Interviste Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 12 Oct 2022 15:17:52 +0000 it-IT hourly 1 Omar Rashid: la realtà virtuale è rivoluzionaria, il metaverso è già vecchio https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/omar-rashid-la-realta-virtuale-e-rivoluzionaria-il-metaverso-e-gia-vecchio/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/omar-rashid-la-realta-virtuale-e-rivoluzionaria-il-metaverso-e-gia-vecchio/#respond Wed, 28 Sep 2022 09:16:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17719 Dall’underground alla moda, fino alle più varie forme di comunicazione audiovisiva: Omar Rashid non smette di sperimentare i linguaggi del mondo dei media in continua espansione. Co-fondatore del progetto multimediale Gold, è uno dei referenti più autorevoli per la realtà virtuale in Italia. Ha realizzato lavori in VR che si relazionano con il teatro, con […]

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Dall’underground alla moda, fino alle più varie forme di comunicazione audiovisiva: Omar Rashid non smette di sperimentare i linguaggi del mondo dei media in continua espansione. Co-fondatore del progetto multimediale Gold, è uno dei referenti più autorevoli per la realtà virtuale in Italia. Ha realizzato lavori in VR che si relazionano con il teatro, con il cinema e con il documentario; in questa conversazione ci ha parlato dello stato attuale di questa tecnologia, delle sue caratteristiche, nonché dell’obiettivo di definire un linguaggio ancora tutto da scrivere.

Qual è stato il percorso professionale che ti ha portato alla VR?

Mio padre lavorava nel settore della moda e mi ha indirizzato verso quegli studi. Avevo inoltre una grande passione per il cinema e la comunicazione underground: facevo i graffiti quando ero più giovane. Finiti gli studi ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’abbigliamento streetwear, prima a New York e poi in Italia. È così che mi sono avvicinato all’audiovisivo, impiegando tecnologie sempre nuove, come la realtà aumentata nel 2013 e poi la realtà virtuale nel 2015. Da lì è iniziato un percorso di ricerca su questo linguaggio.

Quali stimoli e opportunità in più offre la VR a un regista rispetto all’audiovisivo a due dimensioni?

Premesso che il mio punto di riferimento principale rimane il cinema, nella realtà virtuale ci vedevo uno spazio in comune, perché per me quello in realtà virtuale resta un cortometraggio, semplicemente è girato con un linguaggio rivoluzionario. Ad esempio, lo sguardo in macchina nel cinema è qualcosa che porta fuori dalla narrazione, nella VR è invece qualcosa che porta dentro. Il dover scrivere la grammatica di un nuovo linguaggio mi è sembrata una sfida stimolante, sicuramente ambiziosa, ma che valeva la pena percorrere.

In che modo, secondo te, possono interagire VR e cinema?

Possono interagire nello stesso modo in cui il cinema interagisce con il teatro: sono due linguaggi diversi, ma si può parlare sempre di narrazione, di recitazione, di coordinare una serie di talenti per ottenere un risultato. Il cinema ci porta a vivere le storie come spettatori esterni, il teatro ce le fa vivere in tempo reale, fornendo occasioni di interagire con esse. La VR è una via di mezzo: ti dà la sensazione di essere lì, mentre le cose succedono, ma ti mette comunque nella posizione di spettatore. Oggi la VR va in due direzioni: quella del 6DOF, che permette di muoversi in uno spazio e interagirvi, con sei gradi di movimento; e poi quella del 3DOF, quella che faccio io, con tre gradi di movimento e molto più vicina al cinema, perché ci permette di vivere un’esperienza voyeuristica, però dall’interno del contenuto.

Omar Rashid VR
Immagine dal progetto “Vulcano”.

Per la fruizione dei video in VR ci sono già piattaforme come YouTube e Facebook. Credi che siano adeguate?

Youtube e Facebook consentono di vedere su un monitor dei video a 360°, ma è importante distinguerli a livello produttivo da quelli realizzati per il visore, in cui ci si possono permettere altri tipi di movimenti di camera. Il problema principale della tecnologia VR è la distribuzione: non c’è una così grande disponibilità di visori, né una piattaforma definitiva. Facebook e Youtube nascono per altro e si sono affacciate in seguito alla VR, poi ce ne sono altre frammentate: Oculus ha la sua piattaforma, così come HTC e PlayStation, ognuna con dei propri contenuti; oppure ci sono Netflix e Prime che hanno una piattaforma VR ma senza contenuti originali. Noi ci proponiamo di portare i visori alle persone e per farlo abbiamo sviluppato un’app per promuovere il nostro modello di distribuzione: da una parte giriamo con dei nostri visori in delle città d’Italia dove proviamo a presentare i nostri lavori; dall’altra lavoriamo al progetto “Saletta VR”, in modo da avere una mappatura di luoghi in cui rimanere permanentemente. Una volta che si sarà venuta a creare una massa critica, per cui la gente è stimolata a comprare un visore, allora si potrà veramente pensare a un mercato funzionante, insieme alla scelta della piattaforma più adeguata.

Rimanendo su Facebook: qual è il tuo parere sul metaverso?  

All’inizio il metaverso può sembrare una cosa distopica, ma in fondo è solo un mezzo con delle potenzialità comunicative interessanti. Quello che non mi convince di Facebook è che sta raccontando un metaverso già vecchio, già esplorato da Fortnite ad esempio. Secondo me Zuckerberg sta sbagliando approccio, perché sta spingendo troppo sul fatto che ognuno abbia un visore in casa, quando è difficile se non si è un addetto ai lavori o un gamer. Prima bisogna abituare la gente a indossare il visore, spostare subito l’universo social sul virtuale in questo modo significa un po’ bruciare le tappe, oltre che cercare di monopolizzare il mercato.

Che tipo di strumentazione occorre per realizzare le riprese in VR? Usate più telecamere contemporaneamente oppure degli obiettivi particolari?

Il concetto alla base è quello di riprendere tutti i punti di vista dal centro. Esistono delle camere fatte di due obiettivi e due sensori, altre con sei obiettivi e sei sensori, oppure possono essere assemblate. In alternativa, si possono riprendere dal centro con la stessa camera tutti i punti di vista, ma in momenti separati. In ogni caso, con il passaggio successivo, che si chiama “stitching”, si vanno a ricucire tutte queste riprese.

Per simulare il movimento in prima persona usate un casco sull’operatore?

Sì, però il movimento in prima persona è qualcosa di più adatto alla fruizione con un monitor. C’è chi lo fa con dei contenuti per il visore, ma in questo modo si genera il motion sickness, provocando un effetto straniante. I movimenti di macchina sono molto delicati quando si crea qualcosa per il visore.

Omar Rashid VR
Elio Germano.

Come funziona l’illuminazione nei set per delle riprese in VR?

Nella VR non esiste il set come è inteso nel cinema, perché tutto quello che è in scena deve essere ripreso, quindi non c’è né regista né operatore. L’illuminazione è molto impegnativa sotto questo punto di vista, la luce non deve cambiare mai, altrimenti quando si vanno a ricucire le riprese si notano le differenze. Una volta, per fare un video di un minuto e mezzo siamo stati otto ore a sistemare le luci in modo da nascondere tutte le ombre per iniziare a girare.

Per la postproduzione si usano i software classici? Oppure esistono dei software dedicati?

Per quanto riguarda lo stitching esistono dei software dedicati, come Mistika, che è quello che usiamo di più. Quando si va al montaggio si impiegano i software classici, perché i video “ricuciti” si possono trattare come video per il cinema.

In termini di produzione e diffusione, quali prospettive vedi per l’impiego del VR in Italia?

Girando per festival cinematografici ci si accorge che iniziano a comparire sezioni dedicate alla VR. Io credo che abbia un grande potenziale, perché offre un’esperienza collettiva da provare fuori casa, in alternativa al cinema. Io ho avuto la possibilità di lavorare con attori di cinema perché anche loro la vedono come un’opportunità nuova per il proprio mestiere. Sono convinto che la VR partirà, noi stiamo facendo il possibile per accelerare i tempi, ma richiede contenuti all’altezza che convincano le persone. Noi abbiamo fatto lavori che hanno riscosso un buon successo, anche con Elio Germano, il cui nome è già un traino importante per portare persone di tutte le età a provare il visore.

Su cosa state lavorando ora?

In ambito produttivo stiamo lavorando a progetti che guardano al teatro, perché si prestano più facilmente a trasposizioni VR con uno spazio circoscritto e in tempo reale. Così come si presta bene all’ambito documentaristico: ad esempio abbiamo ripreso un vulcano in eruzione in Islanda con un drone. Ci piace portare le persone in luoghi per loro inaccessibili, come fecero i fratelli Lumière all’inizio della storia del cinema.

 

 

 

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Maddalena Stornaiuolo, che racconta una Napoli senza sconti https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maddalena-stornaiuolo-che-racconta-una-napoli-senza-sconti/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maddalena-stornaiuolo-che-racconta-una-napoli-senza-sconti/#respond Mon, 19 Sep 2022 09:00:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17694 Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da […]

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Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da vivere, un bambino vestito da Hulk che non ha la forza di difendere nessuno.

Maddalena è attrice, acting-coach, regista, imprenditrice e fondatrice della compagnia teatrale Vodisca Teatro e della scuola di recitazione La scugnizzeria. Con Sufficiente, il suo primo cortometraggio diretto insieme ad Antonio Ruocco, ha ricevuto il Premio Speciale ai Nastri d’Argento 2020 ed è in giro per festival con il suo secondo lavoro, Coriandoli (2021). La forza di questi shortfilm sta nella sottrazione e nello sguardo onesto e partecipato, nella regia tesa al mettere al centro i giovani protagonisti e le loro storie raccontate in prima persona, senza sconti. Solida e instancabile, Maddalena ha cambiato il volto di un territorio dimenticato da tutti, compiendo un lavoro enorme di recupero e riqualificazione del tessuto sociale.

La scugnizzeria non è solo una scuola ma un progetto votato all’inclusione, aperto al territorio e a persone di tutte le età, alle quali offri numerose opportunità a prezzi popolari. Hai portato il cinema sul territorio e i ragazzi via dalla strada.

La scugnizzeria è un progetto che è nato solamente cinque anni fa, ma è un sogno che coltivavamo da tempo, solo che tra un lavoro e l’altro era veramente complicato trovare uno spazio che potesse ospitare una grande quantità di ragazzi. Poi, quando sono rimasta incinta di mia figlia, mi sono dovuta fermare, non potevo essere sui set né tanto meno fare spettacoli a teatro. Allora mi sono detta che era il momento giusto per creare La scugnizzeria. Ci siamo messi alla ricerca degli spazi e li abbiamo trovati dove speravamo. Sono arrivati tantissimi ragazzi, all’inizio da Scampia, da Melito, dalla periferia limitrofa e poi da ogni punto della città. Questa è stata una vittoria, non volevamo solo avvicinare i ragazzi del quartiere ma creare una mescolanza, delle connessioni.

Maddalena Stornaiuolo Scampia
Le Vele di Scampia.

Non parliamo solo di corsi di recitazione ma anche di produzione, da qui ha preso forma Sufficiente. Gaetano è un pluriripetente che si presenta agli esami di terza media e aspira alla licenza con un voto sufficiente, qualcosa che significhi “abbastanza”. È un corto sul pregiudizio, sulla società escludente, sugli adulti che non tutelano e sui figli che pagano per gli errori di tutti. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?

