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Elisa Teneggi

Majonezë, il cuore balcanico del cinema italiano

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Giulia Grandinetti dice di avere sogni piuttosto vividi. «Li controllo molto. Ho sognato in bianco e nero, in animazione, muovendomi con il ritmo di una cinepresa. Mi sembra che sognare sia l’equivalente del fare un film. Forse anche perché vengo dal teatro, solo dopo è arrivata la scuola di cinema. Anche se il primo amore è stata la danza. Credo di essere così ossessionata dai sogni proprio perché uniscono tutto ciò che mi sta a cuore: ritmo, corpi, movimento. Cinema, insomma.»

Tria, tre sorelle e un sacrificio

Partiamo dal suo corto Tria – Del sentimento del tradire, in concorso a Venezia nel 2022 e selezionato in prestigiosi festival in giro per il mondo. Ambientato in una Roma distopica, Tria – ovvero “tre” in lingua greca – racconta una famiglia di immigrati rom alle prese con la nascita del loro quarto figlio, un maschio. Ma la legge parla chiaro: nel Paese, alle famiglie non italiane è permesso generare un massimo di tre figli, e, se ne arrivasse un quarto, uno dovrebbe essere sacrificato, con precedenza alle femmine. E tra Zoe, Iris e Clio, le figlie preesistenti della famiglia, per fare posto al fratello, ne dovranno rimanere solo due. La scelta dei genitori è però osteggiata da un atto apparentemente inspiegabile: il tradimento istintivo di una delle sorelle ai danni delle altre, che, un attimo prima che la sentenza di morte sia pronunciata, scambia, non vista, i bicchieri appositamente assegnati e contenenti, a seconda, o acqua o veleno, modificando in via definitiva il decorso della storia.

Una riflessione, quella di Tria, che parte da lontano e affonda le proprie radici nell’humus fertile della cultura (e morale) della Grecia Antica. D’altronde, Giulia non fa mistero di essere “mezza greca”, e di portarsi sempre dietro le estati passate nella grande casa di famiglia (allargata), una specie di colonia tra zii, cugini e parenti, stretti in letti adiacenti. «Ho un fortissimo senso della comunità, di quello che gli esseri umani possono fare quando decidono di agire per cambiare il proprio destino, per il bene di tutti. Tria è nato da qui, e dall’esplorazione del sentimento della prevaricazione per eccellenza, il tradimento.»

Tria
“Tria – Del sentimento del tradire”.

Ecco allora l’aspetto rituale del sacrificio del figlio, consumato dalla comunità per placare l’ira tutta umana della legge e rielaborato dallo spettatore seguendo l’apparato simbolico-iconografico di cui Tria si compone. «L’inserimento di alcuni simboli è stato spontaneo, come fatto di identificazione, per guidare il pubblico attraverso la storia. Per esempio, la contrapposizione uomo-natura. Poi ci sono stati i simboli rodati per quanto meno scontati, come per esempio la funzione di messaggero non solo tra persone, ma anche tra mondi assunta dai volatili, sempre nel mondo antico. Nel mio caso, ho scelto un piccolo rapace. Un guardiano del nido, capace sia di proteggere che, per gli artigli, di agire attivamente sulla realtà».

Non esagera, Giulia, quando dice di entrare in contatto con Tria attraverso la sua musica, i suoi suoni. Perché colonna sonora e sound design lavorano in sinergia, mirando a un unicum immersivo, creatore di significato oltre il significante dell’udito. Per muoversi verso quest’obiettivo, Giulia ha richiesto al lavoro di sound design e mix, realizzati con maestria da Giulio Previ e Riccardo Gruppuso, un dialogo speciale con le composizioni ed arrangiamenti dei compositori e musicisti Lucia Alessi e Pier Sante Falconi, membri tra l’altro della Balkan Lab Orchestra di Roma. L’orchestra ed il suo fondatore Federico Pascucci hanno inoltre ceduto per il corto l’utilizzo del brano Djelem Djelem presente nel loro DISCO AJVAR.

Majonezë: Romeo e Giulietta in Albania

Questo ci dicevamo io e Giulia Grandinetti un paio di anni fa. Il suo nuovo cortometraggio, Majonezë, era finalista ai David di Donatello, Giulia è ancora nomade. Però riusciamo a sentirci, io sempre a Milano. Lei non capisco mai bene dove si trovi. Allora partiamo dalle certezze: «Nel 2019 ero in viaggio in Europa dell’Est con Andrea Benjamin Manenti, un direttore della fotografia che a quel tempo era il mio compagno. A un certo punto abbiamo preso una deviazione fuori programma e siamo capitati a Ersekë, in Albania. Cioè, ci siamo arrivati dopo una strada abbastanza brutta, su cui non ci sentivamo al sicuro». La mattina dopo, scoprono un posto fuori dal tempo. «Alla fine del viaggio ci siamo tornati a prendere contatti con gli abitanti, con il sindaco. Stavo cercando la location per una storia e dentro di me avevo già capito. Mi sembrava di aver fatto un viaggio nel tempo, ma non capivo bene in che epoca».

La sensazione di chi si metta a guardare Majonezë è la stessa. Il dove, be’, si rintraccia. Il “quando” rimane aperto, nemmeno è necessario che si chiuda. Non ci lavorerà con Manenti, le riscritture dureranno anni. Nel giugno 2023, Giulia torna a Ersekë per fare sul serio. «A ottobre abbiamo preparato il set, a dicembre abbiamo girato, a primavera dell’anno dopo avevamo il corto pronto. Il comune del paese è stato di aiuto incredibile, mi hanno permesso di usare una vecchia casa disabitata rimettendola a posto, pensa che mi hanno mandato una squadra di signore per aiutarmi a pulire».

Majoneze

Albania, non si sa quando. Elyria (Caterina Bagnulo) vive in una famiglia di pastori e aiuta il padre a badare alle pecore. Ha una liaison con Goran (Alessandro Egger), un giovane del posto. Problemino: Elyria è di etnia albanese, Goran è serbo. Il padre di lei, subodorando della disobbedienza, decide di darla in sposa a un uomo molto più grande della figlia. Come la storia della letteratura insegna, non si può sapere se ciò porterà a nulla di buono.

«L’idea originaria per il corto era di fare una sorta di Romeo e Giulietta nei Balcani. Nel tempo è evoluta, la storia si è fatta da sola. Anche perché credo che sia solo un velo, sotto cui s’innestano altri temi, anche diversi per ognuno». Lo stesso vale per l’ambientazione. Mi dice Giulia: «Il cinema per me ha anche la facoltà, che poi diventa anche un compito, di creare uno spostamento. Crea delle onde, arrivano oblique su diversi aspetti della realtà e li illuminano in modi inaspettati. Per parlare del presente, insomma, credo sia più efficace spostare il punto di vista. Se la si fa troppo facile, troppo calata nel reale, diventa quasi più difficile identificare ciò di cui si vuole parlare. Questo non vuol dire perdersi per strada, soprattutto in un cortometraggio non si può fare; ma arrivare al punto attraverso una rotta diversa». Proprio quella che l’ha portata, nel 2019, a conoscere un luogo che altrimenti non avrebbe avuto sulla mappa?

