Ai confini del male, la svolta thriller di Vincenzo Alfieri

Ai confini del male
Edoardo Pesce e Massimo Popolizio sono i protagonisti di "Ai confini del male".

In uno sperduto paese al limite del bosco due giovani sono scomparsi. Indagano i carabinieri Meda, un uomo sconfitto dalla vita, e Rio, il Capitano inflessibile e rigoroso. Ai confini del male è il terzo film di Vincenzo Alfieri, i protagonisti sono due pezzi da novanta come Massimo Popolizio e Edoardo Pesce. Abbiamo fatto una chiacchierata con Vincenzo Alfieri per entrare nel vivo delle atmosfere thriller del film, prodotto da Italian International Film – Gruppo Lucisano, Vision Distribution e Sky (dov’è appena uscito possibile vederlo).

Quando hai capito che volevi fare un thriller?

In realtà non lo avevo capito. Non parto mai né da attori prestabiliti né da un genere. Spesso sono le idee che vengono da me. In questo caso, dopo Gli uomini d’oro (2019) avevo voglia di esplorare in modo più approfondito il legame padre-figlio. Poi è successo che la produttrice mi ha proposto di leggere Il confine di Giorgio Glaviano, dove veniva raccontato di questo legame. Il libro appunto è un thriller, un genere che amo, e quindi ho pensato “Sarebbe bello affrontare il tema del legame padre-figlio attraverso il thriller” ed è così che è nato il film.

Ai confini del male ha tutte le carte per interessare anche il pubblico internazionale: quali sono stati i tuoi riferimenti visivi?

Quando ti muovi dentro un genere specifico devi studiarti tutto quello che è stato fatto prima per capire cosa fare e cosa non fare. In Italia ci sono i film di Donato Carrisi, prima di lui mi viene in mente La ragazza del lago di Andrea Molaioli (2006). E prima ancora, fra i “classici”, mi sono ispirato a Un borghese piccolo piccolo (1977) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Riguardo al cinema USA, sicuramente c’è moltissimo di True Detective: non è un vero e proprio omaggio, la serie ormai è qualcosa che fa parte della mia vita, l’avrò vista almeno dieci volte… Il rapporto tra i due protagonisti, due poliziotti pieni di debolezze e incongruenze, mi ha sempre affascinato, e ho in qualche modo cercato di ricreare questa dinamica.

Massimo Popolizio e Edoardo Pesce sono bravissimi a rendere questo legame. Com’è stato dirigerli?

Grandioso, perché quando chiedi a un attore di fare qualcosa di inusuale rispetto alla sua carriera, insieme avete la possibilità di esplorare. Inoltre ho visto come, attraverso di loro, i personaggi prendevano forma e vita durante le riprese. La capacità di un regista è anche quella di riconoscere all’attore il fatto che sa vivere e capire il personaggio meglio di lui, una volta che veste quei panni. Edoardo Pesce è molto istintivo, quindi durante ogni ciak inventava alcune cose e proponeva idee, con Massimo Popolizio, invece, è stato tutto studiato prima perché parlavamo di ogni minimo dettaglio dalla camminata del sergente Rio a come avrebbe guardato e parlato. Due approcci molti diversi ma stimolanti allo stesso modo.

Ai confini del male
Edoardo Pesce in “Ai confini del male”.

La scena della lotta finale dove la telecamera riprende dall’alto i due protagonisti è molto intensa…

Sì, perché penso che se avessi chiuso con la classica scena di azione avrebbe perso forza l’intero film. Invece Ai confini del male parla di due uomini, due padri, due amici-nemici, perciò dal mio punto di vista è sempre stato quello il finale: due persone a nudo, per terra, che distrutte cercano di uccidersi come possono, ma riconoscendosi l’uno nell’altro. La scena in sé non significa “Io ti voglio uccidere” ma “Io ti devo uccidere”.

Quanto ha influito la pandemia sulla realizzazione e sulla scelta delle location?

La mia idea era girare il film da un’altra parte. Un po’ per la pandemia, un po’ per questioni di budget ho chiesto di farlo nel Lazio ed è stata una sfida perché il Lazio non aveva, dal mio punto di vista, quello che stavo cercando. Non potevo girare in un paesino preciso perché non avrebbe avuto quelle atmosfere che io ricercavo. Quindi abbiamo fatto un patchwork di luoghi e ringrazio lo scenografo Ettore Guerrieri insieme al direttore della fotografia, Davide Manca, che hanno fatto un lavoro eccezionale per dare a questo “non luogo” che abbiamo costruito una struttura davvero reale. Ci tenevo ad avere un film che avesse un rapporto con l’acqua e con gli specchi, perché credo che l’immagine che vediamo riflessa nello specchio o nell’acqua in realtà non sia la nostra, ma un’altra versione di te. È così è per tutti i personaggi.

Il finale lascia intendere un possibile seguito: hai già un’idea di film o serie sulla storia di cane pazzo?

Io sono contrario ai sequel, ma se lo faranno sarò contento per chi lo farà [sorride].