Siamo partiti con l’idea di raccontare una situazione che conoscevamo da tanto tempo, perché purtroppo la vicenda – per quanto romanzata – prende spunto da una storia vera, ma volevamo raccontarla da una prospettiva differente. La criminalità è spesso narrata da un solo punto di vista, invece mi interessava dar voce al ragazzo che subisce le conseguenze delle scelte non sue. Volevo che si sentisse preso in considerazione, quando a casa e a scuola questo non era accaduto. Credo che il cinema serva anche a dare voce a chi non ha la possibilità di farsi ascoltare.

Coriandoli è un’altra storia vera, quella di Speranzella che legge sul balcone per non sentire la madre che accoglie in casa i clienti. Una bambina che vede nei libri una via di fuga, che ha paura del rumore delle zip e non mangia perché non vuole che le cresca il seno. Totoriello è vestito da Hulk e vorrebbe avere i superpoteri per difenderla, ma è terrorizzato. Eppure sono a una festa con le giostre, vestiti da Carnevale: hai scelto questa ambientazione per contrasto?

Sì, esatto. L’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere età felici, ricche di scoperte, invece questi due bambini si trovano a fare i conti con un presente feroce e con un futuro incerto, pieno d’ombre. Mi premeva raccontare un’infanzia negata da situazioni di criminalità: non era quello che era accaduto a me ma, se ci penso, non ho ricordi di me in cortile o al parco, non potevo giocare fuori perché i miei avevano troppa paura. Tutta la mia infanzia è trascorsa tra il balcone e le mura domestiche, le uscite erano altrove, non nel rione. Volevo che questo risuonasse nel personaggio di Speranzella, questa chiusura nelle mura di cemento, in quel balcone lunghissimo che da piccola ti sembra sconfinato e invece non è che uno spazio troppo limitato.

Maddalena Stornaiuolo
Maddalena Stornaiuolo.

Hai recitato in Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, un esempio di teatro e cinema civile, che racconta la storia vera di una ragazza di ventidue anni uccisa dalla camorra nel 2004, nel quartiere di Secondigliano. Cosa ti sei portata dietro da questa esperienza?

Tutto è iniziato durante la prima stagione di Gomorra, quando in parallelo alla messa in onda passavano su Sky Atlantic dei cortometraggi: uno di questi era Centoquattordici diretto da Massimiliano Pacifico che raccontava la storia di Gelsomina Verde, vittima numero centoquattordici dall’inizio della faida di Scampia. In quel corto interpretavo l’amica che raccontava la storia, ma già alla fine delle riprese sentivamo l’esigenza di approfondire quella vicenda: così è nato il lungometraggio dove avevo il ruolo di Gelsomina. Recitare alcune scene mi faceva molto male, a volte la notte non riuscivo a prendere sonno sapendo che all’indomani avrei dovuto interpretarle, ma questo mi ha aiutata a dare il taglio giusto. Si è parlato molto di lei, anche sui giornali e in TV, non sempre in maniera corretta. Poterla raccontare con l’aiuto del fratello, Francesco Verde, è stato il nostro piccolo dono alla memoria di questa ragazza morta in modo feroce. È stato un riscatto, se così si può dire, meritava di essere raccontata nel modo più onesto possibile.

Hai lavorato come acting-coach nella terza stagione della serie L’amica geniale, diretta da Daniele Luchetti, e poi sul set de La vita bugiarda degli adulti, la serie prodotta da Netflix Italia che vede alla regia Edoardo De Angelis. Come è stato lavorare nella serialità italiana?

Lavorare a L’amica geniale è stato non stupendo, di più, qualcosa che avrei desiderato che non finisse mai. Guido de Laurentiis, il produttore, è una delle persone più generose e disponibili che io abbia mia conosciuto, Daniele Luchetti, oltre ad essere un regista strepitoso, è una persona dall’anima buono, ci siamo fatti un sacco di risate e mi ha insegnato tantissime cose. Nella vita bugiarda degli adulti invece sono la acting coach personale di Valeria Golino, l’avevo conosciuta sul set di Fortuna di Nicolangelo Gelormini. Già all’epoca era nata una grande sintonia tra noi, sono davvero contenta di lavorare con lei e di poter assistere al suo processo creativo, è stato molto facile “metterle il napoletano in bocca”. Poi ho scoperto che De Angelis è un regista rock, è adorabile il modo in cui dirige gli attori e riesce a tenere il set. Non ci avevo mai collaborato, è un lusso lavorare con persone con le quali ti trovi così bene, spero di replicare.

Dopo il successo di entrambi i tuoi corti, ti senti pronta a esordire con un lungometraggio?

Per quanto riguarda il lungometraggio siamo in fase di sceneggiatura e abbiamo già degli accordi di produzione. Amo le sfide e questa è forse la sfida più grande, non vedo l’ora di buttarmici a capofitto ma, al momento, sono impegnata come attrice sul set di Mare fuori, sono il nuovo agente di polizia del PM. C’è bisogno di tempo, in questi casi: il mio motto è “senza fretta ma senza sosta” per cui piano piano le cose arrivano, si fanno i passi giusti e nel frattempo si costruisce quello che si vuole.

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Maya Sansa: “Non dimenticate mai di sorprendervi” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maya-sansa-non-dimenticate-mai-di-sorprendervi/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maya-sansa-non-dimenticate-mai-di-sorprendervi/#respond Thu, 02 Dec 2021 16:31:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16453 Con quaranta film alle spalle, di cui più della metà da protagonista, Maya Sansa è sicuramente una delle attrici più poliedriche del cinema europeo. Battezzata da Marco Bellocchio, ha infatti iniziato la propria carriera in Italia, conquistando con la sua bravura anche l’industria d’oltralpe, se non addirittura quella oltremanica. In quanto madrina e giurata della […]

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Con quaranta film alle spalle, di cui più della metà da protagonista, Maya Sansa è sicuramente una delle attrici più poliedriche del cinema europeo. Battezzata da Marco Bellocchio, ha infatti iniziato la propria carriera in Italia, conquistando con la sua bravura anche l’industria d’oltralpe, se non addirittura quella oltremanica.

In quanto madrina e giurata della settima edizione dei Fabrique du Cinéma Awards, Maya si racconta per noi, svelando fin da subito che non esiste una vera formula per sfondare. Nonostante qualche dritta, si sa, non faccia mai male: “La strada del cinema è sempre misteriosa. Personalmente, sono convinta che lo studio sia fondamentale, perché permette ai giovani di formarsi, ma che vada accompagnato da empatia, costanza e determinazione. È importante avere un sogno, ma bisogna combattere per concretizzarlo, cercando sempre nuove opportunità e non rifuggendo mai le sfide. Senza però prendersi troppo sul serio! Poi, dopo anni di carriera, mi sento anche di dire che non bisogna avere paura del tempo: quando si è giovani, spesso passa l’idea che o si raggiunge il successo subito o non si hanno speranze. Non è sempre così, questo mondo può sempre portare sorprese inaspettate.”

Anche la tua carriera è stata una sorpresa o hai sempre voluto fare l’attrice?

Sarò banale, ma in realtà da bambina il mio grande sogno era fare la veterinaria! Poi crescendo mi sono appassionata di cinema e soprattutto di fotografia, e non mi sarebbe dispiaciuto fare la DOP. Tuttavia, invece di inscrivermi a una scuola tecnica, sono stata convinta dai miei genitori a fare un liceo classico e, per merito delle persone che ho incontrato sul mio cammino, mi sono appassionata alla recitazione. Dopo un inizio più ludico a scuola, mi sono formata in modo professionale prima al Teatro dei Cocci e poi a Londra. La mia grande occasione è però arrivata con Marco Bellocchio.

Infatti hai esordito con uno dei più grandi registi italiani.

È stata un’enorme fortuna! Grazie alla sua professionalità, ma anche alla sua umanità, ho avuto modo di temprarmi fin da giovane, imparando ad affrontare questo mestiere nel modo giusto e a gestire anche l’agitazione e l’ansia. Nonostante la sua autorevolezza e la sua serietà, e pur non essendo un regista che scende a compressi, lui mi ha fatto sentire a casa e mi ha fatto capire che ero sulla strada giusta. Una volta battezzata da Bellocchio, se vogliamo dire così, il rapporto con gli altri registi è stato semplice e naturale, perché ormai ero a mio agio. Ovviamente non sempre c’è stata un’intesa perfetta con chi mi dirigeva, come credo sia comune in qualsiasi lavoro, ma non c’è mai stata frustrazione, perché sapevo di star lavorando con grandi professionisti. Poi, è come per il nuoto: quando ti tuffi dal trampolino più alto, non hai più paura di tutti gli altri.

 

Maya Sansa
Maya Sansa con Fabrizio Ferracane nel film di Laura Bispuri.

Una cosa che colpisce ripercorrendo la tua carriera, è la tua capacità di spaziare tra film molto diversi. Come scegli un film da interpretare?

 

Il regista è l’elemento fondamentale che guida le mie scelte, perché è come il capitano della nave. Naturalmente è importantissima anche la sceneggiatura, ma il regista secondo me è il vero ago della bilancia. Quando ho la possibilità di lavorare con grandi professionisti del mondo del cinema accetto anche ruoli secondari o minori, perché so che anche solo in poche ore quell’esperienza e quel set mi arricchiranno. Poi, certo, anche lavorare con gli esordienti può essere una bellissima esperienza, ma in quel caso credo che fondamentale sia il ruolo che mi viene proposto: se il personaggio presuppone un certo lavoro di composizione o trasformazione e può rappresentare per me una sfida, sono prontissima a cogliere l’opportunità.

Parliamo allora di registi. Hai collaborato con veri e propri maestri nel corso della tua carriera.

Sì, nella mia vita ho avuto la fortuna di poter lavorare con grandi professionisti. A parte Bellocchio, ricordo con piacere il set con Claude Miller: ho interpretato il ruolo della protagonista in uno dei suoi ultimi film, Voyez comme ils dansent, che racconta una storia molto personale e intima. Un film difficile, anche produttivamente, ma che mi ha lasciato moltissimo. Anche perché, dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma, addirittura Debra Winger è venuta a farmi i complimenti. Non puoi capire l’emozione! Anche l’incontro con Hirokazu Kore’eda lo porto nel cuore: lui è un grandissimo professionista e mi ha chiesto di fare un piccolo cameo ne La vérité. Il ruolo è stato poi tagliato, ma sono comunque molto felice di aver accettato la sua offerta, perché ho avuto la possibilità di lavorare con una regista gentile e rispettoso come lui.

Non hai lavorato solo in Italia, ma ti sei più volte confrontata anche con produzioni e cineasti stranieri. Come vivi questi set più internazionali, anche in paragone a quelli italiani?

Essere un’attrice nomade è un grande arricchimento, perché ogni nazione è diversa e impari sempre qualcosa di nuovo. Io, tuttavia, cerco di trovare i punti di contatto e le somiglianze, più che le differenze. Ad esempio, quando ho lavorato con Peter Chelsom in Security e soprattutto con S. J. Clarkson nella miniserie Collateral, mi sono resa conto che gli inglesi sono molto simili a noi nel modo di lavorare: sono ugualmente professionali, ma proprio come gli italiani amano scherzare, sono affiatati, calorosi e cercano complicità con i colleghi. Diversi sono invece i set francesi, che ragionano maggiormente sulla tensione e il conflitto, per riuscire a tirare fuori il meglio dagli interpreti: del resto, in Francia sono grandissimi intellettuali e questo traspare anche nel loro approccio al lavoro.

Con alle spalle una carriera ricca di soddisfazioni, Maya Sansa ha ancora dei sogni da realizzare?