«Sai, ci sono tante cose che si sono inanellate bene in questo progetto. L’estetica del posto, perfetta per quello che volevo girare. L’accoglienza delle persone, la loro disponibilità a essere “invasi” dal cinema e dai suoi processi, li abbiamo coinvolti come comunità. Pensa che il solo attore professionista era Sean Cubito, nel ruolo del co-protagonista Miloš. I miei compagni albanesi hanno lavorato tutti con grandissima generosità, accogliendo noi italiani con grande rispetto. E il fatto che diversi abitanti di Ersekë parlassero la nostra lingua ci ha molto aiutato nelle fasi di produzione». Ci pensa un attimo. «Ah, un’altra cosa. Erano ben dieci anni che lì non nevicava a dicembre. Idealmente avrei voluto la neve non solo per questioni narrative, ma anche estetiche: per rendere quel paesaggio profondo, ben delineato tra prato/montagna e cielo. E come per magia, il primo giorno di set è venuto a nevicare per davvero». Chiamatela aura o coincidenza, ma un corto che finisce ai David ed è realizzato così, è frutto del destino.

Ma quindi, le chiedo, i costumi e gli oggetti di scena? Sospensione dell’incredulità, o veri oggetti “del posto”? «Alcuni oggetti o capi d’abbigliamento li abbiamo chiesti in prestito, altri acquistati. Generalmente, però, è stato tutto studiato dall’Albania, ma realizzato in Italia. Valeria Polieri (scenografa), Martina Mele (arredatrice), Martina Latorre (costumista) e Irene Del Brocco (parrucchiera e make-up artist) sono state incredibili, hanno capito subito la mia visione, l’atmosfera che avrei voluto dare. E hanno realizzato tutto con grande artigianalità, con metodi da cinema classico, se vogliamo chiamarlo così». Giulia mi racconta come hanno realizzato una finta pecora per una scena: «Abbiamo preso le misure di una pecora vera di scena, poi il 3D designer Edoardo Tedone (anche VFX Artist del corto) ha realizzato il modello per la stampa in plastica. I pezzi sono passati sotto le mani di Nicolas Tangorra per la pittura e infine il reparto di  scenografia ne ha costruito il corpo».

MajonezëCi sono cose che vibrano insomma, attorno a Majonezë. Che, sì, intende proprio la mia salsa preferita a base di uova. «Mi interessava lavorare sugli opposti. Il bianco e il nero, per cui ringrazio il mio direttore della fotografia Ilya Sapeha e tutta la sua magnifica squadra. I ritmi sospesi e scene più sincopate, ringraziando il lavoro svolto con il montatore Niccolò Notario. Il maschile e il femminile, il nuovo e l’antico. Ed in questo mondo ricco di dicotomie tra bianchi e neri, alla fine emerge una realtà ricca di scale di grigi. Dove a un certo punto è il colore oro a prendere il sopravvento. Tutto questo per dire che in un mondo fatto di opposti, da dove si parte per cambiare qualcosa? Forse da qualcosa di piccolo? Come la scelta di una salsa, per esempio? E la mia speranza è che, se una sera c’è qualcosa che non va e a un certo punto ci si ritrova davanti a un barattolo di maionese, ecco io spero che qualcuno possa ricordarsi di questo film. Sentirsi meno solo e trovare il coraggio di compiere un atto di rivoluzione. Perché si inizia sempre dalle piccole cose».

E comunque, la maionese non è affatto una cosa di poco conto. Mangiate, ricordate, guardate. È tutto ciò che il cinema, o almeno questo, vi chiede.

Il mio compleanno, l’insostenibile leggerezza del diventare grandi

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La maggiore età è una cosa complessa. Arriva con un soffio e porta via. Ed è il diciottesimo compleanno a consacrare il diventare adulti, o il primo film, se si è un regista all’inizio della carriera. Lo sa Christian Filippi, che nel suo lungometraggio d’esordio ha condensato tutto questo: la smania di diventare grandi e di dirsi responsabili, la gioia per una vita che si scopre con occhi diversi, e un’ingenuità che, a causa di vicende sfortunate, si è dovuta abbandonare già da un pezzo. Il film si chiama Il mio compleanno e racconta la storia di Riccardino (Zackari Delmas), quasi-diciottenne separato da quattro anni dalla madre (Silvia D’Amico), donna con forti disturbi di personalità, e costretto a vivere in una casa-famiglia, una «struttura di tipo familiare con sede in abitazioni civili» destinata a ospitare minorenni, anziani, disabili e adulti in difficoltà o con problematiche psicosociali.

Vivace ma stranamente assennato, in un certo modo più grande della sua età, Riccardino ha un solo desiderio: ricongiungersi con la madre. Questo a discapito delle voci, soprattutto quella dell’educatrice Simona, che gli dicono che non è ancora tempo, non il momento giusto. E che sarebbe auspicabile che il ragazzo intraprendesse un percorso diverso per rimanere ancora qualche anno nella struttura, sfruttando la possibilità fornita dalla legge di prolungare il suo soggiorno oltre il compimento della maggiore età. Ma Riccardino sceglie la strada di quella che a lui pare la più desiderabile delle indipendenze. E riunirsi con la madre lo obbligherà a un duro scontro di realtà, tra desideri e aspettative che nemmeno soffiare su una candelina potrebbe realizzare. Il mio compleanno (prodotto da Leonardo Baraldi per Schicchera Production in associazione con Media Flow, scritto da Filippi con Anita Otto) è ora in sala distribuito da Cattive Produzioni. Noi abbiamo incontrato Christian per parlare di sogni, fragilità e nuovi inizi.

Chi è Christian e come è arrivato al suo primo lungometraggio?

Ho iniziato a studiare cinema da adolescente, al Rossellini di Roma, l’unica scuola in Italia incentrata sul cinema ma che di fatto è un liceo. Ero già appassionato, certo, ma c’era anche una grande componente di gioco. Dopo il diploma ho frequentato l’Accademia di Belle Arti e ho iniziato a smacchinare sui set, a fare l’attrezzista e girarmi tutte le varie posizioni. Ero arrivato a essere aiuto alla regia, facevo aiuto casting sui film di Claudio Giovannesi per esempio. Poi mi sono preso un anno sabbatico, sono tornato all’università per studiare editoria. Lì mi sono concentrato di più sulla parte di scrittura, sia di cortometraggi (Filippi ne ha tre all’attivo, Marciapiede, Il nido e Il custode e il fantasma, ndr), sia di documentari e videoclip. Quindi ho sempre vissuto il cinema a metà tra il sentirmi una maestranza e il sentirmi un regista. E poi è arrivata l’occasione della Biennale College che mi ha permesso di girare questo film.

C’è un’evoluzione o una comunanza tematica tra i corti e il lungometraggio?

Parlo sempre di personaggi che si trovano in una gabbia. Il primo corto, Marciapiede, era la storia di una prostituta anziana che non riesce più a lavorare. Il secondo, Il nido, parlava di un professore di scuola che aveva vissuto per cinquant’anni con la madre. Il terzo raccontava di un custode di cimitero che ha paura dei fantasmi. Quindi c’è sempre la fame di libertà, la voglia di uscire da questo recinto che si sono costruiti o che hanno attorno. Il mio compleanno è nato in un momento particolare: sono stato per un po’ in contatto con istituti di detenzione minorile e case-famiglia. È da lì che arrivano quelle storie. Frequentando i ragazzi e gli educatori ho scoperto che cosa vivono realmente, difficoltà che spesso non conosciamo o che non vengono sufficientemente alla luce.

