“Lo Steinway”, la tecnica e la poesia

still da Lo Steinway

«L’animazione ha avuto una storia molto ricca, ma il suo futuro è ancora più promettente». A farsi portavoce di questa certezza è Massimo Ottoni, giovane regista del corto d’animazione Lo Steinway che ha conquistato la critica soprattutto per il coraggio sperimentale e per la capacità di utilizzare più tecniche animate in grado di rimandare emozioni e stati d’animo con un risultato finale profondamente poetico. Un favore che si è tradotto in una menzione speciale ai Corti d’Argento 2017 e con un premio ottenuto allo ShorTS Film Festival.

Ma come nasce l’iter de Lo Steinway? Questo progetto innovativo, soprattutto per quanto riguarda le scelte produttive italiane, si deve all’unione tra Istituto Luce Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, all’interno del quale si trova il dipartimento di animazione. Proprio qui, dopo aver chiesto agli studenti di cimentarsi con il tema della guerra letta, però, in modo diverso, è stato scelto il progetto pensato da Massimo Ottoni e dal suo team che poi hanno dato vita a Ibrido Studio, una realtà a metà tra uno studio e un collettivo di autori di animazione. Così, grazie alle suggestioni nate dal racconto omonimo di Andrea Molesini e alla capacità narrativa per immagini di giovani animatori, è nata la magia inaspettata del film. Qui la Grande Guerra e la trincea diventano quasi un pretesto per raccontare l’interiorità degli uomini. Il tutto accompagnato dalle note dolci di un pianoforte, lo Steinway appunto, che unisce oltre le divise sull’onda dei pensieri e dei ricordi.

Fin dalle fasi iniziali è stato coinvolto Andrea Molesini. Scrittore di fama ed esperto della prima guerra mondiale, ha realizzato una sceneggiatura tratta da un suo racconto. In che modo l’animazione ha dimostrato di essere il linguaggio migliore per portarlo sul grande schermo?

Oltre a essere un noto romanziere, Andrea Molesini è anche un profondo conoscitore della Storia. E i particolari inseriti in sceneggiatura lo dimostrano. Fondamentalmente, però, sono rimasto colpito nel trovarmi di fronte a un racconto di guerra atipico. Qui, infatti, non si parla di grandi battaglie e non vengono descritte scene cruenti. In sostanza viene meno proprio quello che compone l’iconografia classica del film di guerra. Tutto è giocato sull’attesa, sull’interiorità di questi soldati che aspettano mesi prima di assistere a eventi, se così possiamo dire, degni di nota. Come mi ha spiegato lo stesso Molesini quando sono andato a trovarlo a Venezia, la guerra era fatta per la maggior parte proprio da questo tempo sospeso nelle trincee. Ecco perché la cosa interessante è stata proprio andare a scavare nella psicologia dei soldati che, durante le lunghe attese, avevano tutto il tempo di indagare su loro stessi e sugli eventi in cui si trovavano coinvolti. Tutto questo racconto interiore nella sceneggiatura era affidato alle parole, ma non è altrettanto facile rendere i sentimenti e i moti interiori in immagini. Per questo motivo l’animazione è risultato essere il linguaggio migliore per rimandare questi sentimenti  in modo lirico.

still da Lo SteinwayStabilite le suggestioni e le finalità artistiche del racconto, come avete agito dal punto di vista strettamente tecnico?

Partiamo con il concepire una sorta di analogia tra attore e animatore. La persona che modella il pupazzo, lo mette in scena o lo disegna, sta facendo una performance attoriale. Non usa il suo corpo come strumento, ma trasmette determinati imput emotivi a un elemento esterno. Ovviamente si ha a che fare con un linguaggio sintetizzato e, secondo lo stile usato, è possibile rendere una gamma di emozioni in modo più rapido. Per quanto riguarda Lo Steinway, poi, abbiamo cercato di non perdere i dettagli e le sfumature che caratterizzano la recitazione in senso stretto, nonostante siano veramente difficili da ricreare in un pupazzo, visto che non è possibile contare sulla fisicità o sulla mobilità di un volto. In questo caso, dunque, il lato artistico e tecnico sono strettamente legati tra loro. Il modo in cui viene progettato un pupazzo, infatti, determina anche il modo in cui si andrà ad animarlo e muoverlo nella scena.

Andando più nello specifico, quali sono state le fasi produttive più importanti?

Prima di tutto è giusto chiarire che ci si trova di fronte a un progetto molto ambizioso, soprattutto per il panorama italiano. In secondo luogo, poi, si tratta anche della storia meno adatta da ricreare in stop motion. Lavorando con questa tecnica, infatti, ci siamo trovati a dover fronteggiare molti cambi di scena, oltre a un numero importante di scenografie e personaggi. Ogni singolo elemento è stato costruito meticolosamente. In totale al progetto hanno partecipato sette persone, tutte concentrate sull’aspetto visivo. Per quanto riguarda, poi, le diverse fasi della realizzazione, si è partiti dallo storyboard per arrivare fino alla post produzione. Il tutto per un totale di nove mesi di lavorazione. Questo tempo può sembrare molto per chi realizza dei film in live action, per un progetto di animazione, però, è veramente poco.

