Noi siamo Alitalia, il docufilm che ricostruisce il tramonto della compagnia di bandiera

Noi siamo Alitalia
Un'immagine dal docufilm di Filippo Soldi "Noi siamo Alitalia".

Noi siamo Alitalia – Storia di un paese che non sa più volare è la terza e ultima parte di una trilogia che il produttore e autore Alessandro Tartaglia Polcini ha deciso di dedicare all’annosa, dolorosa e a tratti misteriosa vicenda che ha visto il lungo tramonto della compagnia aerea di bandiera nell’arco di alcuni decenni.

Il testo che segue è la trascrizione dell’incontro con Filippo Soldi, il regista e il coautore di questo documentario che per riuscire a riordinare le trame di una storia tanto lunga e complessa costruisce una cornice basata sul calco finzionale del lavoro dei veri autori del film messi in scena da attori professionisti, mossi e animati da una sceneggiatura; una cornice che inquadra e riposiziona ricostruzioni, riflessioni, testimonianze e documenti con l’intenzione di offrire una spiegazione complessiva facilmente comprensibile.

La prima questione che vorrei affrontare è che questo a suo modo è un film d’inchiesta e un film che si fa carico di un impegno, in un certo senso è un genere d’intervento che in Italia non si fa quasi più da tanto tempo. C’è una strana risonanza: da una parte un riecheggiamento lontano dei film “impegnati” degli anni Sessanta e Settanta e dall’altra una familiarità con la comunicazione audiovisiva del nostro tempo.
È una questione alla quale ho pensato solo a posteriori. Quando son stato invitato a lavorare al film molto materiale era già stato girato: a me si chiedeva di costruire un racconto. Io prima di tutto ho avuto un grosso problema: non capivo niente, guardavo queste centinaia di manifestazioni, queste centinaia d’interviste che si concentravano sempre su un singolo problema e mi rendevo conto che da esterno non riuscivo a ricostruire l’intero quadro. Il punto è stato allora fin dal principio tentare di capire. Penso che oggi non possiamo dire di non avere informazioni, ne abbiamo anche troppe, ma sono frammenti sempre incompleti. L’idea è stata allora di raccontare la nostra storia di autori – io, Maria Teresa Venditti, Annamaria Sorbo e lo stesso produttore Alessandro Tartaglia Polcini – che volevamo solo capire, farci un’idea chiara, semplice oggettiva di
questa vicenda. Idealmente eravamo aperti ad approdare a una conclusione non prevista, senza pregiudizi. È quasi come se il film fosse il racconto di un tentativo di comprensione. La comunicazione è stata uno strumento potente nella mani di chi ha guidato dall’alto questo lungo processo di smantellamento. La comunicazione è importante ma può essere fuorviante se viene usata per non consentirti di capire. Quando Alessandro mi ha chiamato io di Alitalia avevo l’idea fuorviata che hanno quasi tutti. Poi leggendo, guardando, studiando mi son reso conto che non avevo capito niente. Non è facile oggi fare cinema politico così come lo si è fatto in passato in questo paese e altrove. Non è un problema di censura: non c’è più la concentrazione, l’attenzione che consenta di
affrontare le cose in un tentativo di serietà. Quel cinema con il quale sono cresciuto oggi non si può più fare, ma a me è ancora quello che piace di più.

Noi siamo Alitalia

Per la costruzione della forma di questo racconto avete usato dunque anche riferimenti cinematografici?
Non ci sono stati modelli consapevoli, semplicemente quelli sono i modelli con i quali io sono cresciuto. Tieni conto che ho iniziato a lavorare nello spettacolo con Luca Ronconi, son stato il suo assistente: per lui la comprensione era la prima cosa. Mi son reso conto che ho messo in atto le strutture che ho appreso dal cinema di Visconti, di Rosi e anche di altri. Non li ho cercati, è stato naturale.

A questa crescente necessità di comprendere e ordinare la gran mole d’informazioni che ci investe si contrappone un’ondata che ha investito potentemente anche il documentario: tutto ormai è diventato narrazione. Il vostro film sembra muovere il suo discorso a partire dalla necessità di costruire un racconto anche solo come principio d’ordine tra le cose.
Il documentario per me è una ricerca, non un atto poetico. Anche in altri documentari che ho fatto avevo il problema di dove ambientarli, perché erano un percorso, un’indagine tutta intellettuale senza un luogo. Anche in questo caso il viaggio è nelle teste degli “ispettori”. All’inizio quelli di Alitalia – diciamolo – non sono per loro neppure simpatici, li considerano dei privilegiati che giustamente hanno perso il lavoro. La loro ricerca comincia come un lavoro non troppo approfondito, li ho immaginati come autori televisivi… Poi però le cose cambiano, si rendono conto che hanno a che fare con il più grosso licenziamento della nostra storia repubblicana. Una vicenda che riguarda la struttura dell’intero Paese.

Per trovare una sintesi ma anche una semplificazione che rendesse comprensibile questa enorme massa di frammenti di una vicenda tanto lunga, vasta e complessa, come avete ragionato?
Ci siamo messi a navigare insieme in mezzo a questo mare di materiale. È cominciata presto la disperazione: era praticamente impossibile offrire un percorso filmico se non raccontando il nostro percorso. A me il cinema nel cinema è sempre piaciuto molto, mi piace vedere il processo che prende forma. Non ci credo a un film che mi racconta una storia, ma credo a un film che mi fa vedere qualcuno che mi vuole raccontare questa storia.

Nel film manca del tutto la voce dei vertici Alitalia così come dei politici e degli altri dirigenti che hanno avuto parte nel destino della compagnia.
L’idea era di raccontare da esterni quello che potevamo vedere. La dirigenza era un problema, anche perché negli anni di dirigenze ne sono cambiate tante, era complicato. Allora è venuta la scelta di intervistare persone che avevano avuto modo di vedere le cose da quel punto di vista (Gianni Rossi è stato amministratore delegato di Meridiana, per esempio) oltre che testimoni diretti ed esperti che fossero in grado di ricostruire e analizzare, ma intervistare uno del consiglio di amministrazione Alitalia non ci sembrava necessario.
Abbiamo scelto di raccontare attenendoci ai fatti, alle conseguenze delle scelte fatte nel tempo, perché si tratta di una vicenda che dura da decenni e i fatti di oggi sono la conseguenza di azioni intraprese molto tempo prima. C’era anche il limite della durata del film con cui fare i conti.

Quali sono state le motivazioni che hanno guidato il vostro lavoro?
Capire. Quando lavoro per il teatro, lo spettacolo è il momento culminante di un processo, a me piacerebbe che le persone assistessero al processo invece che solo al risultato finale. Perché è nel processo creativo che si mette a fuoco, che si cerca di capire. A me piace un cinema che diverta: il divertimento può produrre una comprensione anche migliore.
Anche scrivere le parti di finzione è stato un modo per approfondire questa comprensione: per me la sceneggiatura è una scrittura che deve mettere in moto qualcosa, faccio fatica a pensarla testo che va recitato e basta.