Il mondo del cinema è ricco di sorprese: se mi avessi fatto questa domanda anni fa, forse ti avrei risposto che mi sarebbe piaciuto lavorare con Ridley Scott o con Paolo Sorrentino. Sono naturalmente sogni che porto ancora nel cuore, ma magari la vita mi porterà a collaborare con altri registi, che forse mi piaceranno anche di più. Come Laura Bispuri, con la quale ho girato Il paradiso del pavone [presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti], che già stimavo, ma è stata comunque una grandissima sorpresa. Ora quindi affronto il futuro in questo modo: non penso a cosa succederà, ma mi preparo a essere meravigliata.

 

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“Per vestire Freaks Out mi sono ispirata anche a Slash dei Guns N’ Roses” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/per-vestire-freaks-out-mi-sono-ispirata-anche-a-slash-dei-guns-n-roses/ Mon, 22 Nov 2021 11:26:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16414 «Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti. Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma […]

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«Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti.

Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma li modella, ne rafforza le caratteristiche e ne accentua l’essenza. Come ci racconta, in Freaks Out ha potuto esercitare al massimo la sua creatività, realizzando costumi che sono l’incontro tra la più triste delle realtà e la più bella delle fantasie. 

Freaks Out è la storia di quattro amici: Matilde, la “ragazza elettrica”, Cencio, l’albino che controlla gli insetti, Fulvio, l’“uomo lupo”, e Mario, il nano che sa manipolare gli oggetti metallici. Siamo nel 1943 a Roma, quando la Capitale è scenario di bombardamenti e deportazioni. I quattro lavorano in un circo gestito dall’ebreo Israel, che per loro è una sorta di padre. All’aggravarsi della guerra la strada dei Freaks si incrocia con quella di Franz, il pianista nazista con sei dita per mano e poteri di chiaroveggenza che dirige il Zirkus Berlin.

Quale è stato il percorso professionale che ti ha portata a Freaks Out?

Mi sono iscritta all’Accademia di Moda e Costumi di Roma negli anni ’80, in quel periodo in cui un po’ tutti volevano fare gli stilisti. In quegli anni ho avuto la fortuna di conoscere Paola Marchesin, appena diplomata al Centro Sperimentale in Costumi, a cui era stato chiesto di firmare il suo primo film, Mignon è partita di Francesca Archibugi. La produzione aveva poco budget, cercavano un’assistente costumista volontaria ed è così che ho iniziato. Da allora è stato un lungo e costante percorso di che mi ha portato fino a Lo chiamavano Jeeg Robot e poi a Freaks Out, un film che sarebbe stato un invito a nozze per qualsiasi costumista!

In Freaks Out ognuno dei protagonisti è caratterizzato da uno stile unico. Da cosa hai tratto ispirazione?

Gabriele Mainetti ci tiene molto a partire dalla ricostruzione di un mondo reale per poi introdurre i suoi temi fantasy. Abbiamo iniziato con una documentazione fedele dell’epoca: dalla deportazione degli ebrei, alla guerra, a Roma devastata. Ogni personaggio aveva già un preciso tema e il costume in questi casi diventa una sorta di sotto-scrittura, un valore aggiunto che ne rafforza l’identità. Per il personaggio di Matilde [interpretata da Aurora Giovinazzo], ad esempio, la richiesta è stata molto precisa: colori freddi perché il suo calore è interno e non superficiale. Per questo ho scelto per lei un cappotto blu in contrasto con i guanti rossi che sono il suo punto di energia. Con Aurora la difficoltà stava anche nel doverla rendere più piccola della sua vera età e per questo l’abbiamo vestita con una gonna con le bretelle, una camicetta semplice e acconciata con delle treccine. Quanto poi alla bombetta che indossa, il primo richiamo è stato ai pilastri del cinema come Charlie Chaplin e Giulietta Masina. Poi con Gabriele abbiamo deciso di conferire a quest’accessorio un significato più profondo ed è diventato una specie di “ombrello paterno” che compie un percorso: parte da Israel [Giorgio Tirabassi], arriva a Matilde e infine a un bambino come segno di speranza per il futuro.

Freaks-Out

Per Cencio [Pietro Castellitto] invece il regista voleva un personaggio un po’ bullo e impolverato: «Lo vorrei come Terence Hill nel film Lo chiamavano Trinità», mi ha detto. E così è stato.

Freaks Out

Anche il personaggio di Mario [Giancarlo Martini] doveva essere reso più infantile, nel film ha un carattere magico e incantato, ma nella realtà a interpretarlo è un uomo adulto, signorile. Per questo abbiamo scelto per lui grandi scarpe, pantaloni alla zuava, giacchetta a quadretti e un fiocco da scolaro che gli conferisse quasi un aspetto clownesco.

Freaks Out

Per Fulvio [Claudio Santamaria] abbiamo voluto creare un personaggio dalla grande eleganza, esemplificata dalla sigaretta con il bocchino e dal pelo curatissimo. Per lui mi sono ispirata a Clark Gable, a mio parere negli anni uno degli attori più eleganti del cinema! Il cappotto ottocentesco di Fulvio è stato un’intuizione. Ho trovato in sartoria questo soprabito fuori epoca ed ho pensato che potesse essere in linea con il suo essere retrò: un uomo colto, che aveva letto libri e che per lungo tempo era rimasto chiuso in una torre.

Freaks Out

Il personaggio più complesso da vestire è stato però Franz [Franz Rogowski], uno showman fissato con l’esercito. La ricerca per lui è stata duplice: da una parte c’è stato uno studio storico sulle divise naziste e dall’altra mi sono ispirata ai grandi frontman del palcoscenico come David Bowie, Mick Jagger e Michael Jackson. La scelta del cilindro che indossa inoltre è stata influenzata in parte dal Ringmaster della Marvel e in parte da Slash, il chitarrista dei Guns N’ Roses.

Freaks Out

Quanto tempo ti ha richiesto questo lavoro di ricerca?

Lo studio preliminare ha richiesto circa 4 settimane, con una bozza del progetto e una prima stima dei preventivi. La preparazione effettiva è durata 3 mesi circa a cui hanno seguito 3 mesi di riprese. Senza considerare che quando lavori a un progetto del genere anche quando sei a casa ci pensi in continuazione, ma ne è valsa la pena!

Un costume tra quelli realizzati per questo film che ti ha particolarmente colpito?

È stato particolarmente divertente vestire il gobbo e i Diavoli Storpi, uno scalcagnato gruppo di ribelli antifascisti. I costumi di questi personaggi sono inventati, anche se per crearli ho studiato le immagini dei partigiani e delle partigiane, che portavano i pantaloni come gli uomini.  Il gobbo [Max Mazzotta], a capo della squadra dei Diavoli, doveva portare una fascia in testa stile Rambo come un vero combattente, un uomo dei boschi. Peraltro Max è un attore straordinario e un uomo di una cultura eccezionale, ha una sua compagnia teatrale a Cosenza e insegna all’Università.

Freaks OutI costumi realizzati che fine fanno?

I costumi dei protagonisti sono stati disegnati, tagliati e cuciti da noi in laboratorio con due sarte e sono di proprietà della produzione. Adesso alcuni di questi sono in viaggio verso Dubai per l’Expo in rappresentanza del Cinema per la Regione Lazio.  Il resto rimane come repertorio, ritornano nelle sartorie e vengono ri-smistati nei magazzini per essere utilizzati poi per altri film. È il ciclo vitale dei costumi, un vero e proprio patrimonio in cui noi italiani non siamo secondi a nessuno e che dovremmo valorizzare di più: per questo è nata anche la nostra associazione (ASC-Associazione Italiana Scenografi Costumisti e Arredatori).

Come è stato vedere Freaks Out dopo tutti questi mesi di lavoro?

Guardando il film mi sono detta “ma perché questi parlano romanesco?”. Sembra una pellicola americana! [ride]. È un film di genere, quindi ovviamente c’è a chi è piaciuto e a chi no, ma sono orgogliosa che sia stato un film pensato e realizzato in Italia. Siamo stati tutti coraggiosi, abbiamo tenuto botta in momenti difficili e faticosi dicendoci “ce la possiamo fare” e in questo Gabriele è stato il grande capitano della nave.

 

 

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Alessandro Gassmann torna in sala da regista con “Il silenzio grande” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/alessandro-gassman-il-silenzio-grande/ Fri, 17 Sep 2021 13:21:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16060 Figlio d’arte per sempre? Seppur orgoglioso dell’eredità paterna (e materna, ricordiamo che la madre è l’attrice francese Juliette Mayniel), da tempo Alessandro Gassmann ha intrapreso un percorso di crescita artistica passato dapprima attraverso la recitazione, con un’enorme varietà di ruoli che spaziano dal cinema al teatro alla televisione, per poi approdare alla regia. Fresco Presidente […]

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Figlio d’arte per sempre? Seppur orgoglioso dell’eredità paterna (e materna, ricordiamo che la madre è l’attrice francese Juliette Mayniel), da tempo Alessandro Gassmann ha intrapreso un percorso di crescita artistica passato dapprima attraverso la recitazione, con un’enorme varietà di ruoli che spaziano dal cinema al teatro alla televisione, per poi approdare alla regia. Fresco Presidente di giuria dei Fabrique Awards edizione 2021, Alessandro Gassmann si dice “onorato” della nomina, lui che il giovane cinema italiano lo ha sempre valorizzato, e anche se oggi si smarca con eleganza dalla categoria definendosi “signore di mezza età”, l’aspetto da eterno ragazzo e la voce energica sembrano voler continuare a smentire l’anagrafe.

E proprio il suo quarto lungometraggio da regista, Il silenzio grande, presentato a alle Giornate degli Autori veneziane, approda ora in sala. «Questo è il primo film che dirigo senza esserne anche attore ed è anche il primo film di finzione che presento a Venezia da regista» spiega Alessandro Gassmann. L’unico suo precedente veneziano dietro la macchina da presa è il documentario Torn – Strappati del 2015, dedicato a un gruppo di artisti siriani rifugiati in Giordania o Libano che Gassmann ha incontrato durante un viaggio in veste di ambasciatore dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Il silenzio grande è «un lungo viaggio iniziato quando lo scrittore Maurizio de Giovanni è venuto a trovarmi a teatro. L’idea era fare qualcosa insieme, così ha scritto questa storia che parla di umanità che si incontrano. È la storia di una famiglia napoletana colta e raffinata caduta in disgrazia. Non avendo più soldi decidono di vendere la casa di famiglia, ma il capofamiglia non è d’accordo. Lo spettacolo teatrale, di cui io ho fatto la regia, ha debuttato al Festival di Napoli e poi è andato in tournée, è stato un grande successo di critica». A quel punto il passaggio dal teatro al cinema è stato naturale, come ricorda Gassmann che, oltre a dirigere Il silenzio grande, è anche co-autore dello script insieme a Maurizio de Giovanni e Andrea Ozza.

Il cast di quella che definisce una “commedia malinconica” è composto Massimiliano Gallo nei panni del capofamiglia, ruolo già interpretato a teatro, e Margherita Buy in quelli della moglie Rose. «Margherita non è napoletana, come non lo è il personaggio di Rose, una donna colta, fuori dal comune. Il film è ambientato a Napoli nel 1965 – data simbolica, non a caso è l’anno in cui sono nato – e contiene una componente visionaria, un coup de théâtre finale. Ma è soprattutto un film di attori, ce ne sono due giovanissimi, Antonia Fotaras ed Emanuele Linfatti, che interpretano i figli».

il silenzio grande con massimiliano gallo
Massimiliano Gallo in una scena de “Il silenzio grande”.