Tra gli argomenti trattati c’è l’articolo 25, anche questo forse sconosciuto ai più.

Esatto. L’articolo concede ai ragazzi che stanno in casa-famiglia, al compimento dei 18 anni, il diritto a rimanervi altri tre anni. Non tutti riescono a usufruirne, alcuni non vogliono, credono che fuori ci sia qualcosa di meglio. È quello che succede a Riccardino. Per poter accedere a questo beneficio è necessario portare avanti un percorso con gli educatori, convincere il giudice. Serve una direzione di crescita insomma, che sia studiare o frequentare un corso di formazione professionale. Non è scontato, però, anche perché tenere i ragazzi nelle strutture è un costo e i fondi sono fermi dal 1990, mai aumentati. Le case-famiglia sopravvivono grazie al volontariato, ai bandi, alle donazioni, non certo alle istituzioni. Quindi concedere l’articolo 25 a un ragazzo significa togliere il posto a uno più giovane che potrebbe averne più bisogno.

Il mio compleannoCome mai senti questo tema così vicino?

Con Riccardino sento di avere varie connessioni. Di sicuro è un personaggio che mi è affine, non perché abbiamo vissuto le stesse esperienze ma perché mi rivedo nei suoi sentimenti, nell’emozione di quell’età, nei sogni di libertà, del poter vivere fuori dalle regole. Mi interessa anche il suo confronto con lo spazio della casa-famiglia, vissuto alla stregua di un carcere, ma che in realtà gli salva la vita. Altra cosa che mi appassiona è la relazione tra Riccardino e la madre, il loro passato che di fatto non vediamo mai, ma che andava costruito, e lasciato intuire, lungo tutto il film.

Relazione che mi pare mettersi in dialogo con quella che Xavier Dolan costruisce in Mommy, però ribaltata.

Sì. Prima di fare cinema sono uno che il cinema lo ama. Vedendo quel film, ricordo che avevo trovato tantissime emozioni simili a quello che avevo provato io, a quello che avevo vissuto all’interno della mia famiglia. I riferimenti però sono andati oltre. Con Zack abbiamo guardato a Il mattatore di Dino Risi, mi interessava come si muoveva Gassmann in quel film. Oppure Fish Tank di Andrea Arnold e, tornando indietro, anche Accattone. Era quella Roma che volevamo riprendere, fuori dal tempo. Quindi sì, ci sono tanti riferimenti cinematografici.

Come hai conosciuto Zack?

Anni fa, sul set di un cortometraggio di amici. Lui era davvero giovane, quattordici-quindici anni, ma già sveglio, aveva tutta la furbizia che si vede adesso nel Mio compleanno. Così quando abbiamo iniziato i casting per il film è tornato fuori. Arrivavano ragazzi molto bravi ma che avevano già sui vent’anni, studiatissimi. E io volevo qualcuno più scavezzacollo, che fosse “grezzo” come si è a diciott’anni. Zack era l’unico Riccardino possibile, ha la sua energia. Che poi non lo so perché a un certo punto la si perde: è inconsapevolezza, sporcizia nel parlato e nei modi del corpo. Se continua così, Zack potrà solo andare lontano. Per il film provavamo tutto il giorno e la sera andava a scuola guida per fare la patente. Drittissimo.

I giovani con le loro storie sono presenti nel cinema italiano?

Credo ci sia un nuovo filone in tutte le arti che racconta le età più giovani. Però mi sembra che manchi un po’ d’onestà, dovremmo essere più sinceri. I ragazzini sono ironici anche nell’approccio ai drammi che vivono, e io volevo restituire questo aspetto. Si fanno film su adolescenti arrabbiati e depressi, ma poi li conosci davvero e non sono così, sono spavaldi, dissacranti, spacconi. È così che si proteggono dai problemi della vita quotidiana. Quindi sì, li raccontiamo, ma forse non li conosciamo abbastanza. Poi certo, lavori come Fiore di Giovannesi o Manuel di Dario Albertini, sono sui giovani e sono stupendi.

Christian Filippi
Christian Filippi.

La colonna sonora de Il mio compleanno è firmata dai Meganoidi, storico gruppo di Genova. E poi nel film arrivano un paio di momenti coreutici, che si ritrovano spesso nel cinema di oggi. Come mai?

I Meganoidi sono uno dei miei gruppi preferiti: per i titoli di coda volevo Gocce, poi sono stati fantastici a prendersi in mano il progetto totale della colonna sonora. A proposito delle scene di ballo: a me piacciono molto in generale nei film, le ho inserite anche nei corti. Mi divertono, mi piace girarle. Nello specifico, nel film arrivano due momenti di danza per segnalare due tempi di svolta. Il primo racconta il “tradimento” tra Riccardino e Simona, l’educatrice, e allo stesso tempo la voglia di libertà della ragazza, anche lei ingabbiata in una situazione che le sta stretta. Volevo che fosse un momento di dono, un regalo che fa Riccardino ai suoi compagni. La seconda scena parla sempre di una separazione, ma tra Riccardino e sua madre. Dopo un attimo di lucidità, arriva la caduta. Lì Riccardino fa finta di non capire, per lasciarle libertà e gioia. Riccardino vuole sempre lasciare felicità e spensieratezza agli altri.

Abbiamo parlato di tanti giovani, solo che tu vecchio non lo sei. Com’è esordire oggi in Italia?

Purtroppo mi sono trovato davanti a un ambiente ostile. Il primo appunto per Il mio compleanno l’ho preso dieci anni fa, e l’unica persona che mi ha dato fiducia è stato Leonardo di Schicchera. Lui ha sempre creduto in me, ma si tratta di un’eccezione in Italia, non della regola. Nonostante il mio percorso e la relativa fortuna ai festival dei miei corti, le difficoltà sono enormi. O forse non ispiravo abbastanza fiducia, chissà. Mettere su un film oggi può essere un bagno di sangue, per fortuna c’è stata l’occasione della Biennale College. Quindi, per risponderti: esordire in Italia è davvero un terno al lotto, ho colleghi fortissimi che ancora non ci son riusciti.

 

Momo Assad: Roma è la mia casa, ma ora voglio il mondo

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Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per necessità.

Momo è giovane di quella gioventù profonda, forse un po’ tragica, di chi ha già sfogliato parecchie versioni di sé. Le sue cominciano alle radici: genitori siriano-libanesi, nascita nella Capitale, famiglia di ristoratori (loro è l’Osteria del Tempo Perso). «Facciamo cucina romana, i miei cucinano mediorientale quando siamo da noi. Non mi dispiace stare ancora un po’ con loro, alla fine Roma sento di non averla vissuta del tutto, sono stato in giro. Ci credi che non sono mai entrato nel Colosseo?».

Ci credo, visto che Momo pare uno di quei giovani indirizzati, o comunque quadrati, che si instradano da soli. Ed è sempre un po’ più difficile, quando non si intraprende la via della ribellione, svincolarsi dagli “affari di famiglia”. «Mio padre ha sempre detto a me e mio fratello che tutto quello che faceva con il lavoro era per noi. Che un giorno sarebbe stato il nostro turno. In realtà siamo sempre stati liberi di fare le nostre scelte». Per Momo, tutto è cambiato quando ha preso la scelta in cui proprio i suoi genitori avrebbero potuto credere di meno: decidere, senza esperienza pregressa e già dopo aver superato gli anni universitari, di diventare un attore.