Quando si organizza la produzione di un film dal vivo il primo passo consiste nell’identificazione delle location e nella costituzione di un cast. Come viene tradotto tutto questo in un film di animazione in stop motion?

Il primo passo è cimentarsi nella costruzione della scenografia e dei pupazzi, in totale venti. Pur avendo già molti personaggi pronti, infatti, si è presentata la necessità di realizzare un duplicato per alcuni di loro. In questo modo, infatti, abbiamo lavorato con due set in contemporanea per avere delle inquadrature diverse della stessa scena. Per chi non conosce bene la tecnica dello stop motion, diciamo che consiste nell’animare dei pupazzi all’interno della scena fotogramma dopo fotogramma. Si tratta di un processo incredibilmente laborioso. Basti pensare che, lavorando dalla mattina alla sera, riuscivamo a terminare la giornata con circa quattro secondi di lavorato a testa. Per questo motivo, dunque, le animazioni in stop motion possono costare anche più di un film hollywoodiano con tanto di cast stellare. Nonostante siano privi di nomi famosi in cartellone e non abbiano grandi effetti speciali, basano tutta la loro qualità proprio sulla mano d’opera.

Dal punto di vista registico qual è stata la difficoltà più grande? 

La stop motion è piena di difficoltà. Ogni aspetto rappresenta un ostacolo da superare. La più grande, però, è legata all’organizzazione della produzione. È fondamentale, infatti, costruire una macchina in cui tutto ha l’obbligo di funzionare perfettamente. E con tutto s’intendono elementi come la sceneggiatura, le luci e le macchine. Questo vale anche per i film in live, ma per l’animazione è una fase particolarmente complessa, visto che non sono consentiti molti margini di errore o ripensamento.

still da Lo SteinwayNel corto avete scelto di utilizzare due linguaggi animati diversi. Da una parte, infatti, c’è lo stop motion che, a un certo punto del racconto, si fonde con il disegno classico in 2D. Come avete lavorato su questo susseguirsi di linguaggi armonizzandoli insieme? 

Essenzialmente si tratta di una scelta concettuale. Avevamo di fronte a noi una sceneggiatura con una varietà di momenti e sentimenti. Da parte nostra abbiamo deciso di creare delle ambientazioni realistiche con lo stop motion, mentre l’introspezione e il viaggio interiore di ogni soldato è stato affidato al disegno classico. Durante la pianificazione questa scelta non convinceva molto i miei collaboratori. In definitiva avevano paura che i due stili stonassero tra loro. A conti fatti, invece, è uno degli aspetti più apprezzati del film. Dal punto di vista produttivo, poi, ci ha permesso di lavorare in contemporanea. Proprio perché la stop motion richiede dei grandi spazi, e per noi non era possibile lavorare su un numero maggiore di due set, poter contare anche su una seconda tecnica da portare avanti in contemporanea ci ha salvato. Detto questo, però, ci tengo a ribadire che si tratta di una scelta ideologica più che tecnica. Era fondamentale, infatti, trovare il linguaggio lirico per evocare la musica del pianoforte in grado di unire gli uomini al di là dell’uniforme.

Importante tanto quanto la realizzazione dei personaggi è stata la costruzione delle diverse scenografie, che hanno contribuito a rimandare un forte senso di realismo.

Si è trattato di un lavoro veramente laborioso. Ogni scena, infatti, è stata creata manualmente e meticolosamente. Tutto parte dalla consapevolezza che, anche quando si mette in scena un elemento per pochi secondi, questo deve essere curato alla pari di tutto il resto. Il rasoio del capitano, ad esempio, è un oggetto grande solo pochi millimetri. Per quanto riguarda, poi, il frammento di stoffa legato al filo che si vede sventolare in più di una scena, si è lavorato aggiungendo altre specifiche. Oltre alle sue proporzioni, infatti, la difficoltà maggiore era rappresentata dalla necessità di animarlo. Per questo motivo, dunque, al momento della costruzione è stato inserito al suo interno un foglio di alluminio per farlo muovere. Da questi particolari è possibile capire come il lavoro di preparazione della scenografia ha rappresentato una delle fasi più impegnative di tutto il film. Non bisogna dimenticare, poi, che ogni singolo elemento deve essere costruito pensando già all’inquadratura. Noi, ad esempio, usavamo delle macchine troppo grandi per riuscire a entrare in alcuni ambienti nel modo migliore. Per questo motivo, dunque, si è pensato di costruire le diverse parti della trincea in modo tale che fossero rimovibili. Allo stesso modo è stato progettato il rudere all’interno del quale viene trovato il pianoforte, che è stato realizzato in proporzioni piuttosto ampie, visto che era alto come una persona. La particolarità, però, consiste, nell’averlo messo in proporzione con dei personaggi alti, più o meno, trenta centimetri. L’ultima sfida è stata rappresentata dalla resa realistica dell’esterno, ossia dell’ambiente naturale che circonda le trincee e che i soldati esplorano. Per ottenere un effetto soddisfacente abbiamo impiegato delle foto scattate nei dintorni di Torino, in particolare vicino alle Alpi, integrate poi dall’inserimento di altri elementi, come alberi appositamente costruiti. In questo modo siamo riusciti a dare l’effetto di un ambiente molto vasto.