“Indivisibili”: l’incubo ferisce più del reale

Viola e Dasy sono un solo corpo, perché gemelle siamesi, ma due menti diverse, con desideri diversi, paure diverse. Se una vuole scappare, l’altra vuole restare, e ogni disaccordo resta irrisolto, soffocato dal fatto che le due sono fisicamente legate e in maniera indissolubile. L’una non può fuggire dall’altra.

Già questo è un pretesto eccellente per porre le basi di una storia che si evolve del tutto imprevedibilmente dopo che le protagoniste in questione (le bravissime sorelle Fontana) vengono a conoscenza della possibilità di porre fine al loro vincolo, cioè poter essere divise in una costosa clinica. Il padre (un ottimo Massimiliano Rossi), che guadagna sfruttandole come fenomeni da baraccone, non tollera l’idea dell’eventuale divisione e ciò implica una serie di avvenimenti che si susseguono in una struttura narrativa che non richiede di essere letta da un occhio alla ricerca del reale, bensì da un osservatore disposto ad accettare di avere di fronte la labirintica fuga da un incubo, al termine del quale è difficile intravedere un risveglio.

Edoardo De Angelis, da sempre attratto dalla visceralità di alcune storie, ci trascina in un torbido e disturbato viaggio di due innocenti, tagliate fuori dal mondo, attraverso diverse forme di male, quello sì, esistente anche nell’ambito del reale. Un male che è come un mostro che assume più facce simboliche, dal viscido impresario sullo yacht al temibile esponente di una religione che qui ha tratti più pagani ed esoterici che mai. Il viaggio di Viola e Dasy attraverso l’inferno le porta, così, prima a una rinascita, attraverso l’acqua, e poi ad una dolorosa espiazione/santificazione che non fa neppure a meno di un ultimo, terribile sacrificio.

Il regista napoletano, già prima di Mozzarella Stories e di Perez, con l’intelligentissimo cortometraggio del 2006 dal titolo Mistero e passione di Gino Pacino, in cui un uomo si svegliava cieco per il senso di colpa dovuto all’aver sognato di far l’amore con Santa Lucia, ci aveva mostrato la sua capacità di esplorare il rapporto dell’uomo comune con i concetti di santità e di spiritualità, così apparentemente eterei eppure fautori di concreto dolore. Perché una cultura religiosa e sociale così feroce è proprio come quel coltello che si conficca nelle mani e nelle carni delle due povere sorelle: un’arma simbolica che crea ferite reali, più reali di quanto si possa immaginare.