Il documentario non ha più codici

Luca Scivoletto (a sinistra) durante le riprese de "L'uomo pietra". Foto: Lorenzo Sammito.

Con “L’uomo pietra” ha vinto il premio per il miglior corto italiano al Riff: Luca Scivoletto è uno dei nuovi autori di documentari più apprezzati. Simone Isola lo ha intervistato per noi.

Come altri suoi colleghi, Luca ha affiancato alla formazione teorica di tipo universitario una precoce pratica cinematografica e l’impegno nelle associazioni giovanili di categoria. Un percorso rivelatore di una grande passione per il “cinema del reale”, non inteso come genere chiuso ma come uno sguardo aperto a una visione del mondo sempre più sfaccettata.

Luca. Ho iniziato al liceo, girando brevi video con amici e compagni di studio. In questi casi gli ambiti artistici e produttivi si fondono perché c’è dietro un’unica passione: l’idea trova piena soddisfazione quando trovi la strada per risolvere i problemi pratici che ne impediscono il compimento. Una formazione che si è intrecciata agli studi universitari di Lettere. Costituire nel 2008 con altri giovani professionisti la società PinUp è stata la diretta evoluzione del mio percorso, lo strumento per confrontarsi direttamente col mercato.

Simone. Considero il tuo A Nord Est uno dei tentativi più riusciti di sviluppare un documentario di tipo antropologico nel nostro paese. Com’è nata l’idea del film, dato che non provieni da quelle zone d’Italia?

Luca. Ho condiviso il progetto con Milo Adami, socio fondatore di PinUp; ci conosciamo da tempo e abbiamo avuto da sempre il pallino per l’indagine antropologica e geografica, specie delle periferie. Milo nel 2007 viveva a Venezia, e sono andato qualche weekend a trovarlo. Spinti dalla curiosità abbiamo colto l’occasione per perlustrare il territorio, quella città diffusa che è l’entroterra veneto, restando scioccati e al tempo stesso affascinati dalle caratteristiche contraddittorie di quei luoghi. Ci siamo subito interrogati su come rappresentarli in un film senza scegliere le strade della denuncia sociale o del documentario d’inchiesta, riflettendo in modo ironico, cercando una forma esteticamente valida. Il film è stato in parte girato durante il lungo lavoro di ricerca, durato un anno e mezzo. È strano a dirsi, ma dopo mesi passati tra i capannoni abbandonati e i centri commerciali della Statale 11 Padana Superiore, è scattato una sorta d’affetto verso quel paesaggio, come quando ci si lega al “cattivo” di un film. Abbiamo guardato al Nord Est con un’ironia non snobistica, con uno sguardo rispettoso, consapevoli della possibilità di riscatto insita anche nelle storture di quel territorio.

Simone. Quale l’iter produttivo del progetto? Avete seguito precisi riferimenti artistici?

Luca. Avevamo alcuni riferimenti fotografici, come gli scatti di Viaggio in Italia di Ghirri, il lavoro poetico di Andrea Zanzotto, i primissimi film di Wenders, ma anche Il passaggio della linea di Pietro Marcello, secondo me un’opera-chiave per il cinema italiano, che ha proposto con forza l’idea del documentario come racconto per immagini, inchiesta visiva e non giornalistica. Non abbiamo ricevuto alcun finanziamento pubblico, statale o locale. A livello produttivo siamo stati sostenuti da PinUp, il cui obiettivo è proprio quello di realizzare prodotti di ogni tipo (spot, video aziendali), per poi reinvestire in progetti artistici indipendenti. Ciò ha permesso di realizzare anche il mio progetto produttivamente più solido, Con quella faccia da straniera. Il viaggio di Maria Occhipinti.

Simone. Cosa ti ha affascinato della figura di Maria Occhipinti?

Luca. Avevo letto i suoi libri, da cui emerge chiaramente una personalità forte, unica. Mi ha colpito la sua intransigenza, la capacità di lotta, l’innato senso di giustizia e di libertà. Per capirlo basta ripercorrere le esperienze di Maria sin dagli anni Quaranta a Ragusa, quando si sdraia sull’asfalto per bloccare camion militari pieni di reclute in partenza per la guerra. Tutta la sua vita è stata all’insegna dell’anticonformismo: ha sfidato i pregiudizi, affrontato il confino e il carcere, decisa poi a crescere da sola sua figlia in giro per il mondo. Il film nasce come un documentario storico-biografico, con l’impiego dei classici strumenti del genere (interviste, repertorio, voce narrante). Avevo una forte esigenza di comunicare in modo chiaro il senso profondo della sua figura, e quindi le scelte di regia sono state improntate a semplicità e chiarezza. Più ti incammini verso precisi territori di genere, e più interessante è percepire come le esperienze non codificate incidano sul tuo lavoro. I generi non sono un limite, esistono proprio perché un autore può ricostruirli e riscriverli. Certo, non è un’impresa semplice, ma è sempre a questo che ho cercato di ricondurre il mio lavoro, sia nel documentario che nella finzione.

Simone. Il “cinema del reale” si configura ormai come un luogo aperto dove le immagini vengono sottoposte a una serie di continue domande.

Luca. Ne L’uomo pietra, un mockumentary che ho appena terminato, ho cercato di fare proprio questo: portare l’esperienza del documentario nei territori più lontani dal documentario stesso. Girare documentari è stata per me quasi una necessità: i miei primi cortometraggi sono stati valorizzati in molti festival, potevo dunque investire subito il mio tempo su un film di finzione. Sentivo però l’esigenza di lavorare su qualcosa di più vasto, ma che non richiedesse necessariamente la presenza della “macchina cinema”. Il documentario è una sfida continua nei confronti della realtà, una sfida che ti obbliga ad acquisire una velocità di adattamento che resta fondamentale quando si torna alla finzione. La dimensione del documentario è più simile a quella del lungometraggio, dove hai bisogno di un quadro più ampio dei limiti e delle risorse a disposizione.

Simone. Puoi anticiparci qualcosa de Il pallone di Achille, il tuo esordio “fiction” in preparazione?

Luca. Durante questi anni di “dedizione” al cinema documentario ho aspettato con calma che prendesse forma il progetto giusto per il mio primo lungometraggio di finzione. Una volta individuata la storia da raccontare, anche grazie al confronto con il mio amico e socio Giorgio J.J. Bartolomucci, è arrivato l’interesse della società di produzione Cinemaundici a sviluppare la sceneggiatura, che ho scritto insieme a Eleonora Cimpanelli e Marta Pallagrosi, e di cui sono contentissimo. Non posso raccontare molto sul film, se non che si tratta di una commedia dai toni e dall’ambientazione piuttosto inusuali, che cerca di rileggere con ironia un episodio oscuro della storia europea recente e dove è in ballo l’incontro/scontro tra identità diverse. È un progetto costruito fin dall’inizio per avere un respiro produttivo internazionale e un pubblico europeo; mi piace sottolinearlo perché sia io che la produttrice Olivia Musini facciamo parte della generazione che per prima si è misurata in modo costante con i propri coetanei europei, e credo che oggi sia necessario proiettarsi in quel contesto artisticamente e produttivamente, cercando non solo un pubblico più largo, ma anche codici espressivi meno stagnanti e più innovativi.