Festival di Berlino: “Call me by your name”, l’idillio cinechic di Guadagnino

La bolla di “Call Me by Your Name”, di Luca Guadagnino, è un’estate afosa da spendere in giardini rigogliosi, mordendo con pigrizia frutta senza imperfezioni, perfettamente rotonda, lascivamente succosa.

È una bolla dei sensi, consumata all’ombra di fronde messe in piega da invisibili giardinieri: l’acqua fredda (lago, mare, piscina, fate voi: nella bolla c’è tutto) che increspa la pelle al contatto, l’umido della notte che impregna gli anfratti di ville-labirinto, il sole d’agosto che invita a godere, a prendersi tutto, a inseguire qualsiasi desiderio – senza distinzione fra uomini, donne, cose.

La bolla di Guadagnino è un banchetto dei sensi apparecchiato su una tavola idilliaca, l’Italia agreste-chic del countryshire, del vino buono, del pescatore/contadino che porta a tavola il pesce ancora vivo, l’Italia delle rovine fascinose e dei reperti che sbucano dal mare, un’Italia di fantasia dove in casa si parlano quattro lingue, si studia il greco, si suona Bach, dove a nessuno frega niente di politica o lavoro e i padri perdonano, le madri amano incondizionatamente, gli amanti si piegano al desiderio senza sforzo alcuno.

È una bolla, il film di Guadagnino, perché esiste e funziona solo se si accetta il patto scritto all’inizio del viaggio. Siamo “da qualche parte nel Nord Italia”, dicono i titoli di testa, e Craxi, gli orecchini a cerchio e i Talking Heads ci suggeriscono il setting anni ’80: bastino queste vaghe unità di tempo e luogo per dettare i confini del quadretto. La storia è un’impalcatura sottile, del resto a sostenere una bolla non serve chissà quale architettura. C’è un ragazzo giovane e sensibile (Timothée Chalamet: bravissimo) e c’è un bell’uomo straniero (Armie Hammer: lanciatissimo) che vivrà per qualche tempo in casa sua. I due si scoprono, si piacciono, si amano. Non c’è antagonista né opposizione, non c’è l’ombra di un contrasto, non ci sono barriere a impedire l’incontro fra i due corpi: il film è tutto qui, consumato nell’atto del cercarsi, nel piacere di trovarsi, nel godimento del desiderio realizzato.

Sono due ore di benessere artificiale, quelle di Call Me by Your Name, iperchic cine-spa che intorpidisce leggermente i pensieri ma ammalia i sensi. Certo, per farla scoppiare basterebbe poco. Ma è una bolla così bella, così rotonda e così felice che la voglia di crederci, sia pure per lo spazio di un film, è più forte di ogni tentazione.

Inclusa quella di bucarla, sadicamente, con il pungolo della realtà.