La tua storia ha diversi capitoli. Com’è andata?

Sono cresciuto in una famiglia in cui si parlava arabo, abitavo a Roma, andavo alla scuola internazionale dove si studiava in inglese. Non pensavo minimamente a fare l’attore, speravo che un giorno avrei giocato a calcio nella nazionale italiana e che avrei vinto i Mondiali. Invece già qui, primo colpo di scena: sono finito a studiare con il cursus honorum all’americana, ho partecipato al Model European Parliament (iniziativa che permette ai giovanissimi di confrontarsi con il funzionamento delle istituzioni politiche europee, nda), ho fatto l’università negli Stati Uniti studiando marketing. A quel punto sapevo parlare fluentemente quattro lingue, un bel vantaggio. Solo che, durante il Covid-19, la mia vita è cambiata, e non me lo aspettavo: non potevo rientrare dalla mia famiglia in Italia, ero sulla costa Est degli States, mi sono concentrato su quello che avevo intorno. Uno dei miei amici frequentava la scuola di recitazione di Stella Adler (lo Stella Adler Studio of Acting, tra i suoi alumni vanta nomi come Robert De Niro, Christoph Waltz, Rachel Sennott e Benicio Del Toro, nda), mi sono incuriosito e gli ho chiesto come avrei potuto fare per iniziare a recitare senza avere alcun tipo di esperienza pregressa. Così ho provato le ammissioni al loro corso di formazione di tre anni, che chiamano Conservatory.

Non la cosa più facile.

Ho iniziato a studiare monologhi shakespeariani su internet, ho guardato dei video, è così che mi sono preparato per l’audizione. È andata bene, però, visto che non avevo curriculum, mi dissero che non avrebbero potuto prendermi, perché il programma è solo per 24 studenti, sarebbe stato troppo rischioso per loro. Mi proposero di frequentare uno dei loro Summer Program. Perfetto, andata. Dopo solo un mese mi dissero che c’era un posto per me nel Conservatory. È stato fantastico, ma anche ora che ho finito mi sento comunque uno studente. Vivo a Los Angeles da tre anni, ho un agente, un manager, ho firmato il primo NDA e guadagnato le prime cosette. E poi la scuola mi ha fatto entrare in un bellissimo cerchio di persone, ne sono molto grato. Alla fine quello che cerco di fare è ricreare vita di Roma negli States, con qualche piccola differenza. Non è mai facile. Prendi il cibo, per esempio: no way.

Il percorso ti ha cambiato?

Sì, mi sento benissimo. Per la prima volta capisco davvero che sto facendo quello che voglio fare. Ero così nervoso all’inizio di tutto, pensa che ho detto ai miei genitori dell’accademia solo una volta che ero stato preso. È stato un salto importante, ma non ho guardato indietro. Intraprendere questo viaggio mi ha insegnato molto su me stesso, e sono stato davvero fortunato a farlo alla scuola di Stella Adler. Ti dà qualcosa di più. Uno dei principi su cui il suo metodo si fonda è che crescere come attore significa crescere come persona. Tutti quei discorsi su Apollo e Dioniso e la loro compresenza dentro ognuno di noi… uno non ci crede, ma arrivi proprio a sentirlo.

E adesso?

Ora che ho cominciato a lavorare e a fare anche festival e produzioni internazionali, voglio solo continuare così, diventare sempre più radicato nel mondo. So le lingue, ho viaggiato, posso farlo.

C’è un posto che chiami “casa”, ora?

Casa per me è la mia famiglia, poi se devo scegliere una città, allora è Roma. Ma sempre di più lo diventano anche le persone che mi stanno attorno. Cerco di ricreare i miei cerchi di amicizie ovunque sia. In Italia sono stato fortunato, ho incontrato tante persone belle che mi porto dietro da anni.

Devi scegliere su che medium recitare: dici cinema o teatro?

Da quando ho un agente mi hanno piazzato soprattutto nel cinema. Poi ho fatto una parte in un episodio della HBO, anche qualche corto. Però allo stesso tempo ho fatto quattro mesi in uno Shakespeare Festival a teatro, dove ho lavorato su La dodicesima notte e Misura per misura. Per l’ultima ero il sostituito di uno degli attori, è stata una sfida, dovevo replicare quello che faceva lui in tutto e per tutto. Davvero formativo. Il cinema e la televisione mi piacciono, ma il teatro è un’altra cosa. Una volta che dici la prima frase, non puoi fermarti. Ogni sera è lo stesso ed è diverso.

Momo AssadHai già lavorato in Italia?

No, ancora no. Però mi piacerebbe, intanto che aspetto di tornare in America cerco di recuperare informazioni e capire come funziona l’ambiente qui. Essere figlio di ristoratori torna utile in questi casi, a mangiare ci vanno tutti. E tutti sono più contenti di parlare di cose serie quando sono rilassati e stanno bene.

Chi sono i tuoi modelli attoriali? Ne hai?

Se devo scegliere tre persone che non riuscirei a trattare da colleghi, ti dico: Rowan Atkinson, un genio della commedia; Daniel Radcliffe, che quando faceva Harry Potter vivevo come il mio migliore amico, poi è passato al teatro ed è bravissimo, sono molto contento che abbia vinto il Tony; e Johnny Depp. Adoro la progressione della sua carriera, i personaggi che interpreta e come li sa portare in vita.

Ma vorresti fare della commedia, quindi?

Per ora mi hanno sempre scritturato per romance e drama, ma se posso indicare la mia scelta, dico sempre commedia. A teatro vorrei fare tutti i fool di Shakespeare. In Italia c’è la commedia dell’arte, anche Mr. Bean è un personaggio universale, come Arlecchino. Non aprono bocca e tutti capiscono. Magnifico.

Che poi, venendo da Roma, non potrebbe essere altrimenti. Senti, ma un sogno ce l’hai?

Non me l’hanno mai chiesto. È una domanda importante. Per ora penso di voler continuare a fare questa cosa, e diventare un attore sempre migliore. Voglio lavorare con belle persone, e raccontare storie positive. Dare il 100% di me stesso. Questa sarebbe già la felicità.

Sulla terra leggeri: diario d’amore

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Presentato in concorso a Locarno e ora al Medfilm Festival di Roma (11 novembre) Sulla terra leggeri, il film d’esordio di Sara Fgaier, è una storia composta un tassello alla volta. È il racconto dell’amnesia di un uomo (Gian, interpretato da Andrea Renzi) che attraverso un vecchio diario e l’aiuto della figlia (Sara Serraiocco), “ritrova” la moglie scomparsa e comprende l’unica verità utile a stabilirsi un’identità: che da soli non si è nulla, in due ci si riconosce.