Proprio nei confronti dei giovani Alessandro Gassmann nutre una particolare attenzione anche e soprattutto sul set. «Dai giovani imparo tantissimo» ci dice. «Oggi le occasioni non mancano, i giovani possono esprimersi. Quello che manca, almeno in Italia, sono budget più adeguati. Serve più coraggio per lanciare i giovani autori in un mercato sempre più ampio». Il rapporto tra Alessandro Gassmann e il suo pubblico, giovane o meno giovane, è garantito da una presenza assidua su Twitter, unico social media che usa, dove il cineasta non ha peli sulla lingua tanto da alimentare accese discussioni per via delle sue posizioni nette. «Se insultano blocco, ma trovo Twitter uno strumento prezioso per alimentare una conversazione col pubblico. Molti miei colleghi preferiscono evitare, ma io temo gli indifferenti, li ritengo parte del problema. Non si tratta di urlare più forte, mi interessa capire il punto di vista di chi ha opinioni diverse dalle mie. I social ci hanno fatto diventare una società che ha smesso di informarsi, ma posta di tutto, fake news comprese. Così facendo lede la libertà degli altri».

Il tentativo di migliorare la società, per quanto possibile, per Alessandro Gassmann passa anche attraverso la trasmissione della conoscenza appresa dal padre Vittorio o da altri grandi incontrati nel proprio cammino come Gigi Proietti, che nel 2017 ha diretto ne Il premio. «Nascere in una casa di attori di successo è senza dubbio un privilegio» ammette l’attore e regista. «L’unico svantaggio è che siamo stati etichettati come snob perché non abbiamo mai frequentato certi salotti. In famiglia ci siamo fatti da soli, caratteristica questa comune a mio padre e a Proietti: non hanno mai preso scorciatoie. Erano convinti che il tempo desse loro la base per diventare indimenticabili. Oggi, grazie ai social media, puoi diventare famoso anche se non sai fare niente. Ma chi fa l’attore per diventare famoso ha sbagliato. Si sceglie di fare l’attore per raccontare la società».

E quella odierna è una società stravolta dall’emergenza sanitaria che vede gli incassi dei cinema stentare mentre le piattaforme streaming decollano grazie agli abbonati sempre più numerosi. «Purtroppo la pandemia non è finita» ammette sconsolato Alessandro Gassmann. «Le piattaforme tengono vivo il cinema, ma la visione in sala è un’altra cosa. Quando ho visto Il silenzio grande per la prima volta sullo schermo è stata un’emozione immensa, ho provato un senso di condivisione che la televisione non può restituire. Purtroppo le persone non si sentono al sicuro al chiuso, così i cinema stanno vivendo una crisi drammatica. Va detto che le piattaforme, negli ultimi anni, hanno prodotto serie di grande qualità. Io ne sono un fruitore, ma non le considero un sostituto del cinema. Per questo credo che una vaccinazione di massa sia necessaria per tornare in sala con tranquillità e provare a fare ripartire il settore».

Pur sperimentandone tutta la drammaticità, Alessandro Gassmann ammette che la pandemia lo ha spinto a rivedere alcune delle sue priorità: “Poco prima del lockdown mi sono ritrovato insieme alla mia famiglia nella casa di campagna in Maremma e questo ci ha permesso di trascorrere questo periodo in modo piacevole, potevamo anche uscire a fare quattro passi. Dopo 5 mesi fermo in casa, ho capito che il tempo a stare senza fare niente mi era piaciuto. Così ho deciso di lavorare di meno, guadagnando anche di meno, per dedicarmi a progetti più rischiosi. Voglio essere più selettivo nei lavori che accetto, l’anno scorso ho interpretato due opere prime, Mio fratello rincorre i dinosauri e Non odiare, che mi hanno dato tante soddisfazioni. Invece ho detto no al terzo capitolo di Non ci resta che il crimine. Intendiamoci, non rinnego niente, non ho niente contro questo tipo di commedie, ma oggi non mi sento più di farle. Il mio obiettivo principale è recitare sempre di meno per dedicarmi alla regia. Questo è il futuro che vedo per me”. Dopo aver ultimato Il silenzio grande, Gassmann ha però accettato di recitare un film di cui è molto soddisfatto. Il progetto diretto da Francesco Lagi per adesso è top secret e porta il curioso titolo de Il pataffio. Vista l’ambientazione medievale del film, la mente corre immediatamente a L’armata Brancaleone, uno dei titoli più celebri tra i tanti interpretati da Vittorio Gassman. Nuovo confronto con l’eredità paterna in vista? “Non posso dire niente” ammette Alessandro sornione. “Anzi, una cosa la posso dire: il film è tratto da un romanzo di Luigi Malerba a cui Mario Monicelli si era ispirato per creare il linguaggio de L’armata Brancaleone”. Et voilà, il link tra passato e presente è servito.

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Valia Santella, quando il cinema è scrittura https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/valia-santella-intervista-2/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/valia-santella-intervista-2/#respond Fri, 02 Jul 2021 12:38:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15827 Valia Santella ha scritto pellicole di successo come Il traditore (trionfatore l’anno scorso ai David di Donatello) e Fai bei sogni di Marco Bellocchio, Euforia di Valeria Golino, Mia madre di Nanni Moretti, Napoli velata di Ferzan Ozpetek. Una carriera svolta tutta sul campo, con una capacità maieutica rara che le ha permesso di tirar […]

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Valia Santella ha scritto pellicole di successo come Il traditore (trionfatore l’anno scorso ai David di Donatello) e Fai bei sogni di Marco Bellocchio, Euforia di Valeria Golino, Mia madre di Nanni Moretti, Napoli velata di Ferzan Ozpetek. Una carriera svolta tutta sul campo, con una capacità maieutica rara che le ha permesso di tirar fuori i migliori film possibili dalla letteratura, ma anche dai registi che ha affiancato. Il suo ultimo lavoro è la sceneggiatura di Tre piani (qui il trailer), il nuovo film di Nanni Moretti tratto dall’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, scritta con Federica Pontremoli e Nanni Moretti: nel cast lo stesso Moretti, Margherita Buy e Riccardo Scamarcio. I tre piani di un palazzo alle porte di Tel Aviv sono stati trasportati a Roma, come le tre famiglie borghesi protagoniste, per permetterci di scoprire che i tre piani dell’anima non sono dentro di noi, ma nello spazio tra noi e l’altro e nella difficoltà di raccontare delle storie che diventano tali solo se c’è qualcun altro ad ascoltarle.

So che è anche insegnante di sceneggiatura, con un approccio laboratoriale che sono certa sia stato molto apprezzato dai suoi studenti di Bobbio, e che sarà molto apprezzato anche nei suoi corsi futuri, come quelli che terrà alle Officine Mattòli. Cosa può dirmi di questa esperienza?

Sono arrivata alla scrittura cinematografica attraverso un percorso un po’ particolare. Ho iniziato prima a lavorare sul set, come segretaria di edizione e aiuto regista, poi ho firmato alcune regie e, infine, è arrivata la scrittura per altri. Sono sempre stata mossa dalla passione per il cinema, dalla curiosità e dalla voglia di imparare. Ancora oggi queste caratteristiche mi permettono di affrontare il mio lavoro con passione. Durante i corsi di sceneggiatura, dico sempre che io non ho regole o metodi da insegnare, ma, semplicemente, posso mettere la mia esperienza al servizio del lavoro che faremo insieme durante il corso.

Ha una routine, delle abitudini di scrittura? Le riunioni di sceneggiatura ora sono online ma dal vivo immagino che siano fatte da dinamiche molto diverse, da momenti morti, di decompressione.

Non ho una routine. Mi piace lavorare al mattino molto presto, ma ogni tanto mi capita di fare “nottata” come si faceva a scuola. Le riunioni online ci hanno in qualche modo salvato, nel senso che ci hanno permesso di non interrompere il dialogo con il gruppo di scrittura. Alla fin fine, soprattutto tra persone che si conoscono e hanno già lavorato insieme, le dinamiche non cambiano molto e si riesce a lavorare bene comunque. Il problema del lavoro online è che si tende a fare incontri, riunioni, appuntamenti a ciclo continuo, senza soluzione di continuità. Le pause, invece, sono molto importanti, spesso le idee arrivano proprio appena hai lasciato la riunione e stai prendendo l’autobus per tornare a casa. Non uscire più dalla propria casa ci porta a guardare sempre meno il mondo, e questo è gravissimo.

Nell’intervista ai David su Il traditore, Marco Bellocchio parla di una linea sottile tra la psicologia di un mafioso, come Tommaso Buscetta, e la nostra. Che lavoro compie per scrivere di un personaggio così controverso?

Lavorare a un film così importante come Il traditore è stata un’esperienza per me molto formativa. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca per riuscire ad avvicinare un personaggio così scivoloso e lontano da noi. Da spettatrice non amo i film in cui gli autori prendono una distanza o giudicano i propri personaggi, ma qui la questione era diversa: non si voleva in nessun modo fare l’apologia di Buscetta. Quello che abbiamo provato a fare è stato da una parte cercare gli aspetti della sua vita e della sua personalità che fossero comprensibili a tutti, come il suo rapporto con i figli, con la moglie, con la sua famiglia d’origine e il grande tema del tradimento, dall’altra parte, però, abbiamo messo in evidenza tutte le colpe e i crimini commessi da Buscetta.

Verso il 2010 ha fatto parte del Maude – il Movimento delle lavoratrici dello spettacolo. Sono passati 10 anni, c’è stato il Me Too, ma le statistiche degli studi di genere mostrano un gender gap ancora profondissimo. Cosa ne pensa da professionista e attivista coinvolta?

Il cinema e l’industria cinematografica sono specchio della società che li produce. Se guardiamo le altre industrie italiane, culturali e non, ritroviamo gli stessi problemi. Credo che la questione sia molto profonda e vada affrontata su diversi piani. Da una parte bisogna fare un lavoro culturale che parte dalle scuole, dalle famiglie e dalle relazioni. Dall’altra realmente la politica deve garantire pari opportunità a tutte e tutti.

Valia Santella
Euforia, opera seconda di Valeria Golino, sceneggiata anche da Valia Santella.

Eppure è riuscita a ritagliarsi uno spazio, a lavorare con registe come Valeria Golino e sceneggiatrici come Francesca Marciano e Federica Pontremoli: in che modo sono nate queste collaborazioni?

Lavoro con molte colleghe donne, anzi, forse lavoro più spesso con donne che con uomini, ma quante registe ci sono? Quante direttrici della fotografia? Nell’industria cinematografica questi due ruoli sono considerati ruoli di potere e di responsabilità e vengono affidati ancora troppo poco alle donne. Poi, per come la vedo io, il lavoro da fare è proprio quello di abbattere una certa idea del potere. Troppo spesso si ha ancora un’immagine del regista come un generale che deve comandare il set. Io credo, invece, che i film siano opere collettive, il regista è qualcuno che ha una visione del mondo, un punto di vista che propone ed elabora con i suoi collaboratori.

Nanni Moretti raccontava che all’inizio della sua carriera aspettava che uscissero le recensioni in edicola insieme a un amico, poi ha quasi smesso di leggerle e non ha mai replicato neanche a quelle che sembravano attacchi personali. Che rapporto ha lei con la critica?

