La strada dei Samouni: un film ibrido tra documentario e animazione

la strada dei samouni

C’è sempre la bella Italia cinematografica, alla Quinzaine des Réalisateurs. L’anno scorso, la triade Di Costanzo/De Paolis/Carpignano ha strappato ovazioni appassionate alla sala dell’hotel Marriot di Cannes, consacrando autori già maturi e imponendo all’attenzione di pubblico e critica voci nuove del nostro cinema. Quest’anno ci presentiamo con una compagine più variegata: in attesa del film di chiusura di Gianni Zanasi, Troppa grazia, e del cortometraggio di Marco Bellocchio La lotta, ecco La strada dei Samouni, opera di una “strana coppia” composta da Stefano Savona e Simone Massi, rispettivamente punti di riferimento del cinema del reale e del cinema d’animazione.

Le origini di questo film vengono da lontano: era il 2009 quando Savona si recava a Gaza per le riprese di Piombo fuso (che gli è valso il premio della giuria Cineasti del presente a Locarno). In quell’operazione dell’esercito israeliano, pensata per infliggere un duro colpo ad Hamas, hanno perso la vita 29 membri della famiglia Samouni, agricoltori che abitano una zona poco fuori Gaza, dove vivono fra le loro case e i campi coltivati a lattughe, con alberi di ulivo e di mandorle. Un soldato uccide a sangue freddo uno dei capifamiglia, Ateya, e poi sulla sua casa viene lanciato un missile.

A questo punto, facciamo conoscenza della “protagonista”, per così dire, del film di Savona e Massi: la piccola Amal è sopravvissuta al bombardamento della sua casa, creduta morta ma poi ripescata dalle macerie. Sta bene, nonostante le schegge rimaste sotto la pelle e nelle quali inciampa il pettine quando la mamma le sistema i capelli al mattino. In quella stessa casa è andato Stefano Savona con la sua macchina da presa per documentare le conseguenze, e l’esito, fra la polvere e i cibi carbonizzati ancora nei recipienti, fa pensare a una Pompei contemporanea, una catastrofe inattesa, fulminea e inarrestabile.

Dalla riorganizzazione delle riprese dedicate alla famiglia Samouni, Savona ha tirato fuori un film che, grazie alla collaborazione con la mano unica e inimitabile di Simone Massi, è diventato un raro esempio di cinema ibrido, documentario e animazione, cronaca e memoria, testimonianza e immaginazione: le riprese di reportage puro di Savona germogliano nei frammenti animati di Massi, che provano a spingere il racconto della famiglia Samouni dove la macchina da presa non può più arrivare. “Dovete imparare a esprimervi bene”, ammonisce uno zio di Amal, fratello di suo padre, nel primo degli innesti animati. “Chi non sa raccontare non è un vero uomo, è una bestia”.

E qui si aprirebbero discorsi interminabili sulla responsabilità di un autore, soprattutto di un autore come Savona, che coraggiosamente va alla ricerca e poi si fa accogliere da una famiglia vittima di un eccidio, ma ne sa tirare fuori una nobiltà non comune, una dignità prodigiosa nell’affrontare le conseguenze di una strage, come nella memorabile scena in cui la madre di Amal, seconda moglie di Ateya, sta impastando il pane e nel frattempo racconta di come ha perso il marito e i figli. Ed è autoriale nel senso più alto del termine anche la dignità della piccola Amal che, insieme alla cugina, disegna il momento in cui è stato ucciso suo padre, riuscendo a riproporre con tratti essenziali anche i particolari più scabrosi, ma con il problema scottante di non saper tracciare la sagoma di un albero di sicomoro.

In tutto lo scorrere del film, il disegno sembra essere identificato come un’arma. Un’arma con poteri diversi a seconda di chi la usa. Taumaturgici, nel caso di Amal e della cugina (e, per estensione, di Simone Massi, le cui scene sono anche caratterizzate da un tremolio e da un gioco di chiaroscuri da farle somigliare lontanamente a un antico film proiettato in pellicola), ma anche annichilenti, come il beffardo murales disegnato da un soldato israeliano sul muro della casa di Ateya, con una lapide su cui è scritto “Arabs 1948-2009”. “Certo che non sono mica normali”, dice ingenuamente uno dei fratelli di Amal.
“Perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?”, dice ancora Faraj, uno dei figli di Ateya, con altrettanta, tragica ingenuità.

L’applauso commosso degli spettatori del festival lascia presagire che il film abbia aperto lo squarcio necessario dentro le coscienze di chi lo ha visto. Ragion per cui sarebbe bello che sia visto il più possibile, a cominciare, magari, dalle scuole, dai ragazzi.