Magazine Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 17 Apr 2024 17:35:14 +0000 it-IT hourly 1 Il superpotere delle nuove tecnologie comporta grandi responsabilità: parola di Jeff Gomez https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/il-superpotere-delle-nuove-tecnologie-comporta-grandi-responsabilita-parola-di-jeff-gomez/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/il-superpotere-delle-nuove-tecnologie-comporta-grandi-responsabilita-parola-di-jeff-gomez/#respond Tue, 19 Mar 2024 15:26:52 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19023 Jeff Gomez è un produttore transmediale ed esperto di narrazione interattiva statunitense riconosciuto a livello mondiale, fondatore e CEO di Starlight Runner Entertainment. Nella sua carriera, ha lavorato con alcune delle più grandi proprietà intellettuali del mondo, tra cui Star Wars, Avatar, Halo e Transformers, contribuendo a estendere le loro storie attraverso molteplici piattaforme e […]

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Jeff Gomez è un produttore transmediale ed esperto di narrazione interattiva statunitense riconosciuto a livello mondiale, fondatore e CEO di Starlight Runner Entertainment. Nella sua carriera, ha lavorato con alcune delle più grandi proprietà intellettuali del mondo, tra cui Star Wars, Avatar, Halo e Transformers, contribuendo a estendere le loro storie attraverso molteplici piattaforme e media. Anticipiamo uno degli articoli che appariranno sul prossimo numero di Fabrique con la versione estesa del contributo di Jeff Gomez, che ringraziamo per la sua disponibilità.

Qual è il tuo punto di vista sull’impatto delle nuove tecnologie sull’intrattenimento? In particolare, mentre le piattaforme di distribuzione hanno subito cambiamenti notevoli, i formati sembrano rimanere gli stessi, a eccezione di alcuni prodotti “interattivi”. Credi che l’emergere di VR, AR, Metaverse e IA cambierà anche i metodi di narrazione e i formati?

Le tecnologie partecipative emergenti come la realtà mista e l’intelligenza artificiale richiederanno modalità narrative completamente nuove. Assisteremo all’evoluzione della progettazione narrativa: una forma di narrazione necessaria per sfruttare l’attività del giocatore all’interno degli ambienti interattivi predeterminati dei videogiochi, in un modello che consentirà una relazione libera e senza limiti tra partecipante, ambiente, personaggi e storia. Questo concetto è ciò che chiamo “narrazione sistemica”. Il partecipante umano o il personaggio giocante entra nell’ambiente, virtuale o completamente fittizio e si muove all’interno di esso senza una traccia predeterminata. Il nuovo linguaggio della narrazione sistemica deve inoltre consentire di mettere da parte concetti polarizzati di giusto e sbagliato, perché il partecipante non è necessariamente un “eroe speciale” all’interno di questo ambiente, ma è più simile a un membro di una comunità o di un collettivo di personaggi ed eventi. Il grado di partecipazione alla grande narrazione è interamente a sua discrezione. Il mondo procederà con o senza di lui. Ma il modello deve anche incoraggiare la partecipazione e ricompensare una maggiore interazione con l’ambiente con l’attivazione di sequenze narrative aggiuntive progettate dagli autori. Ciò influenzerà e arricchirà la narrazione, perché gli autori dovranno immaginare mondi viventi, respiranti, in cui ogni personaggio e creatura ha la propria prospettiva e dove anche le azioni più piccole dei partecipanti avranno effetti a catena sulla storia. Questo promuoverà un approccio differente alla narrazione, dove i punti di vista di ciascun partecipante e personaggio non giocante devono essere presi in considerazione affinché la narrazione sia veramente attualizzata.

Attualmente, come sta rispondendo il mercato dell’intrattenimento alle tecnologie immersive (AR, IA, Metaverse) e all’IA? Siamo ancora in una fase esplorativa, o stiamo già iniziando a offrire qualcosa agli utenti, allontanandoci dagli standard che hanno dominato finora?

Le narrazioni lineari e alcune interattive stanno diventando più sofisticate. Sono particolarmente interessato ai complessi mondi narrativi dei franchise dell’intrattenimento come Star Wars, Game of Thrones e l’Universo Cinematografico Marvel, perché ognuno è ambientato all’interno di un proto-mondo narrativo sistemico. Universi videoludici come Grand Theft Auto e Elden Ring trasmettono l’illusione di mondi narrativi viventi che esistono tutto intorno al partecipante e procedono nel tempo. Anche le narrazioni immersive come quelle che si potrebbero trovare nel teatro sperimentale e nei parchi a tema stanno evolvendo in direzioni interessanti. Ma abbiamo ancora molta strada da fare prima che le narrazioni sistemiche come le ho descritte diventino comuni.