Questa domanda apre un discorso molto ampio. Negli ultimi anni, la critica è andata via via sparendo dai quotidiani, e non parlo solo di quella cinematografica, ma anche di quella teatrale, letteraria. Nello stesso tempo sono proliferati blog e siti in cui possono trovarsi cose molto interessanti o molto banali. Diciamo che da spettatrice e lettrice tendo a leggere poco prima di vedere un film o leggere un libro, preferisco non sapere nulla. Rispetto ai film a cui lavoro reagisco in un modo molto prevedibile: sono felice quando se ne parla bene e dispiaciuta, o incazzata, se se ne parla male. Ci sono, però, alcune critiche negative che ti fanno ragionare sul tuo lavoro e, una volta superata la reazione emotiva, possono essere utili, anche se la ferita resta aperta. Bisogna pensare che noi dedichiamo molto tempo alla realizzazione di un film e, quindi, una critica negativa coinvolge non solo il tuo lavoro, ma un pezzo della tua vita.

La maggior parte delle sue sceneggiature sono degli adattamenti, partono dalla letteratura. Cosa deve avere un libro per colpirla e per spingerla a adattarlo?

Credo che gli adattamenti più riusciti siano quelli in cui è evidente l’incontro tra due mondi, due poetiche, due linguaggi. Nella trasposizione cinematografica di un libro molte cose cambiano, e devono cambiare, ma credo che quello che resta integro sia proprio il nucleo più profondo dell’opera di partenza. Pensiamo a un classico come Apocalypse Now rispetto al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra: diversi contesti storici ma il cuore del racconto è assolutamente lo stesso.

C’è un film o anche una sola scena alla quale è affezionata più di altre? Alla quale ripensa?

Mi capita di ripensare al lavoro che ho fatto precedentemente solo se ho un’occasione per farlo, come un incontro o una lezione, ma non in astratto. Sono affezionata a diversi lavori, anche perché sono legati alla mia vita e alle persone con cui li ho fatti. Più che a una singola scena sono molto legata alla struttura di Mia madre, di Nanni Moretti. È un film che si muove con molta libertà tra presente e passato, realtà, sogni, immaginazione e Moretti riesce a farlo senza che questi passaggi appaiano mai forzati o voluti.

So che non può dire molto, ma da lettrice di Eshkol Nevo ho qualche curiosità sull’adattamento. Come avete scelto Tre piani e cosa lo lega a Nanni Moretti e a lei?

In Tre piani c’è una grandissima tensione morale: i tre personaggi principali si trovano a vivere profondi conflitti etici. Il rigore etico, la responsabilità che ogni essere umano ha nel compiere le proprie scelte, sono temi che hanno sempre fatto parte del cinema di Nanni Moretti e hanno anche contraddistinto la sua partecipazione alla vita pubblica del nostro paese. L’incontro tra questo libro e Nanni è stato immediato.

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Saverio Raimondo: con “Luca” inizio una nuova carriera al cinema https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/saverio-raimondo/ Wed, 16 Jun 2021 14:50:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15690 Il 18 giugno arriva sulla piattaforma Disney+ Luca, il nuovo film Pixar con cui Saverio Raimondo arriva invece al cinema. Dopo la satira, la televisione, la radio e dopo Netflix, il comico presta infatti la voce a Ercole Visconti, il cattivo della prima storia ambientata in Italia della celebre casa d’animazione. Inoltre il 22 giugno […]

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Il 18 giugno arriva sulla piattaforma Disney+ Luca, il nuovo film Pixar con cui Saverio Raimondo arriva invece al cinema. Dopo la satira, la televisione, la radio e dopo Netflix, il comico presta infatti la voce a Ercole Visconti, il cattivo della prima storia ambientata in Italia della celebre casa d’animazione. Inoltre il 22 giugno Saverio Raimondo riceverà  il Premio Cinema e Parole all’11esima edizione del Figari Film Fest, kermesse tradizionalmente dedicata ai corti cinematografici e al mercato audiovisivo, in programma a Olbia dal 19 al 24 giugno.

«Luca racconta un’estate di crescita, esattamente ciò che è stata per me l’estate scorsa da un punto di vista professionale» afferma Raimondo parlando della sua esperienza, un’esperienza che ben presto alimenterà i suoi spettacoli di stand-up comedy, ma che nel frattempo ha raccontato in quest’intervista.

Il 18 giugno esce Luca, al quale hai partecipato prestando la voce a Ercole Visconti, il cattivo della storia. Come sei stato coinvolto nel progetto?

Sono stato contattato direttamente dalla Disney Pixar, un anno fa circa, nell’agosto del 2020. Volevano farmi un provino proprio per Ercole Visconti, il personaggio che alla fine ho interpretato. Questo perché il regista, Enrico Casarosa, dopo avermi sentito ne Il satiro parlante, il mio spettacolo di stand-up comedy su Netflix, ha pensato potessi essere la voce giusta per lui. E si è rivelato essere così.

Parlami del tuo personaggio.

Ercole Visconti è il bullo del paese. Un prevaricatore, ma anche un cialtrone in verità, sicuramente molto vanitoso. È un cattivo, ma come molti cattivi è anche divertente, perché è ridicolo. Per certi aspetti mi ha ricordato il Geometra Calboni, l’antagonista di Fantozzi, e infatti è una reference che ho condiviso con Casarosa. Date le somiglianze che avevo riscontrato tra i due mi sono anche un po’ ispirato a lui per dare la voce a Ercole Visconti.  

Nonostante tu abbia già lavorato esclusivamente con la voce in radio, l’esperienza del doppiaggio è ben diversa. Come l’hai affrontata?

Con grande curiosità, proprio perché era la prima volta per me. Tra l’altro è stata una duplice esperienza, perché ho dovuto doppiarmi sia in italiano che dare la voce al personaggio nella versione originale. E se mentre mi doppiavo in italiano avevo davanti agli occhi il film, quando ho recitato nell’originale invece, il film ancora non c’era. Questo perché prima arriva la voce e poi le immagini, infatti le animazioni vengono fatte a posteriori, proprio sulla voce. Ho quindi dovuto tirare fuori il personaggio da dentro. In questo ovviamente le indicazioni del regista sono state necessarie per potermi muovere al buio.

Questa è la tua prima esperienza con il cinema. Vorresti continuare in quest’ambito?

Io sono sempre stato un cinefilo, infatti mi iscrissi al DAMS proprio perché il mio interesse per lo spettacolo era prevalentemente cinematografico, tanto che sono laureato in Analisi del film. Poi il talento comico ha preso il sopravvento e già a diciotto anni ho cominciato a lavorare in televisione. Alla fine mi sono concentrato sulla comicità e sulle possibilità televisive, radiofoniche, live. Ma adesso è arrivato il momento di approfondire quelle cinematografiche. Luca è la mia prima esperienza ma non sarà l’unica: ho preso parte ad altri progetti che presto vedranno la luce. Mi piacerebbe continuare sia per la mia antica passione, ma anche perché il mio personaggio comico è cresciuto e vorrei esplorarlo anche dal punto di vista cinematografico.

Saverio Raimondo doppiatore in Luca
Saverio Raimondo è la voce del cattivo in “Luca”, Ercole Visconti.

Tu ti occupi principalmente di satira politica. Secondo te a che punto è il genere in Italia?

Sicuramente prima della pandemia si era affacciata finalmente in Italia una scena comica nuova, una vera e propria new wave, che aveva nella stand-up comedy il suo sbocco principale. La pandemia è stata poi una botta d’arresto per molti, senz’altro per lo spettacolo dal vivo. Ritengo però che attualmente la satira in Italia non stia né molto meglio né molto peggio che in altri paesi. Credo sia evidente a tutti che la satira politica non basti a fare critica alla società, perché molti degli aspetti sociali sono extra politici. La satira dunque dovrebbe esercitarsi su altri aspetti, però in Italia si è abituati a fare battute sui politici e meno su altro. Ma anche noi stiamo cominciando ad accorgerci che dell’altro c’è e ci stiamo attrezzando.

La Disney è stata più volte al centro di polemiche legate al politically correct, argomento che riguarda spesso anche l’ambito della comedy e in particolar modo proprio la satira, dietro la quale a volte ci si nasconde. Qual è la tua posizione in merito?

Innanzitutto penso che ormai il politicamente corretto non riguardi più solo i film o la satira, ma davvero qualunque aspetto della vita. Questo rischia di trasformarlo in qualcosa di banale però, perché quando riconsideri tutto non riconsideri nulla in realtà. La satira certo non deve essere una foglia di fico dietro la quale nascondere qualunque eccesso, perché anche se prevede l’eccesso, lo fa quando è motivato da un uso artistico ed espressivo. L’eccesso insomma non dovrebbe essere usato come giustificazione. È il motivo per il quale ho sempre ritenuto che le battute online, ad esempio su Twitter, non possano essere considerate satira. Perché qualunque battuta, a maggior ragione quella satirica, ha bisogno di un contesto che le dia un senso. Dunque una battuta su internet, dove il contesto non esiste, non potrà mai essere una battuta satirica.

A breve riprenderai a calcare i palchi con i tuoi spettacoli. Questo è un buon momento per la stand-up comedy in Italia. A cosa pensi sia dovuto?

Penso che sia dovuto principalmente al fatto che da molto tempo mancava, dal punto di vista comico, una novità. I comici erano uguali tra loro e facevano cose vecchie, mentre nel frattempo c’era un pubblico più giovane che grazie a internet cominciava ad avere riferimenti anche internazionali. La stand-up si è trovata quindi a dover andare incontro a un nuovo gusto, se vuoi anche un po’ più interessato alla sfera personale. D’altronde la stand-up comedy fa ironia sulle persone a cominciare dal comico stesso, è un genere egocentrico e narcisista, perché il comico mettendosi alla berlina si mette in mostra. E anche se rischia di essere una comicità un po’ ombelicale a volte, quando il comico attraverso sé riesce a raccontare gli altri, ecco che fa il salto e diventa grande intrattenimento.

La stand-up comedy ha giocato un ruolo importante nel tuo arrivo al cinema, dal momento che sei stato contattato dopo Il satiro parlante. Invece quanto pensi che il lavoro fatto per il film influenzerà i tuoi futuri spettacoli?

Io sono abituato ad elaborare le mie esperienze e a raccontarle durante i miei spettacoli: quando mi sono esibito in Arabia Saudita poi ne ho tratto un pezzo, la mia esibizione per il Papa è diventata a sua volta materiale per i miei spettacoli, lo stesso è successo quando mi sono esibito a Porta a porta e ho incontrato Bruno Vespa. Quindi sono certo che negli spettacoli che porterò in giro quest’estate comincerò a raccontare la mia esperienza con la Pixar, ovviamente privilegiando gli aspetti più buffi a discapito della parte gratificante, che però debbo ammettere è stata quella predominante.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Riprenderò a collaborare con Caterpillar su Radio 2. Massimo Cirri si prende una meritata vacanza estiva e lo sostituirò al fianco di Sara Zambotti. Poi in autunno vedrà la luce un mio podcast. È un progetto al quale lavoro da un anno, una cosa nuova sia per me, sia all’interno del panorama podcast. Non anticipo molto, ma credo che sarà piuttosto divertente da ascoltare…

 

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Maschile singolare: il viaggio dell’eroe queer https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maschile-singolare-il-viaggio-delleroe-queer/ Fri, 11 Jun 2021 07:36:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15638 Cosa succede se a trent’anni, dopo essere sempre stati all’interno di una relazione, ci si ritrova improvvisamente single? Da questa premessa parte Maschile singolare, opera prima di Giuseppe Paternò Raddusa (alla sceneggiatura), Matteo Pilati (sceneggiatore, regista e produttore) e di Alessandro Guida (sceneggiatore e regista) con con Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini, Gianmarco Saurino, Michela Giraud, […]

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Cosa succede se a trent’anni, dopo essere sempre stati all’interno di una relazione, ci si ritrova improvvisamente single? Da questa premessa parte Maschile singolare, opera prima di Giuseppe Paternò Raddusa (alla sceneggiatura), Matteo Pilati (sceneggiatore, regista e produttore) e di Alessandro Guida (sceneggiatore e regista) con con Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini, Gianmarco Saurino, Michela Giraud, Lorenzo Adorni. Un racconto frizzante, che tratta temi contemporanei attraverso una struttura classica, ma mai scontata. Maschile singolare, disponibile dal 4 giugno su Amazon Prime Video, è un film che fa commuovere e divertire il pubblico, ottenendo ottimi riscontri. Ne abbiamo parlato con i tre autori in una conversazione a più voci.

