Festival di Cannes: applausi per “A Chiara” di Carpignano

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Un'immagine di "A Chiara" di Jonas Carpignano, acclamato alla Quinzaine des réalisateurs.

Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi dopo quasi un anno e mezzo di disperazione, di uno smarrimento di cui non si riusciva a vedere la fine.

E invece è stata un tripudio la serata della Quinzaine des Réalisateurs, sotto la nuova direzione di Paolo Moretti, in cui è stato proiettato A Chiara, ultimo lavoro di Jonas Carpignano (che siamo orgogliosi di aver avuto come giurato dei Fabrique Awards nel 2018), portato eroicamente a termine dopo una lavorazione travagliata, interrotta più volte per cause dovute alla pandemia, destino che è toccato a tante altre produzioni italiane e internazionali che hanno voluto comunque spiegare le vele in un periodo di mare pericolosamente in tempesta.

Carpignano racconta ancora, irriducibilmente, Gioia Tauro.

A Chiara è il terzo capitolo di una trilogia che indaga tre grandi aspetti presenti in città: dopo l’immigrazione in Mediterranea (2015, visto a Cannes alla Semaine de la Critique) e la comunità rom di A Ciambra (2017, prima volta in Quinzaine), ora è la ’ndrangheta a essere oggetto di indagine narrativa.

Anzi, per meglio dire, la ’ndrangheta è un pretesto.

Ad aprire il film è la festa di compleanno della maggiore delle tre sorelle Guerrasio, Giulia. Il contesto giovanile è descritto con mano sicura, c’è un’analisi affidabile dei comportamenti, dei riti, delle piccole ossessioni di ragazzi e ragazze adolescenti di un importante e problematico centro urbano calabrese. Il giorno seguente, quando Claudio, il padre, parte improvvisamente, Chiara, la seconda delle tre figlie, vuole scoprire la ragione dietro quel gesto. E comincia a fare domande, a cui non ottiene risposta, finché non decide di mettersi da sola in cerca della verità. Sul padre, certo, ma soprattutto su se stessa.

A Chiara non è un gangster movie, ma il racconto tenero, addirittura con derive oniriche, avventurose, fiabesche, della crescita di un’adolescente nata in un contesto difficile. Il racconto di un rapporto perso, cercato, riconquistato di una figlia con il padre, la maturazione di una coscienza morale, il coraggio di disobbedire quando il prezzo è un bene superiore. A interpretare Chiara e la sua famiglia nel film sono la straordinaria Swamy Rotolo e le sue vere sorelle, il suo vero padre, la sua vera madre, che non hanno mai letto la sceneggiatura ma venivano informati giorno per giorno sulle scene da girare.

Il metodo-Carpignano ha quindi dato, ancora una volta, i suoi straordinari frutti. Anche lo stile che avevamo ammirato nei film precedenti è riproposto ma questa volta più libero, senza la preoccupazione di dover tener conto anche di esigenze documentaristiche: è un film di solido impianto drammaturgico e altrettanto solide sono le idee di regia che lo sostengono, i piani sequenza pieni di suspense, l’uso creativo e dinamico delle luci (fotografia, ancora in pellicola, di Tim Curtin), la creazione delle atmosfere (l’incontro nella nebbia fra padre e figlia è una sequenza memorabile), la già citata deriva onirica legata al bunker (i passaggi segreti sono un topos del film d’avventura), e qualche rimando simbolico affidato all’attività fisica di Chiara: al tapis roulant di prima scena, un nastro dove si corre, si suda, ci si sforza, ma non si va da nessuna parte, si oppone la pista di atletica dell’inquadratura finale, dove finalmente Chiara spicca il proprio volo. Un parallelo che ricorda il finale di un altro grande film visto a Cannes qualche anno fa, Loveless di Andrej Zviagintsev, dove pure il tapis roulant veniva utilizzato come metafora di un mondo che non riesce ad andare avanti.