Fgaier ha due corti all’attivo (Gli anni, 2018, selezionato a Venezia nella sezione Orizzonti e vincitore del Nastro d’argento 2019 per la categoria Corti Doc; L’umile Italia, 2014) e alle spalle una carriera da montatrice e produttrice insieme a e per Pietro Marcello – ha lavorato con lui su La bocca del lupo e Bella e perduta e fondato con lui la casa di produzione Avventurosa. «Tutto è cominciato mentre lavoravo al mio ultimo cortometraggio, Gli anni [ambientato in Sardegna, ndr]. Mi sono imbattuta in alcune immagini del carnevale sardo [di cui si vede un estratto all’interno di Sulla terra leggerindr] e ho voluto approfondire la dimensione che vedevo spalancarsi davanti a me. Ho sempre lavorato con immagini di archivio, è una ricerca che integro nella mia pratica, così come il lavoro con materiali diversi. Poi queste prime impressioni si sono legate alla lettura di un libro di Julian Barnes, Livelli di vita».

«Questo – continua Fgaier – mi ha portato al filo conduttore dell’opera: mettere insieme due cose che sarebbero canonicamente distanti, che siano immagini o persone ma anche stati di vita. Torniamo al carnevale con la sua compresenza di lutto e festeggiamento, di vita e di morte. È una ricerca molto interessante anche dal punto di vista del montaggio, perché queste giustapposizioni aprono una dimensione collettiva: non c’è più solo il racconto di un “io”, ma la prospettiva si ramifica nel “noi” della società. Nel film per me la contrapposizione più forte, in questo senso, è il rimanere in vita in presenza della morte, il ricercare la persona amata nel dolore, quando questa non c’è più. Sono esperienze che riconfigurano il tempo e lo spazio. Che ci riportano a istinti che potremmo aver sopito, dimenticato. L’idea alla base di tutto è: che cosa succede se l’amore della nostra vita ci dimentica? Non perdiamo noi una parte di ciò che siamo, l’altro una parte di ciò che è?».

In questa ricerca si parte dall’incertezza: le immagini si allargano e i contorni si sfumano. Noi con Gian non sappiamo dove risieda la verità, non ci è dato sapere se la raggiungeremo. Anche perché, cercando, Gian si avvale di un suo diario: per quanto contenga la soluzione, all’inizio sembrano le parole di un altro, niente torna, non ci si ritrova. Il vero si confonde nel falso.

«È in questo senso che, come dicevo, la storia nasce dall’accostamento di componenti distanti: la non-memoria di Gian, quindi le sue impressioni, e le parole contenute nel diario, che per quanto ipoteticamente veritiere vengono messe in discussione. Chi è Gian, dov’è Gian? Lui esiste all’incrocio tra queste due versioni del tempo, e dunque del mondo, nell’equilibrio e nelle relazioni. Che vuol dire anche tra la storia e la Storia, tra le mie immagini e quelle d’archivio. In particolare non volevo subordinare queste ultime alla trama, non volevo che fossero né illustrative né metaforiche, ma che avessero una propria esistenza ed economia. Per me voleva dire mettersi in discussione anche con la nostra epoca storica, presentando un modo di vivere, e ricordare, diverso. Quando una persona se ne va non muore un singolo, ma muore il mondo che si portava dietro. Amare una persona non è solo un sentimento, è una forma di interpretazione della realtà, è un’epoca tutta. Ecco, l’archivio per me rappresenta l’epoca che Gian sta cercando di ritrovare».

Trovare il legame tra memoria e amore: questo, mi dice Fgaier, è la chiave di tutto. È un baratro, se pensiamo alle categorie che siamo soliti usare per validare la nostra esperienza nel mondo e tenerci a galla. E una volta rotto questo nesso, infatti, Gian rischia di affogare. Per trovare le immagini che ben rendessero questa dichiarazione, la regista ha cercato per circa tre anni. Altre invece erano vecchie conoscenze, impressioni durature che non hanno desistito. Una tecnica a collage per attrazioni, o psicogeografia, che si ritrova anche nelle parole pronunciate nel mistero dei ricordi perduti di Gian. «Le voci off provengono da testi miei, da testi che ho letto, testi che ho trovato. Avevo la sensazione di aver raccolto materiale per tanto tempo, quasi senza essermene resa conto. E si sono uniti tutti in un’unica figura. Come se mi fossi preparata per questo film più a lungo di quanto credessi».

Sulla terra leggeriNella serendipità, una guida pratica si ritrova: è Walter Murch, regista e montatore di Touch of Evil, Apocalypse Now, Ghost, Il Padrino parte III e Il talento di Mr. Ripley per citarne alcuni. «Sono autodidatta», spiega Fgaier, «ho studiato storia del cinema all’università e ho iniziato subito a lavorare. Sapevo che mi interessava il cinema ma non sapevo bene in che ottica. Ho cominciato sul documentario e come montatrice, a posteriori sono contenta perché mi hanno dato l’opportunità di scoprire vari aspetti del mestiere, di provare la mano su varie cose e scoprire il mio stile. L’incontro con Walter è arrivato a 29 anni, nel momento perfetto. L’ho seguito per un anno e mezzo, ho lavorato a un suo film e poi, per Sulla terra leggeri, lui ha fatto da consulente, ci siamo confrontati molto. Gli sarò sempre grata. Lavorare con qualcuno che fa il tuo lavoro, vedere come fa il tuo lavoro… è importantissimo».

Un parte importante nel percorso del film l’ha giocato il Torino Film Lab, attivo del 2008, che in più di 15 anni ha contribuito a realizzare più di 200 opere tra sceneggiature accompagnate durante la fase di sviluppo e opere con sceneggiatura già in stato avanzato, poi aiutate durante le fasi finali della produzione.

«Accompagniamo i progetti per un anno, così da formare i professionisti anche per il futuro». Così Mercedes Fernandez, Managing Director TorinoFilmLab, che come il Torino Film Festival si situa sotto l’egida del Museo del Cinema del capoluogo piemontese. «Quello che facciamo non è solo affiancare tutor mirati a seconda delle esigenze del progetto, ma anche spingere i partecipanti di ogni gruppo, di solito dai 10 ai 20, a lavorare con i colleghi creando un ciclo di feedback virtuoso. Vogliamo creare una safe zone che permetta ai ragazzi di mettersi a nudo di fronte ai colleghi, di creare un confronto profondo e aperto. Non è facile quando si crea, non lo è nei confronti di potenziali “competitor” come altri registi o sceneggiatori».

Per Sulla terra leggeri gli interventi sono stati di finalizzazione – era infatti inserito nel programma FeatureLab. E poi, dopo il TFL Meeting Event, il co-production market di Torino Film Lab che si tiene in concomitanza con il Torino Film Festival a novembre di ogni anno, il Lab ha anche assegnato un premio a Fgaier per gli ottimi risultati portati a casa. Spiega Fernandez: «Per quanto le success stories del Torino Film Lab siano tante, riuscire ad arrivare in fondo a un percorso con profitto non è mai banale. Siamo molto contenti e orgogliosi di questi risultati. È un ottimo segnale per noi ma anche per tutta l’industria».

Bello che una storia di ponti, e transizioni, possa chiudersi sul futuro.

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Tech femminismo

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Riappropriarsi delle regole del gioco di tecnologia e intelligenza artificiale: è la parola d’ordine del nuovo femminismo, che non vuole più lasciare la palla solo agli uomini.

Partiamo da Teknolust, profetico film del 2002 di Lynn Hershman Leeson con Tilda Swinton: è un’utopia sci-fi di come le cose dovrebbero essere se alle donne fosse stato riconosciuto da sempre un rapporto alla pari con scienza e tecnologia (secondo dati Istat del 2021, in Italia si laurea presso Facoltà scientifiche solo il 16,5 delle studentesse, contro il 37% degli studenti).