Come è nato il progetto?

Giuseppe Paternò Raddusa: L’idea era quella di colmare un vuoto della narrazione cinematografica, ovvero l’assenza di una storia classica con all’interno personaggi appartenenti alla comunità LGBTQ+. La maggioranza di noi è cresciuta guardando film impostati sul viaggio dell’eroe, con determinati archetipi, e il mio dubbio è stato: è possibile svecchiare questi archetipi, modernizzandoli e inserendoli nella sfera queer? A questo punto, ho scritto a Matteo e abbiamo iniziato a lavorare e a ragionare su una storia che potesse ben agganciarsi a questo tipo di narrazione. Abbiamo perciò deciso di partire da una situazione sempre presente in questa tipologia di racconto: l’abbandono da parte della persona amata. Arrivati a una prima stesura soddisfacente della sceneggiatura abbiamo deciso di coinvolgere Alessandro, che si è mostrato subito interessato.

Alessandro Guida: Sì, perché ho da subito pensato che il tema di fondo (essere single a trent’anni) fosse un’idea con un grande potenziale d’immedesimazione da parte del pubblico, ma allo stesso tempo poco esplorata nel cinema italiano. Quando ho letto la prima stesura ero a un matrimonio e mi sono reso conto che spesso le persone tendono ad associare l’essere single a quell’età come sinonimo di essere soli. Invece in Maschile singolare questo assunto viene scardinato dalle scoperte che Antonio fa mentre sta ricercando se stesso in un percorso paradossalmente all’incontrario rispetto al solito. Ci siamo messi subito al lavoro tutti insieme e Prime Video è stato fondamentale per portare a termine il progetto.

Matteo Pilati: In realtà non avevamo da subito pensato a Prime Video. Già in fase di sviluppo avevamo cercato delle case di produzione interessate, ma si sono tirate tutte indietro vedendo che eravamo degli esordienti per quanto riguardava i lungometraggi. In quel periodo, poi, in sintonia con il nostro protagonista, mi sono ritrovato a perdere anche io un punto fisso. Lavoravo per un’emittente televisiva, ma sono stato licenziato. Allora ho deciso di fare quello che per me era un rischio calcolato, ovvero investire la mia buona uscita in questo progetto. Ci siamo rimboccati le maniche e aiutati da MP Film (una casa di produzione piccola con cui avevano già collaborato Alessandro e Giuseppe), abbiamo iniziato a formare il cast, a fare numerose prove e poi abbiamo girato il film in tre settimane, tra il gennaio e il febbraio del 2020. Quando abbiamo finito la postproduzione, che abbiamo dovuto fare totalmente da remoto, abbiamo avuto ulteriori problemi a trovare una distribuzione perché, nonostante venisse riconosciuto il potenziale del film, il periodo attuale è ancora molto incerto per quanto riguarda le uscite in sala ed è qui che, come diceva Alessandro, siamo stati fortunati a trovarci in una situazione nuova rispetto a quella del mercato audiovisivo del passato, ovvero in cui piattaforme come Prime Video stanno dando sempre più spazio ai giovani e a progetti originali.

Maschile singolare
“Maschile singolare”, con Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini, Gianmarco Saurino, Michela Giraud, Lorenzo Adorni.

Uno dei motivi dell’originalità del film è proprio il porre al centro l’incertezza che caratterizza l’età di transizione che si vive tra i venti e i trent’anni. Come avete costruito il personaggio di Antonio?

Alessandro: Questo focus lo abbiamo reso anche con il montaggio, che è sempre una forma di riscrittura. Abbiamo deciso, infatti, che il montaggio dovesse ricalcare lo stato d’animo del protagonista. Si parte con uno stile più posato perché Antonio è in attesa, e successivamente le scene diventano più frenetiche perché ha una scossa a livello emotivo. Tutto il film è costruito sul suo protagonista anche a livello stilistico. Abbiamo adottato una regia invisibile, nascondendo orpelli tecnici e facendo muovere la macchina da presa solamente con il suo protagonista (non ci sono campi lunghi o dettagli), al fine di far partecipare di più lo spettatore con la sua vicenda, con il suo percorso e con le sue emozioni. Abbiamo lasciato tutto lo spazio alla mimica degli attori, lavorando di sottrazione.

Matteo: Esatto, una sottrazione che di fatto permea il film da tutti i punti di vista, anche nella scelta delle musiche. È stata una cifra stilistica deliberata che voleva mostrare, con la sua delicatezza e la sua semplicità, uno sguardo diverso dal solito e proprio per questo abbiamo lasciato fuoricampo i momenti salienti della storia o anche l’aspetto sessuale, ricalcando appunto le emozioni di Antonio e la sua educazione sentimentale.

Quali sono stati i cambi dalla carta allo schermo?

Giuseppe: Il personaggio di Luca, per esempio, è cambiato molto grazie al lavoro di Gianmarco Saurino (inizialmente il suo era un personaggio più frivolo, il classico maschio alfa che non s’innamora mai) e al suo stile di recitazione che ricalca il less is more. A lui basta uno sguardo per far capire tutto un mondo interiore con enorme lucidità.

 Matteo: Un altro elemento che inizialmente non c’era in sceneggiatura, ma che è emerso durante le prove con gli attori, è quello della musica lirica, che è servita per rappresentare a pieno la sensualità e la libertà a cui auspica Antonio e che rivede in Denis. Nel finale, infatti, i mondi di Antonio e Denis collidono, e la musica d’opera diventa cantata in chiave moderna.

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Andrea De Sica, “Non mi uccidere” e qualche film anni Ottanta: «Volevo un horror imbastardito» https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/non-mi-uccidere/ Wed, 05 May 2021 13:26:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15525 «È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il […]

L'articolo Andrea De Sica, “Non mi uccidere” e qualche film anni Ottanta: «Volevo un horror imbastardito» proviene da Fabrique Du Cinéma.

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«È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il mio arrivo».

Confesso di averle pensate tutte prima di vedere il secondo film di Andrea De SicaNon mi uccidere. Scettica, forse, di fronte alla reference dell’horror, del teen e perfino di Baby, oltre a un’inevitabile quanto superficiale – ho scoperto poi – connessione con Twilight. Ho cambiato idea dopo pochi minuti: De Sica è uno che ha compreso come generi prolifici quali l’horror o il thriller vadano riconsiderati a partire dai codici di tensione e action. Usa una storia d’amore teen come pretesto, punta tutto su Alice Pagani (e riesce a tirarle fuori un personaggio vero) e tenta quello che da spettatore vorrebbe vedere: violare i cliché.

Mi è piaciuto molto l’obiettivo che ti sei posto di fronte ai codici del genere: provare a rimetterli in discussione partendo proprio dalle reference più ovvie. Cos’è che volevi evitare?

Di fare la copia degli horror americani classici degli ultimi trent’anni, che sono a soggetto prettamente claustrofobico. Da Saw L’enigmista, capolavoro che fece anche da apripista, tutta la new wave degli anni Duemila è basata sulla location singola, dove l’incombenza della minaccia esterna viaggia sull’ora e mezzo di film. In Non mi uccidere neanche ti immedesimi con la vittima. È un film dove la protagonista diventa il mostro: già in questo per me c’era un ribaltamento di quella formula. E poi volevo evitare quello che in Italia vedo come un ritorno a un cinema action di genere, dove però l’action è più un’esposizione virtuosistica e coreografica. Tenevo molto all’action, perché non l’avevo mai fatta, ma se la uso sono passaggi drammaturgici importanti. Non volevo inserirla solo perché è figo che si sparino e che scoppi una testa come un melone. Non a caso la grande scena action del film è il momento di coming of age di Mitra: la vera catarsi del film avviene attraverso il combat e la violenza. Questa per me era una sfida.

L’action non è mai gratuita ma poi quando la inserisci ci vai giù pesante, superando sicuramente il primo accostamento a Twilight. Alcune scelte sono molto crude: hai avuto carta bianca o sei dovuto scendere a compromessi?

Il problema è quando l’abbrutimento fisico e la violenza diventano sadismo, ma per il resto mi sono sentito libero di fare quasi tutto. Che poi l’abbrutimento psicologico può essere molto più horror, pensa a Gaspar Noé, che amo e mi repelle allo stesso tempo. È un sadico provocatore: lo ami o lo odi? Io non volevo esserlo, però: volevo essere crudo attraverso uno spirito più realistico. Stavo raccontando la storia di una ragazzina che deve mangiare e vampirizzare gli altri e questo mi permetteva delle licenze, chi l’ha prodotto e distribuito ha avuto un’adesione quasi totale, trovandosi preparato di fronte alla sceneggiatura.

Su un paio di scene avrei voluto chiudere gli occhi: hai pensato a come sarebbe stato l’effetto in sala?

Mi viene in mente la sequenza dell’unghia. Ecco, un po’ rosico: sono scene horror immaginate per la sala. Il vero divertimento quando realizzi questo tipo di film è pensare a una sala in cui senti il sussulto di massa. Quando ho scoperto che non saremmo usciti al cinema mi sono depresso brutalmente. A oggi è stata comunque una scelta felice.

Non mi uccidere
Alice Pagani-Mirta protagonista di “Non mi uccidere”.

Pensi che un’uscita in sala dopo il lancio su piattaforma potrebbe essere vincente?

Lo stanno facendo tutti, quindi credo di sì. È buono che il pubblico possa anche scegliere, è una forma di modernità. Credo fosse un processo già in corso, il Covid lo ha solo velocizzato.

Ultimamente ho studiato la serie The Sinner, straordinaria nel rilanciare nuovi codici di tensione. Lì si lavora molto per sottrazione, e ho notato anche in te la volontà di contenere anziché sfoggiare: c’è stata?

Assolutamente sì, anche perché diventava noioso e ripetitivo pensare alle scene action e di violenza e chiedersi “adesso come la facciamo?”. Il cinema vive del fotogramma ma anche di quello che resta fuori dal fotogramma: il fatto che ci siano dei momenti in cui noi intuiamo ma non vediamo, accende di più la fantasia e il ruolo attivo dello spettatore, anziché mostrare tutto in modo compulsivo. Molti passaggi in sceneggiatura li ho tagliati e sottratti proprio sul set, mi sembrava un’esagerazione e un inutile dispendio di energie.

Per esempio?

Il finale era molto più lungo, ma uno dei “cattivi” rischiava di diventare un Terminator e mi sembrava grottesco. Quando scrivo e non vedo l’immagine tendo a essere ipertrofico ed esagerare, ma quando giro cerco di trovare l’equilibrio. Quindi mi fa piacere che tu me lo dica: significa che in fase di riprese ho capito quali erano le cose essenziali. E di fatto, per me, la cosa essenziale era lei. Non volevo perdermi in una parodia di un film anni Ottanta. Sono rimasto fedele alla mia protagonista.

