho tentato di apprendere quanto più possibile per metterlo poi in pratica. Luca è stato il mio maestro di bottega; in Italia specialmente si crea una realtà da bottega sui set.

Stefano. Un giorno il dop Roberto Forza, vedendo le mie foto mi disse: “Devi osare!”. Quella frase, a metà tra un rimprovero e un consiglio, me la ripeto ogni volta che comincio un nuovo set.

Chi fa cinema spesso non pensa ad altro e non ha il tempo di godersi altro. Ci dite tre cose che preferite allo stare sul set?

Philippe. Appartengo a quella categoria di fotografi che scattano anche al di fuori del set. Per me la fotografia non è semplicemente un lavoro: sicuramente ho avuto la fortuna di guadagnare a partire da questa mia passione, ma resta sempre un divertimento. Non ho la passione delle automobili o delle moto di grossa cilindrata, ho la passione della fotografia e del cinema. Un articolo di giornale, un libro o un film sono fonte di ispirazione per la creazione visiva. Se cresco come persona, anche la mia fotografia crescerà. Bisogna nutrirsi di tutto. Ogni volta che fotografo, sento che una parte di me scompare, è una sensazione difficile da descrivere. Per me è insopportabile ritornare a vedere vecchie foto. Tutto ciò che ami, odi, vivi, si deposita dentro di te e si intravede poi nelle tue foto. Diversamente, sarebbe solo estetica.

Stefano. Tre cose che adoro fare quando non sono immerso nel mio lavoro sono: cucinare, leggere saggi di arte, andare a vedere mostre e musei.

Ci dite il nome di un collega che “odiate”, scherzosamente, per bravura?

Philippe. In questo caso la risposta è facile, si tratta di Stefano Montesi, il mio socio. Noi siamo un duo di persone completamente differenti, sia come persone che come fotografi. Non c’è nulla di più contrapposto. Tutte queste distinzioni sono il nostro punto forte. Se fossimo stati uguali, sarebbe stato un bel problema. È la ben nota legge degli opposti: la ricchezza proviene dal contrasto delle nostre personalità.

Stefano. Il collega che “odio” di più è Philippe Antonello, perché ogni volta che lavoriamo sugli stessi film non riesco mai a fare una foto di scena migliore della sua. Ha un occhio e una sensibilità che sono impossibili da replicare.