Sisterhood: sorelle in nome del basket

Sisterhood di Domiziana De Fulvio
Frame da "Sisterhood"

Sisterhood, debutto alla regia per la 37enne Domiziana De Fulvio, presentato il 21 agosto all’Ortigia Film Festival, racconta la vita di tre squadre femminili di pallacanestro nate in tre città molto diverse, Roma, Beirut e New York, ma unite dalla stessa voglia di rivalsa. «Lo sport praticato come lo facciamo noi permette di lavorare sui propri limiti e di trovare delle sorelle che ti aiutano a superarli», affermano le protagoniste, donne impegnate a perseguire una passione combattendo ogni pregiudizio sociale.

“Sisterhood is powerful“, si diceva negli anni ’70

Sisterhood nasce dall’esperienza della regista e dalla volontà di dare voce a donne coraggiose, alla loro sorellanza e all’importanza di «creare un contesto che possa permettere loro di esprimersi liberamente, essere totalmente indipendenti e dare un esempio di forza e sicurezza a tutte le giovani donne» ci ha spiegato Domiziana De Fulvio. «Gioco anch’io nella squadra di basket di Roma, e nel 2017 abbiamo avuto un primo incontro con il team di Beirut, composto da ragazze libanesi e palestinesi che vivono nel campo rifugiati di Shatila. Da questa esperienza è nato un gemellaggio che mi ha fatto avvicinare alla loro realtà. In seguito ‒ continua la regista ‒ ho frequentato un master alla New York Film Academy e anche a NY cercavo una squadra di non professioniste in cui giocare. La realtà di Beirut mi aveva molto toccato e, sommata poi all’esperienza newyorkese, mi ha fatto pensare a una rete solidale di sole donne che attraverso lo sport riescono a interagire, creando dei veri presidi di resistenza. La squadra di Roma è molto politicizzata, tante vengono da percorsi politici legati al femminismo romano; a New York molte sono vicine a contesti afroamericani e quindi a lotte sempre attuali, attive nel quartiere di Harlem e nell’insegnamento alle bambine; a Beirut c’è un forte messaggio di trasgressione positiva e cambiamento, a partire dall’allenatore uomo che attraverso il suo lavoro cerca di superare la mentalità del luogo e di formare giovani ragazze ‒ e ragazzi ‒ all’eguaglianza e all’aggregazione, permettendo alle giovani donne di uscire, fisicamente e non, da tutti i confini dentro i quali vivono».

Tre luoghi molto diversi culturalmente tra loro ma fortemente simbolici a livello sociale e politico e soprattutto legati da un linguaggio universale come quello dello sport.

Sì, mi piaceva questa idea e ho voluto esplorarla meglio. La scelta, anche nel montaggio, è ricaduta sulla creazione attraverso immagini e parole di un dialogo fra le tre realtà, al fine di trovare le similitudini nonostante le differenze dei contesti. In Italia non abbiamo una cultura del basket, praticarlo in maniera totalmente autogestita come le protagoniste del film può sembrare un’anomalia, l’America è invece considerata la Mecca del basket, ci sono campetti ovunque, eppure le donne continuano a subire discriminazioni. Far parlare questi mondi così differenti nasce dalla voglia di affermarsi che ho percepito in ognuno di questi luoghi, ma anche dalla presenza di ingiustizie che non ci si aspetterebbe ma che invece sono ancora reali.

La strada è un elemento fondamentale per le protagoniste ed è vissuta come uno spazio sociale: qual è il suo valore simbolico e come si traduce stilisticamente nel tuo lavoro? 

Sisterhood vuol dire sorellanza ed esprime i legami forti che si creano nelle squadre, soprattutto per strada. La parola “sista” negli Stati Uniti ha una forte valenza simbolica che viene percepita anche da chi è cresciuto con l’eco di quella cultura di strada, dei movimenti afroamericani e dei gruppi politici che lottano per la giustizia. Il basket praticato a livello non professionistico ambisce a conquistare gli spazi urbani, diventando una sfida soprattutto per i gruppi di Roma e New York. Subisco da sempre un fascino particolare per tutti quei contesti dove l’aggregazione nasce da una passione comune, come per i graffiti, lo skate e il basket. Inevitabile è stata l’influenza anche sullo stile con il quale abbiamo pensato il documentario: tutto è girato con macchina a mano, e ho continuato su questa scia chiedendo alla rapper Oracy un pezzo inedito che parla di sorellanza e delle difficoltà che le donne incontrano ogni giorno.

Sisterhood
“Sisterhood”, la squadra di NY

Le protagoniste di Sisterhood, in diverse forme, si dichiarano tutte femministe. Cosa lega femminismo e sport e quanto pensi sia importante parlare di femminismo oggi?

Riscontro un bisogno di discuterne sempre di più e soprattutto senza vergognarsene: non credo sia un concetto superato, al contrario. Ma è importante fare attenzione nel parlarne, a partire ad esempio proprio dal linguaggio ‒ una delle protagoniste del film fa notare come nel basket si marchi solo “a uomo” e non “a donna” ‒ sul campo e nella vita di tutti i giorni. In Sisterhood è forte il rimando a un femminismo che però oggi è più un femminismo delle differenze. Io racconto donne emarginate: nere, rifugiate, lesbiche. Tanti diversi tipi di oppressioni e di autodeterminazioni.