Teknolust non fa mistero di giocare sulla prospettiva ribaltata: nel mondo della sua protagonista, la scienziata Rosetta Stone (Swinton), gli elettrodomestici nascondono futuristici dispositivi di calcolo e comunicazione, e l’obiettivo delle giornate è uno solo: creare la vita prescindendo dall’apporto dei maschi. Per Stone, questo significa creare robot senzienti “infusi” di vita dal suo stesso DNA. Di conseguenza, non solo le saranno biologicamente, ma anche fenotipicamente identici. I nomi delle prime “figlie” sono Ruby, Olive e Marinne, tutte interpretate da Swinton. Confinate in casa, ma impazienti di mettere il naso là fuori. Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di un nutriente particolare: il cromosoma Y contenuto nel genoma degli uomini. Per procurarselo c’è solo una strada: uscire dal nido, sedurli in un rapporto sessuale, e portare a casa il bottino.

Con Teknolust Herman non si muove nel vuoto, ma si lega a una riflessione cominciata con i movimenti post-umanisti e, specialmente, nell’alveo di un femminismo che si avvia al suo periodo tardo e che, pur non dichiarandosi intersezionale, di fatto ne anticipa alcuni assunti di base. Il testo canonicamente indicato come apripista di questo cambiamento è il Manifesto Cyborg di Donna Haraway: pubblicato per la prima volta sulla Socialist Review nel 1985, il Manifesto rivendica una visione complessa dell’identità e dunque del ruolo sociale dell’individuo, non riconducibile alle dualità di pensiero (“maschio” contro “femmina”) proposte dalla società occidentale e patriarcale. Siamo tutti assemblati di pezzi diversi, tutti cyborg o Creature (Shelley scrive che le membra del “mostro” provengono da corpi diversi, poi ricucite insieme) e la strada procede sull’individuazione dei punti di comunità e non, come nella prima ondata di femminismo, delle differenze. Come scrive Helen Hester in Xenofemminismo (NERO, 2018), «Manifesto Cyborg è stata un’espressione precoce dell’appello a generare parentele. […] Le basi per le nostre coalizioni strategiche più produttive potrebbero non risiedere nel nostro DNA». Memori della lezione di Michela Murgia, vogliamo aggiungere un complemento di specificazione: parentele d’anima, affinità elettive. Senza il bisogno di riprodurci con un cromosoma Y di mezzo.

Teknolust
Tilda Swinton in “Teknolust”.

C’è di più. Tanto il pensiero cyborg che lo xenofemminismo (una delle ultime evoluzioni del post-femminismo e transfemminismo) invocano un recupero del rapporto uno-a-uno con la tecnologia nella sua accezione più vasta: un mezzo, mai un fine, per modificare le persone e la loro relazione con l’identità e il contesto sociopolitico. Storicamente infatti, dicendola con il sottotitolo del saggio Gender Tech (Editori Laterza, 2023) di Laura Tripaldi (scienziata e scrittrice, PhD in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali), la tecnologia ha controllato il corpo delle donne, relegandole in ruoli preconfezionati e sempre soggetti alla volontà di colonizzazione maschile rifrasata come “indagine scientifica”, spesso medica. Scrive Tripaldi: «Le violenze operate dalla medicina sui corpi femminili […] non sono soltanto una macchia indelebile nel rapporto delle donne con il sapere tecno-scientifico. Sono anche, e soprattutto, l’inizio di una nuova forma di controllo tecnologico sui corpi, destinato a svilupparsi […] attraverso il Novecento in forme sempre più sottili e invisibili». […]

Di queste tecnologie, come la contraccezione ormonale, che promette non solo protezione da gravidanze indesiderate ma anche salvezza da tutti gli “squilibri” e i “guai” dell’essere donna, si dice che “è ciò che vogliono le donne”. Peccato che, come spiega Tripaldi, siano state inventate da un uomo, e che la situazione non migliori nemmeno nei trial medici per farmaci di uso comune, viziati dal cerchio di un serpente che si morde la coda: si hanno pochi dati sul corpo delle donne perché ci si concentra solo su alcuni aspetti del loro funzionamento, cercando di sopprimerli o controllarli; si sviluppano medicinali con dati prevalentemente maschili; ai trial i partecipanti sono prevalentemente uomini; dunque i prodotti sono sviluppati per gli uomini.

Si genera così un bias sistemico nei confronti del corpo femminile, tenuto in scarsa considerazione se non durante eventi biologici che, come la gravidanza, sono giudicati “interesse della comunità”. Tornando a Hester: «Lo xenofemminismo è un tentativo di formulare una politica di genere radicale adeguata a un’epoca di globalità, complessità e tecnologia. […] Il progetto xenofemminista non rifiuta la tecnologia (o la scienza o il razionalismo – idee spesso considerate costrutti patriarcali), ma la considera tanto una parte dell’ordito e della trama delle nostre vite quotidiane quanto una potenziale sfera di intervento attivista».

In altre parole, serve riappropriarsi della tecnologia, utilizzandola attivamente e rivendicando una libertà sociale che proprio dalla tecnologia è stata storicamente negata. Un’esigenza tanto più attuale negli anni in cui l’Intelligenza Artificiale è arrivata – e sempre di più arriverà – alla ribalta della quotidianità. Lo scriveva, già cinque anni fa, Ivana Bartoletti sul Guardian: «Il problema dell’avere solo uomini a scrivere le regole del gioco si sta facendo evidente nelle dinamiche di una cosa che è destinata a cambiare il modo in cui vivremo e respireremo: l’AI».

Bartoletti è una dei maggiori esperti mondiali di privacy e protezione dei dati. È stata ricercatrice all’Università di Oxford ed è attualmente Global Data Privacy Officer di Wipro. «C’è un primo grande problema: le scienziate sono poche, e questo porta a una conseguenza ancora più disastrosa: la mancanza di pensiero intersezionale mentre si crea un algoritmo». Che cosa succederebbe, per esempio, se per rinnovare un patente bastasse interfacciarsi con un’Intelligenza Artificiale, e se questa fosse stata addestrata per sottoporre le donne a prove e scrutini maggiori (d’altronde, donna al volante…)? O se il processo di recruitment di un’azienda dovesse passare attraverso le maglie dell’AI, magari portata a sfavorire le donne in età fertile per la paura di una maternità imminente? E che cosa succederebbe se queste AI fossero state cresciute nella convinzione che i capelli di una persona afrodiscendente non fossero indice di affidabilità? […]

Oggi, mentre siamo tutti bravi a giocare con ChatGPT e creare immagini di animali buffi con Midjourney, sarebbe bene non far cadere questi e altri avvertimenti nel vuoto.

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Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio

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Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente.

Valerio, classe ’96, ha un sorriso ampio e accompagna la conversazione via zoom a grandi gesti: è pieno di quell’energia, che, dalla partecipazione di Notte romana alla Settimana Internazionale della Critica (SIC) della 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ha portato alla vittoria nella sezione Jeune Cinéma/La Cinef del festival di Cannes, ribalta dei migliori corti provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo. È il suo lavoro di diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il barbiere complottista, a trionfare davanti ai colleghi di Cina e Ucraina. La motivazione della giuria, unanime: non c’è strada migliore per raccontare le minacce al nostro presente, le insidie del futuro, che mettere in primo piano il complottismo e le sue conseguenze ormai inestricabili dai pensieri di tutti i giorni. Anche se il racconto del fenomeno giunge ben calato e radicato in una Roma comune, di quartiere, contemporanea, dove chiunque potrebbe, tra un colpo di rasoio e l’altro, ricevere succosi scoop sui rettiliani da parte del proprio barbiere di fiducia. Anche – anzi, soprattutto – visto che Il barbiere complottista è una commedia, l’unica inserita nella rosa della selezione.