Approfondendo le “tecnologie generative”, come pensi che queste tecnologie influenzeranno la creazione, il consumo e la distribuzione dei contenuti a lungo termine? Sono rischi o opportunità per i creativi e per l’industria e la società civile?

Stiamo assistendo a un salto quantico che ricorda alcuni degli eventi più impattanti nella storia della comunicazione di massa: la stampa, la radio, il cinema, la televisione e i dispositivi mobili. Le tecnologie generative hanno il potenziale per emulare e in certo modo realizzare ciò che finora è stato evocato solo dalla nostra immaginazione. Si tratta della capacità di produrre simulacri convincenti dei mondi narrativi che stiamo navigando, fino al più piccolo dettaglio, e ancora più in profondità fino ai pensieri, ai desideri e alle aspirazioni degli esseri immaginari. La bellezza di questo è che la nostra finzione può diventare meno astratta e semplificata, provocando una maggiore riflessione e considerazione per il mondo che ci circonda. Il pericolo, naturalmente, è nella tentazione di raffigurare la depravazione umana. Man mano che le storie diventano più realistiche a livello sensoriale, c’è poi il rischio di sfumare i confini tra fantasia e realtà fino al punto in cui le esperienze diventano indistinguibili. Questo significa intanto che le fantasie e i vizi potranno trasferirsi nel mondo reale. Ma ci sarà anche il pericolo che alcuni, più esposti a queste tentazioni, esprimano la volontà di rimanere nel mondo narrativo il più a lungo possibile, perché è un’alternativa migliore alla banalità del mondo reale.

Jeff Gomez
Jeff Gomez.

Parliamo ora di “qualità narrativa”. Quando si discutono le nuove tecnologie applicate alla narrazione, le preoccupazioni sorgono principalmente dall’industria dell’intrattenimento, in particolare l’industria cinematografica. Ricordiamo i pericoli che alcuni indicano, come “la scomparsa degli autori”, la creazione di film “senza attori” e come questo influenzerà negativamente la storia, rendendola un prodotto standardizzato prodotto da una “macchina”. Sei d’accordo o in disaccordo con queste preoccupazioni?

Per tutti i precedenti grandi balzi nell’evoluzione dei media, sono state sviluppate nuove lingue e tecniche per sfruttare i punti di forza della tecnologia. Nel cinema, ad esempio, siamo passati rapidamente da riprese di spettacoli teatrali alle riprese in campo e controcampo, al montaggio parallelo e alle telecamere in movimento. Con l’avvento dell’IA e delle tecnologie immersive, probabilmente ci ispireremo al videogioco per ottenere dei nuovi format narrativi e creare un linguaggio per le narrazioni sistemiche. Sebbene non vi sia dubbio che il livello di qualità dei contenuti prodotti dall’IA continuerà a aumentare, probabilmente passerà ancora molto tempo prima che possano simulare una visione creativa originale con un approccio stilistico unico che emerge dalla somma totale delle esperienze e dei desideri personali di un artista, dai suoi traumi infantili, dalle sue fantasie sessuali e dalle manifestazioni dell’intero spettro di dolore e gioia. Quando però accadrà, saremo in grado di apprezzare i contenuti generati dall’IA come facciamo con il film medio su Netflix.

Guardando ai mestieri tradizionali del cinema e della televisione, credi che dovremmo prepararci per una rivoluzione o un cambiamento radicale?

Ai tassi di sviluppo attuali, entro pochi anni interi film e programmi televisivi saranno creabili senza la necessità di lunghe fasi di sviluppo della sceneggiatura o di produzione fisica. Da una parte dovremo avere nuove skill che siano in grado di dominare i prompt per creare una storia. Dall’altra parte da un potere del genere deriverà una grande responsabilità. Quando qualsiasi cosa che possa essere generata dalla tua mente può trovare la sua strada in un film in movimento altamente realistico, dobbiamo dedicare molte più risorse alla cura e al mantenimento della salute mentale. Soprattutto, dobbiamo cambiare prospettiva e dare valore non più alla sconfitta del male da parte del bene (qualunque cosa definiamo questi due termini), ma alla riconciliazione. Ovvero affinare la capacità di mettere a confronto prospettive per trovare nuove soluzioni mutuamente valide ed effettuare riparazioni sistemiche, in modo da non essere condannati a ripetere cicli di negatività, distruzione e trauma.

Questi impatti vengono studiati o esplorati in ambienti accademici? Quali sono le domande che attualmente guidano la ricerca in questo settore?

