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L’appuntamento con la tavola rotonda alla festa numero 14 di Fabrique ci porta a scoprire i segreti della sala di montaggio

Uomini e donne nel buio della sala di montaggio, il regista e il montatore finalmente soli, lavorano per dare forma al film. Un po’ critici, un po’ ostetriche, molto psicologi, davvero autori, loro sono i montatori. Nella tavola rotonda, organizzata in collaborazione con AMC (Associazione Montatori Cinematografici e televisivi italiani), che ha aperto la festa per il quattordicesimo numero di Fabrique du Cinéma all’Ex Dogana, i protagonisti sono tre professionisti che hanno lavorato ad alcuni dei film più amati della stagione, intervistati da Akim Zejjari di SkyCinema: Consuelo Catucci, montatrice di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese; Gianni Vezzosi per Veloce come il vento di Matteo Rovere; Giuseppe Trepiccione per Fiore di Claudio Giovannesi.

Si parte dal titolo, è giusto definirsi autori? «Passiamo un sacco di tempo in una stanza buia a farsi un milione di domande e come tutti gli altri tecnici siamo autori per la porzione che ci riguarda» dice Consuelo Catucci, perché il compito è quello di «cercare di scegliere del materiale che valorizzi le scelte autoriali di tutti i reparti» si accoda Gianni Vezzosi. Perché montare è come scrivere, come racconta Giuseppe Trepiccione, «trovo delle similitudini enormi tra il rapporto che c’è tra un regista e uno sceneggiatore e quello che il regista ha con il montatore».

Tre film diversissimi, tre modi di lavorare con il materiale di partenza. Il campione ci permette di entrare nel cuore del processo creativo. Perfetti sconosciuti è un film fortemente incentrato sulla scrittura e Consuelo Catucci ricorda di avere avuto «la possibilità di lavorare su un film girato in sequenza e potevo vedere crescere con me la storia e i personaggi. Avevo il problema di dover sacrificare tanto ottimo materiale, essere sicura di raccogliere il meglio. Devi porti nella posizione del pubblico, immaginare quando hai bisogno di vedere un primo piano o una reazione o un’inquadratura di insieme. C’è uno scollamento tra come ti immagini il copione e quello che diventa man mano che si gira, come l’attore e il regista creano il personaggio cambiando le tue aspettative». Un processo confermato dal racconto di Paolo Genovese, gradito ospite fuori programma: «Diventa una risorsa vedere come un’altra persona vede il tuo film, come costruisce la scena, che tipo di regia avrebbe scelto, trovi modi di vedere le cose più interessanti di quel che avevi».

Veloce come il vento proponeva un materiale di due tipi completamente diversi: «La macchina del film era realmente iscritta alle gare, correva per vincere, non per fare quello che c’era sulla sceneggiatura. Avevo un approccio per la fiction e uno per le gare. Per quest’ultime mi sono dovuto scollare dalla sceneggiatura, che diventava un canovaccio. Non c’era scritto che si poteva trovare per esempio un incidente che sarebbe stato utile da sfruttare narrativamente. Eravamo un po’ schiavi, in senso buono, del materiale».

Fiore è opera di un autore estremamente legato all’approccio documentaristico, girato con attori non professionisti: «È stato girato in sequenza, con unità di luogo. Film così possono essere fatti solo in questo modo, perché i non professionisti raggiungono vertici altissimi di realismo e bellezza, ma allo stesso tempo non tengono sotto controllo la costruzione e la crescita del personaggio. Hanno la necessità di sentire che il personaggio matura dentro di loro. Avevo la possibilità di intervenire mentre stavano girando, per correggere il tiro, farsi sorprendere. È importante non aspettarsi nulla dal materiale, bisogna interiorizzare la storia e dimenticarsela, lasciare che le immagini ti raccontino la storia che hanno dentro».

Il montatore cambia assieme al suo film? Ci sono approcci diversi per generi diversi? «Ciò che porti nel film ha a che fare con quello che sei, un montatore deve saper sparire dentro la storia che si sta raccontando. Se riesci a metterti al suo servizio riemergi attraverso la scelta del materiale. Chi sei ha a che fare con il modo in cui scegli un ciak piuttosto che un altro. Per questo bisognerebbe cambiare il più possibile, per crescere», spiega Giuseppe Trepiccione.

La coppia con il regista necessita di alchimie delicate e sottili, perché «ogni regista ha un approccio ossessivo verso il film, e il montatore deve aiutarlo, quasi come uno psicoterapeuta, perché il rischio di rovinare il film c’è veramente e devi avere una controparte che sappia calmare le tue nevrosi» racconta Paolo Genovese. Tutti concordano sulla loro fortuna a lavorare con registi capaci di dare libertà e stimoli al loro lavoro anche se gli scontri, secondo Giuseppe Trepiccione, non sono per forza un male: «cerchiamo di combaciare, ma lo scontro in moviola è fecondo, creativo, può portare a una soluzione cui non avresti mai immaginato da solo».

Allora quale caratteristica deve avere il montatore perfetto? Dove sta il segreto di quest’arte? «Devi dimostrare al regista che non sei unidirezionale, che contempli più possibilità, che sei malleabile e sai adeguarti» per Gianni Vezzosi, mentre Giuseppe Trepiccione indica «il senso della storia. Avere la capacità di interiorizzare ciò che stai raccontando, sentirlo, farlo tuo». Soprattutto, «altissimo spirito critico verso il proprio lavoro, devi amarlo ma sapere riconoscere quel che non funziona o non serve, pur vivendo con qualcosa che ti cresce davanti» conclude Consuelo Catucci.

Amore e spirito critico, voglia di confrontarsi e senso del compromesso, capacità di guardare e di scoprire. Serve tutto questo, perché il montaggio, come ammonisce Paolo Genovese, «arriva alla fine di un processo difficile, il film c’è e devi tirarlo fuori, e puoi sbagliare. La scrittura e il set hanno un tempo finito, il montaggio è sempre migliorabile, deve arrivare qualcuno da fuori a darti lo stop. Le possibilità di sbagliare qui sono più alte che in tutte le altre fasi di lavorazione, puoi sempre far meglio».