Anche nei confronti del sesso c’è un’attenzione diversa, rispetto alla solita acrobazia sexy e soprannaturale tra vampiri.

La prima scena di sesso è in stile Il tempo delle mele, mentre la seconda è in stile Dracula di Bram Stoker. È una simmetria ricercata, per evidenziare il cambiamento di Mirta. Nella prima lei sta sotto, è spaventata, c’è il rito teen della perdita della verginità. Ma la seconda volta è un essere ormai assetato di sangue, che prende per il collo lui e lo tiene fermo. C’è un riscatto femminile anche fisico, percepito sia da lui che da noi: lei non è più Mirta.

E nella catarsi di Mirta la musica gioca un ruolo importante. Rispetto a Baby c’è un modo diverso di inserirla e renderla godibile, senza che il ritmo delle scene vada a interromperla. Da cosa è dipeso?

Quello è un peccato e tu hai ragione a notarlo. Nelle serie bisogna tenere un ritmo legato al linguaggio. È una legge orrenda fondata sulla paura che il pubblico “cambi canale”, quando invece da un punto di vista tecnico sono stato totalmente libero. Baby ha una valanga di repertorio musicale però tagliato in modo serrato. Mentre nel film ci sono 4 pezzi di repertorio non nostro, usati fino alla fine. La scena della discoteca in cui Mirta inizia a compiere la sua trasformazione me la sono goduta davvero: 6 minuti di musica a raccontare una dannazione inesorabile in chiave moderna, non più sinfonica ma techno.

Sei stato anche un abile equilibrista nella scelta delle location. Dall’inizio dichiari: questo non è un horror americano, si ritorna in vita all’italiana, dal loculo di marmo anziché dalla terra. Allo stesso tempo hai creato un’ambientazione forte di certi scenari internazionali, come il bosco e i set notturni. Che registro hai seguito?

L’idea era quella di dare un doppio registro al film, tra passato e presente. Avrei dovuto iniziare a girare il 4 maggio 2020, ma è arrivato il lockdown. Ho continuato a lavorarci insieme ad Alice Pagani e quel tempo in più mi ha giovato anche per curare gli effetti prostetici, una cosa nuova per me. Ma nel frattempo è diventato un film estivo: come rendere il presente invernale e sporco che avevo immaginato, dove l’asfalto fosse dominante e il look in contrasto con il passato? La verità è che sono stato incredibilmente fortunato: ogni volta che giravo le scene con Alice “da morta” pioveva.

Quante settimane hai avuto a disposizione per le riprese?

7 settimane, e devo dire che è un film che ha avuto il suo budget, un’opera seconda girata con più mezzi rispetto all’esordio. Il budget poi non è mai abbastanza ed è comunque stato complicato: ci sono boschi di notte, il campo lungo per me aveva una sua importanza e nelle notturne va illuminato e scenografato in grande. Tra l’altro sono state 2 settimane a Roma e 5 in Alto Adige, dove i sopralluoghi sono stati complessi. Lì ci sono ambienti nuovi, molto freddi e impersonali, ma il nostro obiettivo era quello di “non sentire” l’Alto Adige. Per esempio il motel era un posto abbandonato degli anni Settanta, lo abbiamo restaurato con un’operazione di scenografia importante.

Tra l’altro avete anche utilizzato i led wall per alcune scene di camera car, giusto?

Rocco Fasano non aveva la patente, ho provato a fargli fare una guida in un parcheggio ma mi sono spaventato. Quindi con Francesco Di Giacomo abbiamo deciso di provare questa tecnologia nuova, ci siamo fatti mandare il materiale dalla serie Devils. Abbiamo alternato riprese con gli stunt in una strada bellissima e solo nostra, la Val D’Oca, chiusa perché pericolante. Poi abbiamo costruito un led wall in un capannone industriale per girare l’interno auto con Alice e Rocco. Con un montaggio efficace si crea davvero quell’illusione di velocità dentro l’auto.

La tensione riuscita nel film dipende anche molto dal look. Avete girato in anamorfico: come siete arrivati alla scelta delle lenti?

Sì, era la prima volta per me. Abbiamo usato delle Cooke Anamorphic. Ora va molto di moda ma devi anche trovare il film giusto per farlo, c’è un rapporto con gli spazi diverso. Francesco Di Giacomo ha insistito da subito e io mi fido molto di lui. Mi piace la sensazione allucinatoria del film dovuta anche a questa scelta. La luce non arriva mai in modo teatrale, lavoriamo sempre sulla scena. In generale io tenevo molto alla pasta e alla sporcizia, volevo che il look del film fosse rovinato e restituisse come un senso di “abrasività” della vita. Rompevo davvero a tutti sulla sporcizia, appena vedevo una cosa pulita e ben fatta inorridivo.

Non mi uccidere
Rocco Fasano è il protagonista maschile.

Per la color vale un po’ il discorso delle location: siete completamente in trend ma allo stesso tempo evitando i vizi del trend attuale, su tutti la dominante gialla e verde e lo stile dei flashback.

A noi piace sempre pensare in controtendenza. Come nel finale: anziché farlo asettico, freddo e monocromatico, ci trovi tutti i colori del mondo. In America lavorano proprio sull’armonia cromatica. La color è molto bella perché Francesco le ha dato queste tonalità particolari, azzardando e impastando i colori. Certe dominanti sono sempre un po’ virate, ma mai troppo. Dev’esserci una piacevolezza nel guardare il film, il colore non deve creare una distanza di fondo. Qui mi porto dietro il sapore del fumetto e del cinema coreano: volevo fare un film imbastardito di molte cose che mi piacciono. Se nel 2021 fai l’horror come già ti aspetti che sia, dopo un quarto d’ora ti chiedi: ma perché?

A proposito di aspettative: Alice Pagani qui le supera. C’è stato un level up significativo. Come avete lavorato su Mitra?

[Ride ndr] Sono contento, vedo che Alice in questo film è piaciuta quasi all’unanimità. La storia di Mirta coincide con la storia di Alice Pagani, che si è messa sulle spalle un monolite spaventoso che avrebbe potuto schiacciarla e che non era sicura di poter sostenere. Ci ha messo quattro mesi per riprendersi dal film, è stata massacrata in qualsiasi modo, ma è stata anche un samurai perché non ha mai mollato. Voglio dire: è rimasta tumulata dentro una bara in mezzo ai morti veri per mezz’ora, al buio, solo con una radiolina attraverso la quale le parlavo. E non ha detto niente. Insieme abbiamo lavorato sulla chiave per non rendere il morto statico, da quando risorge al modo in cui si muove e parla.

Su di lei avete anche utilizzato delle lenti a contatto piuttosto invasive.

Sì, sono difficilissime da sostenere e seccano davvero l’occhio. Praticamente le ho chiesto di fare una scena in cui aveva un dialogo emotivamente forte, in cui le sparavano, esplodeva e doveva piangere con le lenti a contatto. Alice ha avuto il sangue addosso anche per dieci ore di fila, le ha causato delle reazioni epidermiche che per il suo lavoro possono essere un problema.

Quindi sei un sadico o era davvero necessario?

No, per me a quel punto del film bisognava stare là. E lei ne era consapevole. Ha grandissima lucidità nel capire cosa sto facendo, ormai lavoriamo insieme da un po’ di tempo.

Eri sicuro dall’inizio che Mirta dovesse essere lei?

Abbiamo iniziato a parlare di questo film durante la stagione 1 di Baby, le ho fatto un provino: volevo che capisse che niente era scontato e volevo vedere come si sarebbe posta dopo essere diventata famosa con Baby. Perché qua dovevo trovare un’attrice che fosse pronta a tutto. E lei c’è stata. Adesso adora il film e lo sente come un figlio.

Adesso sei a uno snodo importante della tua carriera: da qui in poi ogni mossa pesa.

È come una partita a scacchi, sembra Il settimo sigillo! Qualsiasi regista ha l’ansia del fallimento, ma non deve diventare un’ansia da prestazione. Quella ti rovina sia la vita che il modo di lavorare. Per me è così: c’è un filo tra I figli della notte, Baby e Non mi uccidere, ma sono anche progetti molto diversi. Spero che il prossimo progetto non sia niente di prevedibile. Magari farò un terzo film e poi riprenderò il secondo capitolo di Non mi uccidere, chissà. So solo che fare la stessa cosa all’infinito mi annoierebbe e in Italia c’è sempre la tendenza a riproporre quello che è piaciuto ed è andato bene: ecco, spero di rimanere libero il più possibile. Nel momento in cui non lo sarò più forse cambierò lavoro.

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Anna Foglietta tra cinema pop e indipendente: «Ma dentro tremo» https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/anna-foglietta/ Thu, 15 Apr 2021 08:50:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15443 Quattro candidature ai David, una ai Globi d’Oro, altre cinque ai Nastri d’Argento più due vittorie: quando le elenco tutti i riconoscimenti della sua carriera, come previsto Anna Foglietta ride e fa un gesto netto con la mano, come a dirmi “non è niente di ché”. Sappiamo che non è così, soprattutto perché del percorso […]

L'articolo Anna Foglietta tra cinema pop e indipendente: «Ma dentro tremo» proviene da Fabrique Du Cinéma.

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Quattro candidature ai David, una ai Globi d’Oro, altre cinque ai Nastri d’Argento più due vittorie: quando le elenco tutti i riconoscimenti della sua carriera, come previsto Anna Foglietta ride e fa un gesto netto con la mano, come a dirmi “non è niente di ché”. Sappiamo che non è così, soprattutto perché del percorso di Anna Foglietta colpisce un insolito e invidiabile equilibrio.

Cammina, funambolica, tra la gavetta a teatro e l’esordio in televisione, fino a quel fortunato salto in lungo dritta nel cinema mainstream dei grandi incassi. Diventa un volto della commedia italiana, che si traduce anche in popolarità e guadagno economico, eppure continua a scegliere puntualmente l’incognita del cinema indipendente e delle opere prime. E, a dirla tutta, ci vede piuttosto lungo.

A oggi potresti rilassarti, comodissima, su progetti che incassano senza troppe fatiche. Che vuol dire per te scegliere di investire in un’incognita e non soltanto in grandi produzioni e registi noti?

Io la vedo come un’incognita solo in parte: anche i grandi registi possono commettere un errore e non centrare un film. Sono molto attratta dalle opere prime e dai giovani perché hanno uno sguardo sul reale che è completamente diverso dal mio e che mi aiuta a comprendere come comunicare con le nuove generazioni. È una questione anagrafica, ma è anche vero che ora le cose vanno talmente più veloci rispetto a prima, che un divario di dieci anni pesa come un trentennio di differenza.

A volte ho l’impressione che tu ti senta più a tuo agio nel cinema indipendente: ci ho preso?

Ci hai preso, è assolutamente così. Credo di sentirmi più libera. Se si va a snocciolare la mia carriera è un po’ particolare: ho fatto una grande gavetta ma ho avuto anche la fortuna di iniziare a lavorare nel mainstream super pop. Arrivando dal teatro ho esordito in TV con La squadra, che in realtà era un prodotto indipendente nel panorama televisivo dell’epoca: tra sceneggiatura, regia e cast, c’era un taglio che poi magari non ho ritrovato in Distretto di polizia. Poi ho iniziato a lavorare con i grandi maestri della commedia, in primis Carlo Vanzina, e ho fatto il cult movie di Massimiliano Bruno, Nessuno mi può giudicare. Insomma, sono stata lanciata nella grande commedia all’italiana diventandone uno dei volti, ma in parallelo sentivo che non era esattamente il ruolo per il quale avevo iniziato a fare questo mestiere.

