Alessandro Capitani

Foto di Michele Iacobini
Foto di Michele Iacobini

Alessandro Capitani ha vinto un meritatissimo Premio del Pubblico “Fabrique Du Cinéma” al Roma Creative Contest con un corto che parla di genitori e figli nell’età della chirurgia plastica. Quando l’amore va davvero al di là delle apparenze.

Nella chiacchierata con il nostro nuovo “regista del futuro” partiamo proprio da qui, dal premio ricevuto a Roma: «Il Roma Creative Contest è uno dei migliori festival in assoluto, perché è organizzato da persone giovani e perché c’è tanto pubblico. Per me era la prima volta, sono rimasto sorpreso, ti senti parte di uno spettacolo e di una comunità: ho parlato con tanti ragazzi davvero interessati al cinema». E questa è solo una tappa di un percorso già ricco di soddisfazioni: «Con La legge di Jennifer ho vinto anche il premio per cortometraggi più importante che potessi ricevere. Mi hanno mandato due settimane in California, agli Universal Studios di Hollywood, ho fatto e visto cose che mai avrei immaginato. Sono andato all’anteprima di Oblivion e avevo Tom Cruise seduto a cinque metri da me». Parliamo del premio Cinemaster Studio Universal 2013, e Alessandro l’ha vinto e consumato quest’anno, con un viaggio nel mondo del cinema industriale (ancora) più grande, ricco e potente del mondo.

Trentatré anni e tanto lavoro alle spalle, fatica e pratica, maniche rimboccate da dieci anni come operatore, assistente e poi aiuto regia. Ma durante e prima anche tanto studio teorico. «Le scuole che potevo fare le ho fatte tutte. Ho cominciato col Dams di Bologna. Interessante, ma forse poco utile per chi ha voglia di fare cinema sul serio. Nel senso che tutto quello che ho studiato lì potevo impararlo leggendo libri e vedendo film a casa mia, senza spostarmi da Orbetello dove sono nato e cresciuto».

Invece hai cominciato lì e poi sei arrivato fino al Centro Sperimentale di Roma.

L’ho frequentato dal 2006 al 2009, tre anni bellissimi in cui ho imparato molto e ho potuto condividere progetti con professionisti che altrimenti non avrei avuto modo di conoscere. Così oggi posso alzare il telefono e chiamare un’attrice richiesta come Laura Chiatti, ad esempio, per chiederle di esaminare un mio soggetto e sperare di poterla avere in un mio lavoro.  Lo stesso vale per i professori con cui ho avuto modo di rapportarmi.

E l’hai fatto? Hai alzato il telefono e chiamato qualcuno di loro per fare qualcosa insieme?

Non sono uno che di solito va a rompere le scatole. Ma sì, l’ho fatto. Per esempio attraverso Caterina D’Amico, che all’epoca era direttrice del Centro Sperimentale e anche amministratore delegato di Rai Cinema, siamo riusciti ad avere un piccolo budget per realizzare il documentario Come prima, più di prima, mi amerò che ho scritto con Stefano Grasso. Semplicemente le ho portato il progetto e le è piaciuto. In quel periodo Rai Cinema stava producendo anche un altro lavoro legato all’universo della chirurgia plastica, il film di Pappi Corsicato Il volto di un’altra, e quindi erano sensibili al tema. Era una strada che potevo percorrere, ho provato, l’idea era buona ed è andata bene.

La chirurgia plastica è infatti anche il tema de La legge di Jennifer. Perché sei tornato su questo argomento?

L’idea del corto, che parla di una bambina di sei anni che ha i genitori rifatti a tal punto da non riconoscersi nei loro tratti somatici, è nata proprio dal racconto vero di Patrizia Bruschi, una delle protagoniste del documentario Come prima, più di prima, mi amerò. La Bruschi è diventata popolare grazie alla presenza fissa in una trasmissione di Piero Chiambretti in cui era presentata come la donna più rifatta d’Italia. Lei, durante le interviste, ci aveva raccontato che sua figlia veniva presa in giro a scuola perché aveva una mamma “di plastica” e aveva dunque un problema identitario. Il tema era così particolare e interessante che abbiamo scritto questo soggetto. Il problema però era trovare una Jennifer. Sapevo che per un soggetto basato sulla storia di un bambino dovevo azzeccare il bambino, altrimenti sarebbe stato un disastro.

Infatti la bambina che interpreta Jennifer (Asia Lupò) è bravissima, come l’hai scovata?

Era l’ultima bambina in lista dopo una serie di casting nella periferia romana. Quasi non ci speravo più. Invece è entrata questa ragazzina e, appena l’ho vista, ho detto “ecco Jennifer”. Abbiamo chiacchierato tanto, ovviamente con i bambini piccoli non si fanno provini di recitazione come con gli attori. Lei era spontanea, intelligentissima. Era… lei.

Fare casting è fondamentale. Come si impara a farlo bene?

Mi ha aiutato lavorare sul campo, vedere come fanno gli altri. Ho imparato tanto come assistente di Daniele Luchetti a La nostra vita e con spot diretti da lui. Ho imparato molto anche come assistente di Carlo Mazzacurati per La passione e su altre produzioni. In generale l’importante è non stare mai fermi. Io lavoro ogni giorno, ogni giorno sto con la camera in mano. Non aspetto di fare il mio lungometraggio. O meglio, ovviamente voglio farlo e ci sto lavorando, ma nel frattempo il tempo passa e faccio anche altro per vivere. Per esempio regie per programmi tv. È tutta esperienza.