«Che poi certo, parlando di generi, Il barbiere è di sicuro una commedia, ma una commedia che non si ferma al sorriso di superficie. A Lucio (Patané, interprete del protagonista Antonio Calabrò) continuavo a ripeterlo: non deve far ridere. Piuttosto, deve essere assurdo». E l’assurdo, ne Il barbiere complottista, arriva subito, molto vicino. Si comincia dall’ossessione di Antonio per il lampeggiare dei lampioni della città, codice morse alieno; dal campo-controcampo tra Patané e il PC su cui il barbiere compila ossessivamente, interlocuzione allucinata, il suo blog complottista. Si continua con un raid della Digos a casa di Antonio: gli devono confiscare il computer, deve seguirli in centrale, è proprio lui il signor Calabrò? La legittimazione, per il barbiere, non è mai stata così dolce, così agognata: i dati raccolti sono allora importanti, possono davvero imbarazzare nomi potenti ai ranghi alti del complotto, e invece no, tutto si scioglie nello svelamento di un attacco hacker, pericolo ben più reale di Bill Gates e microchip. E i lampioni? Be’, risponde il comandante di centrale, è semplice, il Comune non ha i soldi per tenerli sempre accesi e deve interrompere la corrente. Ma è al ritorno a casa del battuto Antonio che la commedia rivela tutta la sua forza tragica: l’arresto ha dato una motivazione ad amici e famigliari per credere, infine, alle teorie del barbiere, e lui non si è mai sentito così forte.

Valerio Ferrara Notte romana
“Notte romana” il primo corto di Valerio Ferrara.

«Vedi, secondo me bisognerebbe tornare a prendere la commedia sul serio, non come quella cosa che usi per spegnere il cervello e fare soldi al botteghino. Il cinema italiano ha una tradizione senza paragoni nella commedia, ma oggi, se guardo i film fatti per far ridere, parecchi sono vuoti, senza una direzione, non vanno oltre la battuta. Chissà in che guaio mi sto cacciando a dirlo, ma, per me, ridare corpo e sfaccettatura alla commedia è una questione di responsabilità». Gli chiedo di più. «Monicelli, Risi, De Sica, Comencini, i maestri della nostra commedia avevano capito come fare una cosa, ovvero lasciar parlare la realtà. Prendi Il vedovo (1959) di Dino Risi. Ecco, Il vedovo altro non è che un fatto di cronaca, il film si ispira al caso Fenaroli. Quindi la mia responsabilità girando e scrivendo Il barbiere è stata documentarmi scrupolosamente su tutto quello che mettevo sullo schermo, dando forma sia alla vena comica che a quella seria. Quando arriva la Digos, per esempio, dovevo sapere come effettivamente la Digos avrebbe potuto presentarsi a casa di un sospettato, quindi sono andato in centrale a indagare. Se Antonio fosse stato solo ammanettato e portato via, avrei tradito la realtà, e non volevo espedienti facili, di ilarità facile. Lo stesso per tante altre dinamiche sia de Il barbiere che di Notte romana».

Per Valerio, il tempo, storico e no, è una cosa seria, lo si nota dalla qualità dei suoi lavori. «Mi piace l’idea che le persone si siedano in sala e abbiano la possibilità di entrare gradualmente nello spirito del film. Poi c’è anche una motivazione più triviale, perché io al cinema sono sempre arrivato in ritardo e puntualmente mi perdo l’informazione fondamentale nei primi due minuti. Così ho deciso che non metterò mai le informazioni fondamentali nei primi uno o due minuti di film».

Anticipazioni? «Ancora non c’è nulla sul piatto, ma posso dire che mi sono innamorato del complottismo, e voglio capirlo ancora più a fondo. Credo che, per il momento, proverò a lavorare su quello. Probabilmente con un lungometraggio». Niente panico, quindi, se vedremo Valerio inquadrato in qualche raduno di terrapiattisti sul TG nazionale. «Per preparare Il barbiere sono stato a vari raduni, ho letto e imparato molto sul tema. Credo di aver capito che esistono vari livelli di complottismo: vanno da quelli che non farebbero male a una mosca a quelli che sarebbero pronti ad aprire il fuoco. C’è poi un’altra cosa che mi spaventa e quindi mi interessa del complottismo: oggi, a mio avviso, è l’unica ideologia che ancora resiste nel mondo occidentalizzato. Se c’è qualcuno che sta costruendo mondi paralleli, questi non sono sicuramente i registi o gli scrittori, ma i complottisti. Poi mai dire mai, magari la prossima volta che ci vedremo avrò fondato la mia personale ideologia complottista a favore della rinascita della commedia italiana. Magari c’entreranno le luci dei lampioni».

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L’angelo dei muri, il regista: “parlo delle paure che ci portiamo tutti dentro”

Esce il 9 giugno in sala L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, sesto lungometraggio del regista friulano, prodotto e distribuito da Tucker Film in collaborazione con Rai Cinema e MyMovies e presentato per la prima volta nel 2021 alla 39esima edizione del Torino Film Festival.

Interamente girato a Trieste con pochissimi cambi di scenografia, L’angelo dei muri segue le vicende dell’anziano protagonista Pietro (Pierre Richard), il quale, sottoposto a sfratto dalla casa dove ha abitato tutta la vita, decide di nascondersi tra i muri e il buio silenzio dell’abitazione piuttosto che doversene separare. Presto, però, l’entrata di due nuove inquiline, madre e figlia (Zala, interpretata da Iva Krajnc, e Sanja, interpretata da Gioia Heinz) mette a repentaglio la ritrovata tranquillità di Pietro, che, nascosto come un “angelo” tra le pareti, si troverà ad affezionarsi lentamente alla piccola Sanja, quasi completamente cieca e alla ricerca di un amico con cui dividere il tempo nella grande casa vuota. Ma l’amicizia tra Pietro e Sanja porta alla luce le tenebre interiori del protagonista.

 

L’angelo dei muri è tutto ambientato in una casa, eppure il contesto cittadino e triestino è ben presente, dalle vie alla lingua dei protagonisti. Anche le tue opere precedenti sono fortemente legate alla tua terra d’origine, il Friuli Venezia-Giulia. Spesso hai detto che non è tanto la terra a ispirarti una storia, ma la storia stessa che si mette in dialogo con la terra. È stato così anche per questo film?

Per me il racconto di una storia parte sempre dal legame con quello che hai vissuto nella tua terra, nei luoghi che hai abitato. E questo avviene sia culturalmente che spazialmente, e in modo molto naturale, come un lascito. Nel caso de L’angelo dei muri ho voluto inserire sia elementi di contesto cittadino e triestino, come gli scorci dei palazzi austro-ungarici e l’atmosfera plumbea che gravita su tutto, ma anche particolari più intimi, rielaborando sui ricordi della mia infanzia. Quindi abbiamo ombre, suoni, grandi stanze e le paure che si generano a contatto con questi ambienti… tutti dettagli che ho assorbito passando molta della mia infanzia in montagna, nella grande casa che avevano i miei nonni.

