Lazzaro felice: quando il fantastico non è più un tabù

lazzaro felice

Un dato andrebbe registrato, una tendenza emergente nel cinema (e nella retevisione) italiana: risvegliato sul grande schermo da Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, apprezzato dal pubblico in un film come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e fiorente adesso anche in tv (Il miracolo di Sky, La luna nera di Netflix), il fantastico non è più un tabù.

Ancorati tradizionalmente al realismo, un’eredità diventata negli anni pesante come un macigno, gli autori italiani stanno scoprendo il gusto liberatorio di sfondare la parete del reale e frugare oltre lo specchio alla ricerca di qualcosa di stra-ordinario. Questione di punti di vista, di cultura: quel che per gli altri è evasione, per noi figli del neorealismo è trasgressione. Ed è normale che in un paese come il nostro, il cui immaginario soprannaturale è stato storicamente (ri)plasmato dal cattolicesimo, l’accesso al fantastico avvenga attraverso la porta della religione.

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Non sorprende dunque che a farsi affascinare dalla meraviglia dell’impossibile sia proprio l’autrice de Le meraviglie e Corpo celeste, Alice Rohrwacher, che con il suo Lazzaro Felice (qui il trailer) si cimenta con un topos del fantastico, il viaggio nel tempo, realizzando un ibrido non del tutto riuscito ma molto personale tra racconto del reale e favola poetico-spirituale. La storia è quella di Lazzaro (Adriano Tardiolo), un contadino ostaggio dei propri padroni che insieme ad altri lavoratori (tra loro Alba Rohrwacher e la brava Agnese Graziani) serve la contessa dell’Inviolata (Nicoletta Braschi), senza rendersi conto delle condizioni di sfruttamento cui l’isolamento li ha condannati. Ma un giorno Lazzaro, preoccupato per le sorti del padroncino Tancredi (Luca Chikovani), disperso dopo una gita in campagna, cade in un burrone. Batte la testa. E da lì in poi, per lui, tutto sarà diverso.

Favola che non nasconde una profonda tensione religiosa, nel riferimento simbolico al Lazzaro biblico e nei tanti rimandi alla spiritualità cristiana, Lazzaro Felice ha il pregio di cambiare percorso proprio nel momento in cui il meccanismo narrativo è ormai innescato. Rohrwacher orchestra efficacemente i suoi personaggi (tutti volti da cinema, seppur non tutti adatti a recitare) e poi, proprio quando ci avrebbe convinti a credere, e cedere, all’ennesimo prolet-revenge neo-neorealista, fa uno scarto e introduce nel “già visto” una componente magica, irrazionale.

È una mossa fortissima. Una svolta talmente potente che la sua carica, dirompente, non si lascia purtroppo ammaestrare da una sceneggiatura che ne sottovaluta la portata, perdendone il controllo. L’impressione è che, una volta piazzato il fantastico nella storia, Rohrwacher non sappia far fronte ai nuovi interrogativi che porta in dote alla narrazione. Come se lei stessa non avesse chiaro lo sguardo con cui intende raccontarlo (realistico? spirituale? agnostico?), e dunque anche l’approccio che i personaggi hanno di fronte al portento (Ci credono? Ne hanno paura?), il miracolo di Lazzaro è insieme la fortuna e la condanna del film.

Impeccabile nella prima parte tradizionale, e imperfetto ma coraggioso nella seconda, Lazzaro Felice percorre una strada in salita, smarrendo qua e là la direzione e arrivando scomposto alla meta. È normale, capita a tutti gli esploratori: aprire il sentiero per gli altri è un lavoro spesso ingrato e faticoso. Ma indispensabile, e sempre degno di ammirazione.