Ariaferma, il carcere (metaforico) di Servillo e Orlando

ariaferma
"Ariaferma", con Toni Servillo, Silvio Orlando e Fabrizio Ferracane.

È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di imporsi come il regista degli spazi chiusi, dei microcosmi, dell’isolamento, delle fughe surreali dai luoghi reali. Ariaferma, scritto dal regista insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero (una sceneggiatura che non ha un solo cedimento, né nella struttura, né nei dialoghi), racconta un momento critico all’interno di un carcere situato in un luogo imprecisato, come sempre in Di Costanzo la geografia si dirada e perde via via la sua connotazione, e il teatro dell’azione diventa come sospeso in una nube: la casa circondariale chiude, ma i trasferimenti vengono bloccati per problemi burocratici, e dodici detenuti devono restare lì, in un luogo abbandonato e spettrale, e con loro tutto il personale di guardia, a capo del quale c’è Toni Servillo, che per schematizzare come si fa nei polizieschi americani fa lo sbirro buono, in coppia con lo sbirro cattivo che invece è Fabrizio Ferracane.

I dodici ospiti del carcere sono tutti molto diversi fra loro, ognuno a rappresentare un “tipo”: c’è il giovane con istinti suicidi, ci sono gli extracomunitari, c’è il pedofilo da tutti messo al bando, e c’è quello misterioso, il più mite, che però – viene detto a un certo punto, senza rivelare pienamente il mistero – è anche il più pericoloso di tutti: si chiama Carmine Lagioia (interpretato magistralmente e in sottrazione da Silvio Orlando), e gli viene successivamente conferito l’incarico di chef, diventando di conseguenza un po’ il “sindaco” del carcere, da tutti rispettato, e l’unico con l’autorità di trattare con il Gaetano Gargiulo di Servillo.

È questo incontro a generare la tensione narrativa che dà l’acqua della vita alla storia, con Gargiulo che prova a porre le distanze fra sé e il detenuto, ma col passare del tempo i due trovano i punti d’incontro: il culmine è uno scambio di battute che potrebbe fare da epigrafe a tutto il film, che suona tipo “Lagioia, sei tu che sei in carcere”, e il detenuto ribatte “E perché, voi no?”. Non potrebbe avere più ragione.

Ariaferma segna un po’ una svolta, un’evoluzione, e perché no una summa nel cinema di Di Costanzo: c’è una regia solidissima, splendida somma non algebrica di direzione degli attori e gusto figurativo, coadiuvato dalla fotografia di Luca Bigazzi che con Di Costanzo riesce a esprimersi sempre ad altissimi livelli, come già ne L’intervallo. Importante anche il sonoro di Xavier Lavorel, che ha il suo momento trionfale a chiusura della scena più importante del film e anche una delle più belle e memorabili di questo festival: la cena, di notte, a lume di torce elettriche a causa della mancanza di elettricità, con detenuti e agenti che siedono al tavolo insieme, annullando l’effetto del carcere diventando quello che sono: esseri umani.