La storia comunque non risulta mai localistica, anzi, si fa portatrice di un messaggio valido in qualsiasi luogo e tempo.

Questo per me è un paradosso felice, perché sono convinto che sia la potenza di una storia a darle portata e rilevanza. Se una storia raggiunge la completezza traendo la propria forza dall’humus in cui è cresciuta, allora toccherà corde che suonano simili, se non uguali, in tutte le anime. Questa è la grande potenza della narrazione: sapersi rendere universale, essere come una forma adattabile al contesto di provenienza di ognuno. E in questa dinamica c’è una dimensione che mi è particolarmente cara: quella della solitudine, dell’introspezione che ne consegue e dei suoi corredi e correlativi emotivi. Spesso si parla di questo quando si parla di paure, e nei miei film sono spesso le paure a catalizzare le indagini interiori dei protagonisti. Perché ognuno si porta dietro paure diverse e parole diverse per descriverle. L’essenza, però, è una, e valida per tutti gli esseri umani.

Tra l’altro di solitudine tu hai sempre parlato, e in modo, mi sembra di percepire, affezionato. Come una vecchia amica che porti con te e che fornisce combustibile alla voglia di narrare. Ragionamento che imbocchi decisamente nel film, dove, oltre a Pietro, protagonista sembra essere la rarefazione… 

Con la solitudine ho iniziato a ragionare più approfonditamente da Occhi, verso il 2007, e poi dopo con Oltre il guado (2013). L’angelo dei muri è però sicuramente, a oggi, il mio punto più alto di espressione della solitudine. E tutto parte in effetti da lì, dalla rarefazione, sia dal punto di vista scenografico che di quello che è la resa visiva finale. Regnano i silenzi, le parole pronunciate dagli attori sono pochissime e il vero dialogo che s’instaura è quello tra il rumore e l’assenza di rumore. Quindi si crea un enorme spazio vuoto, vuoto sotto ogni punto di vista, ed è attraverso questo vuoto che si può descrivere la solitudine sotto la forma dell’introspezione e della genesi delle paure. Paure che a me piace chiamare “neorealiste”, cioè comuni, con cui chiunque può entrare in empatia e fare i conti.

L'angelo dei muri

Una cosa che colpisce molto, all’inizio del film, e che sembra porsi come manifesto di questo approccio alla solitudine, è il piano sequenza di apertura: minuti interi dove domina la tecnica cinematografica nella sua versione più genuina, dove la camera non fa altro che muoversi nel silenzio, contravvenendo all’abitudine che vuole questo tipo di ripresa supportata da grandi musiche e ritmi.

Assolutamente sì. Io sono molto affezionato al piano sequenza, che considero la ripresa a maggior portata narrativa del cinema. Il piano sequenza è l’unico momento di un film in cui puoi esperire il tempo, in cui il tempo non è manipolato dal montaggio ma, semplicemente, scorre, è presente. E, percependo il tempo, ci si immedesima, ci si cala nel pathos del momento, si ritorna a una specie di battito cardiaco primitivo, un bioritmo del tutto nostro che, però, stiamo perdendo nei tempi sempre più frenetici che viviamo. Quindi questo battito, così come il piano sequenza, per me significa fermarsi, rallentare, indulgere nella dilatazione temporale, così che si creino “finestre” per l’introspezione. Inoltre, per L’angelo dei muri il percorso del piano sequenza di apertura traccia un vero e proprio risveglio per il protagonista. Il passato bussa alle porte della mente, il sogno muore e bisogna fare i conti con la propria realtà interiore.

Torniamo un attimo all’elemento della paura di cui parlavamo prima. L’angelo dei muri può essere letto come una “favola nera”, per quanto risulti però diverso dai tuoi film precedenti, che virano decisamente all’horror. Puoi parlarci meglio di questa diversità?

Naturalmente non si può parlare de L’angelo dei muri come di un horror, perché è piuttosto un dramma psicologico. L’elemento della favola, e della favola nera, deriva molto dalla fisicità dell’attore protagonista, Pierre Richard, perfetto per qualsiasi adattamento dell’opera dei fratelli Grimm. Sul concetto dell’horror però mi piace sempre dire che, per me, ha soprattutto a che vedere con l’orrorifico, per tornare al punto delle paure che ci portiamo dentro. Mi piacerebbe che i confini della nozione di horror si allargassero, che uscissero dal senso comune che lo avvicina più a una sequenza di jumpscare o agli slasher movie. Se l’idea del film di genere contemplasse anche la dimensione emotiva e non solo puramente visiva di ciò che si porta sullo schermo, probabilmente l’etichetta di “horror” potrebbe descrivere molte più cose di quelle che ci immaginiamo canonicamente. Ed è qui che torniamo a quello che mi piace chiamare neorealismo delle paure, un dare corpo, e volto, a quello che ci portiamo dentro.

Pierre Richard in L'angelo dei muri
Pierre Richard in “L’angelo dei muri”.

Pierre Richard ha quindi avuto un ruolo fondamentale nel dare al film la sua veste finale?

La mimica e il modo di portarsi sul set di Pierre sono stati elementi fondamentali. E la sua prova attoriale è stata, a mio modesto parere, da manuale, perché la sfida principe de L’angelo dei muri era sorreggerne l’impianto narrativo, e si parla di un’ora e tre quarti, usando solo la fisicità e l’espressività di un uomo anziano, fragile, schiacciato dal suo passato. Appena ho visto Pierre, mi sono subito convinto su di lui.

Parliamo della produzione de L’angelo dei muri, perché la tua carriera registica inizia nell’autoproduzione per poi transitare da piccole produzioni e, ora, arrivare a una produzione più strutturata. Com’è avvenuto questo salto?

Lavorare con una produzione più grande è stato un grandissimo piacere, e poter avere il supporto di una squadra più articolata è stato fondamentale per portare a termine la realizzazione del film com’era nell’idea originaria. Paradossalmente, però, ci siamo fermati a tre/quattro attori e praticamente una sola location di ripresa. Ovviamente, la maggior disponibilità anche in senso economico ha permesso, per esempio, di scritturare un attore del calibro di Pierre Richard. Allo stesso tempo, però, avere avuto esperienze di autoproduzione si rivela secondo me sempre utile quando si tratta di coordinare le operazioni sul set: hai conoscenza di prima mano del lavoro delle altre figure e questo ti fornisce una visuale molto più chiara delle tempistiche e dei passaggi da mettere in campo.

Quindi questa sarà la strada dei prossimi progetti? Puoi già darci qualche anticipazione?

Di sicuro voglio portare avanti entrambi questi filoni di produzione, quello in solitaria e quello di una produzione esterna e strutturata. Questo per un motivo molto semplice: le produzioni tradizionali hanno tempi di lavorazione per loro stessa natura più lunghi, e ti obbligano a una selezione a monte delle idee. Non a caso abbiamo già fatto qualcosa l’estate scorsa sul versante dell’autoproduzione, con letteralmente altre cinque persone più le comparse. Questo, per me, è lo spazio in cui sperimentare, e sperimentare è estremamente utile e appagante.

 

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