Ti mancava qualcosa?

Non c’è un filone nel quale voglio rientrare, però ci sono delle cose che mi piace esplorare. Ecco, nel momento in cui ho avuto l’opportunità di essere lanciata da film che hanno incassato e mi hanno resa popolare, offrendomi anche candidature e premi, ho potuto permettermi di ritagliarmi delle piccole oasi di sperimentazione. Parallelamente al filone più pop, ho provato anche a crescere senza abbandonare la motivazione che mi ha spinto a fare questo mestiere: la ricerca.

Ora immagino ti capiti di dover scegliere tra un film “pop” e un’opera indipendente: come ti muovi di fronte a questi bivi?

Posso dire con grande onestà intellettuale che per me l’aspetto economico e contrattuale ha sempre una rilevanza minore. Sono una donna che si è formata in una condizione socio-economica molto umile, quindi non ricerco per forza gli agi. Negli ultimi dieci anni le mie scelte sono state dettate solo dall’interesse, ma prima era diverso. Ricordo bene quando sono arrivati i primi guadagni. La mia prima pubblicità fu nel 2000. Fa davvero molto ridere, immagina: mi chiama Gabriele Muccino per uno spot delle Pagine Gialle. Mi danno 5 milioni di lire per due giorni di riprese. Io guadagnavo 30 mila lire a replica a teatro, facendomi un mazzo incredibile. All’epoca con mia madre ci prendevamo il Porto, il liquore, alle cinque del pomeriggio: sembravamo due anziane, parlavamo nel nostro salottino e ci dicevamo: «Ma ti rendi conto? Secondo me si so’ sbagliati».

Ci si abitua mai a guadagnare bene?

Forse crescendo. Credo sia parallelo a un discorso di dignità: le scelte che fai devono ricevere anche una gratificazione economica per iniziare davvero a goderti quello che hai costruito. Ci si abitua davvero? Io vengo da una famiglia modesta e il fatto che sono diventata una persona che può permettersi degli agi l’ho vissuto quasi come un tradimento. Il denaro però per me ha un’importanza, soprattutto rispetto ai miei figli: non mi piace che abbiano l’idea che sia tutto semplice, lo trovo volgare e raccapricciante. Di contro, se c’è da concedermi il lusso di un regalo, ora penso che me lo sono sudato e quindi è giusto che io me lo conceda.

Mi fa sorridere che tu abbia utilizzato il concetto di «tradimento»: è lo stesso che uso con la mia psicoterapeuta quando parlo del rapporto con i soldi.

Infatti ci ho scritto uno spettacolo su questo, si intitola La bimba col megafono e parla proprio del percorso di elaborazione in cui deve emanciparsi dalla sua condizione proletaria, per usare un termine un po’ marxista. Ma non ho mai dimenticato le mie origini e ne sono orgogliosa.

Anna Foglietta in Un giorno all'improvviso
Anna Foglietta in “Un giorno all’improvviso”.

Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio è stato un “cavallo indipendente” vincente: come è nato quell’incontro?

È arrivato nella mia vita nel 2014. Succede che sto girando Tutta colpa di Freud di Paolo Genovese, dove Emanuela Ianniello, la moglie di Ciro D’Emilio, è l’assistente di edizione. È lei a segnalarmi a Ciro per Un giorno all’improvviso. Io davvero non so come abbia fatto ad intravedere in me quel personaggio mentre sul set interpretavo una trentenne rampante, super up e omosessuale, che poi decide di diventare etero: piena commedia. Le devo molto per aver colto qualcosa ed essere stata così lungimirante. A detta sua potevo essere adatta a interpretare una madre affetta da narcisismo patologico che viene accudita dal figlio quindicenne. Ed è così che arrivo a leggere la sceneggiatura: è potente e dolorosissima, do la mia disponibilità e firmo la lettera d’intenti. Poi passano tre anni finché Ciro non mi richiama e cominciamo a lavorare.

E non passano tre anni qualsiasi: Noi e la Giulia, Perfetti sconosciuti, Il premio, uno dietro l’altro. Qualcuno, al tuo posto, forse ci avrebbe ripensato…

Questa è una di quelle scelte che non fai minimamente per soldi. Mio marito mi diceva: «Ti vai a fare ’sto bagno di dolore, ma sei sicura? Con tre figli, pensaci, lavori tanto, sei stanca». Ma sapevo che era una di quelle cose importanti che dovevo fare nella vita, e col senno del poi devo riconoscermi un certo fiuto per queste storie. E poi è come andare in palestra: prima ti dedichi alle spalle, poi tapis roulant e poi un po’ di trazioni. Ogni linguaggio dell’attore va allenato come fosse un muscolo diverso. L’attore deve sempre essere molto tonico: nel flaccidume la recitazione non trova un terreno fertile.

Deve essere tosto, però, il passaggio continuo tra una grande produzione e «un bagno di dolore». Non hai mai paura?

Io ho molta paura. Sono una donna che risulta assolutamente risoluta e forte, ma facendo questo mestiere ovviamente non lo sono. Mi auto-convinco ma dentro tremo. Ogni volta che inizio un nuovo progetto, soprattutto questi film “da salto nel vuoto”, ho crisi di ansia, non dormo, ho mal di testa. Si instaura uno schema fisico di malessere che quasi è diventato un rito scaramantico: spero che il mio corpo lo produca perché così mi preparo. In realtà è un travaglio: ho paura ma poi mi dico anche che si può sbagliare, non è detto che ogni volta la scelta sia giusta. Però mi ritrovo quasi sempre a riguardare il progetto e dirmi che ho fatto bene.   

Per esempio Il contagio di Botrugno-Coluccini è un’opera prima indipendente che avrebbe meritato più risonanza, non trovi?

Parliamo di due pezzi di cuore, Matteo e Daniele sono due amici fraterni per me, come Ciro. Un giorno all’improvviso è stato in concorso a Orizzonti a Venezia, Il contagio alle Giornate degli Autori, sono due riflettori diversi nello stesso Festival. Credo che il film di Ciro abbia avuto una strategia di comunicazione e un impatto mediatico differente, e che la critica lo abbia amato particolarmente, era una partitura perfetta. In maniera diversa, Il contagio è piaciuto ma non completamente, veniva da un romanzo apprezzatissimo e il confronto tra letteratura e cinema è sempre complicato. Resta il fatto che rispetto al panorama generale è una spanna sopra alla media.

E poi nel cinema indipendente non è neanche detto che il termometro del successo arrivi nelle mani del pubblico. Come ti spieghi allora certi exploit di popolarità?

Vabbè, dipende anche molto dal sapersi proporre e vendere. Non cito nessuno perché rischierei di essere fuori luogo e sgradevole [ride]. Ci sono film che sono stati osannati dalla critica e li trovo più che mediocri, anzi, ruffiani e furbetti. Però evidentemente non ci capisco niente io e ci capiscono tutto gli altri.

La cosa ti fa arrabbiare?

Rispetto a questo mercato e a queste logiche di venerazione io mi trovo francamente impreparata e incredula. Ho smesso di arrabbiarmi perché penso che certe cose vadano comprese, piuttosto che opporsi. Ma continuo a preferire l’onestà di certi altri progetti.

Anna Foglietta in Il contagio
Anna Foglietta in una scena de “Il contagio”.

Qui entrano in gioco anche le piattaforme streaming on-demand. Stiamo andando nella stessa direzione del giornalismo online? Un “dentro tutti” in cui pesci buoni e cattivi convivono nello stesso acquario?

Tante volte inizio un film ma se non mi piace, dopo dieci minuti lo interrompo. Questa è la risposta che credo debba essere più analizzata: lo facciamo tutti. I film sulle piattaforme streaming non si vedono: si consumano. Li mettiamo, li cambiamo, non ce ne frega niente di arrivare fino in fondo ma ci permettiamo di giudicarli senza averne visto nemmeno la metà. Ma che vuol dire? Al cinema sei lì, ti concentri, cerchi di entrare in una storia e coglierne gli aspetti, poi hai tutti gli elementi per poter valutare. È inevitabile che i film sulle piattaforme siano visti con meno attenzione. Ormai esiste il fenomeno del Double Screen: mentre guardo la TV consulto il cellulare. Però si è capito quanto margine di fruizione ci sia sulle piattaforme e quindi si produce tantissimo, e di conseguenza nella massa dell’offerta la qualità a volte rischia di venire meno. Parlo soprattutto della scrittura, che ha bisogno di tempo e sedimentazione per emergere in tutta la sua unicità. Di certo il settore dell’audiovisivo ne sta guadagnando, perché non c’è mai stato tanto lavoro come in questo periodo. E di questo sono felice, soprattutto considerando l’anno terribile che abbiamo vissuto.

Ma qualche bella scoperta l’hai fatta ultimamente sulle piattaforme?

Sono reduce da SanPa e ne sono rimasta colpita, mi è piaciuto moltissimo. E poi Fleabag, The Marvelous Mrs. Maisel e Ozark che ha una fotografia bestiale, sono tutte cose che ho amato tanto. 

Alessandro Borghi, Matilda De Angelis, Benedetta Porcaroli, i tantissimi usciti da Skam: talenti che noi fabriquers avevamo anticipato, sono stati nostre cover in tempi non sospetti. Anche tu li avevi intercettati?

Con Benedetta abbiamo fatto Perfetti sconosciuti, ricordo di aver subito detto: «È pazzesca, che viso e che determinazione!». Mi piace perché è una ragazza molto concentrata. Con Borghi andavamo in palestra insieme ai tempi di Un medico in famiglia, poi lo ritrovai durante il provino di Non essere cattivo: aveva fatto una trasformazione fortissima, glielo dissi. Mi sono trovata davanti un attore con un’emotività, un cuore e una preparazione unica in Italia. Da quel provino ho capito che era un talento, un outsider. Con Matilda ho fatto Il premio e tante di quelle chiacchierate: io amo quella donna. Trovo che sia un talento a tutto tondo, a Sanremo potrebbe fare anche la conduttrice, e poi canta divinamente! Recita con verità e spontaneità, è bellissima, ha testa, è interessante, studia tutto e non solo il settore. È una immersa nella vita.

È anche la prova che stiamo assistendo al ritorno di una vecchia maniera di fare scouting: giovani attori con gavetta minima o nulla alle spalle, che però vengono lanciati subito in serie A e iniziano a studiare solo dopo. C’è poco da dire, alcuni sono forti davvero. Il tuo invece è un percorso di gavetta serrata e lunghe attese: come guardi a questo cambiamento?

Il nostro mestiere, soprattutto quando ti lancia in una grande popolarità e sei molto giovane, ti rende impreparato. Questo è l’unico vero rischio. Non vedo criticità nel diventare popolari, acquisire un ruolo e solo dopo approfondire il mestiere: il processo accademico, se non hai davvero un quid in più, può appiattirti e livellare il tuo vero estro. Questo è un lavoro che più lo fai e più lo impari (anche se una grande attrice un po’ âgée mi ha detto che invece col tempo si può anche diventare dei cani). Ma farei attenzione al sistema che ti osanna, soprattutto adesso con i social: quando non hanno il riflettore puntato magari lo devono ricreare, e quindi sono sempre accesi. Però stare sempre “on” nel nostro mestiere non porta quasi mai alla felicità.

Ma poi è così bella tutta questa storia dei riflettori?

No, è molto faticoso in realtà. Devi sempre stare in parte. Io cerco sempre di mantenere inalterata la mia spontaneità, ma è inevitabile che io stia facendo una performance. Anche ora, durante quest’intervista.

 

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