La rapidità di proliferazione di questi nuovi media mi ricorda quanto rapidamente si sia evoluta e abbia impattato la società la tecnologia dei telefoni cellulari. In entrambi i casi, l’accademia e la nostra capacità generale di auto-istruirci non sono stati al passo dell’evoluzione. Nel caso dei dispositivi mobili e dei social media, questo ha comportato un impatto molto negativo, soprattutto per i giovani e le fasce deboli. Se non siamo attenti, lo stesso può accadere con l’IA e le tecnologie immersive. Non possiamo più permetterci di essere ingenui o idealistici sull’applicazione di queste tecnologie. Sono inevitabili ma ciò significa solo che dobbiamo studiarle, stabilire limiti per prevenire o almeno mitigare il danno e prepararci a neutralizzare i tentativi di militarizzarle. Decenni fa, con il Macintosh, Apple ha posto il potere del calcolo nelle mani delle masse e ha contribuito a cambiare il corso del destino umano. Oggi ci viene dato il potere di visualizzare qualsiasi cosa possiamo sognare o accedere alla somma delle conoscenze umane attraverso un paio di occhiali. Dobbiamo esaminare l’etica di queste capacità. Dobbiamo capire il fascino psicologico di mondi narrativi all’interno dei quali possiamo perderci. Dobbiamo capire come queste tecnologie possano rendere il mondo un posto migliore e prepararci a coloro che vorranno usarle per peggiorarlo.

 

 

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Antipop, la storia di Cosmo in un doc su Mubi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/#respond Mon, 26 Feb 2024 14:25:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18975 In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche […]

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In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche da quella definizione così larga e onnivora che è il genere pop. Ed è inoltre lo stesso titolo di un brano dell’album La terza estate dell’amore, una citazione voluta dal regista Jacopo Farina, qui alla sua opera prima.

L’ascesa di Cosmo non appartiene al mercato discografico immediatamente mainstream e la scalata al successo del cantautore di Ivrea somiglia più alla storia di una garage band. Sempre circondato e legatissimo al gruppo e alla sua famiglia, questa caratteristica è il cuore del lavoro di Farina, che si concentra non tanto sulla spiegazione di testi e musiche, ma sulla vita vissuta della “tribù” che ruota intorno a Marco Jacopo Bianchi, da cui poi l’artista emergerà con il nome di Cosmo. Si parte dalla sua prima band, i Melange e dalla morte prematura di uno dei musicisti, passando per il secondo gruppo, i Drink to me, e poi finalmente si arriva al successo presso il grande pubblico come solista, che solo non è mai stato.

Nella prima parte del doc Farina ci espone un racconto corale dove i genitori, ogni amico o musicista hanno lo stesso peso. Ci sono le prove nello scantinato di uno zio o in tavernette casalinghe con boiserie, antistanti il bagno d’una madre presa dal fare il bucato; le bevute dopo i rifornimenti di birre al supermercato e le ragazze che testimoniano amori e creazioni musicali; lo spirito dell’essere uno per tutti e tutti per uno nel lutto affrontato con una lunga astensione dagli strumenti quanto nell’appoggiare in toto la nuova identità solista di Marco, anzi Cosmo. Una famiglia e una tribù appunto, dove a contare è l’unione, sempre e comunque. È questa la caratteristica più incisiva del doc e del Cosmo-mondo. Il regista l’affronta con la voce narrante di Cosmo stesso, e ci sentiamo quasi Marco che osserva la sua storia, o meglio il mondo che lo ha circondato sin dall’adolescenza. Quasi un doc in soggettiva, insomma.

La musica qui ha un ruolo amniotico e, libera dal binomio convenzionale del videoclip (canzone-performance visiva), circola in questo lavoro come una linfa. Sempre presente in mood sonori quasi sottotraccia, loop e melodie estrapolati da arrangiamenti editi, percorre il film con il sound elettronico che caratterizza questo artista.

Dall’1 marzo Antipop arriva in esclusiva su Mubi. Forse una piattaforma di qualità è la migliore via distributiva per un doc di questo formato, un’ora, molto adatto a una fruizione televisiva d’approfondimento. Essendo in uscita il nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco, il quarto da solista di Cosmo, in uscita il 15 marzo per Columbia Records e Sony Music Italy, sembra anche il lancio perfetto sul piano del marketing.

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Fabrique n. 42: Liliana Bottone, Francesco Patanè, Pauline Fanton e Andrea Fuorto https://www.fabriqueducinema.it/magazine/attori/fabrique-n-42-liliana-bottone-francesco-patane-pauline-fanton-e-andrea-fuorto/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/attori/fabrique-n-42-liliana-bottone-francesco-patane-pauline-fanton-e-andrea-fuorto/#respond Sat, 17 Feb 2024 18:32:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19063 Ecco i quattro nuovi attori che Fabrique presenta nel suo numero 42: Liliana Bottone, Francesco Patanè, Pauline Fanton, Andrea Fuorto. Liliana Bottone, 28 anni L’avete vista: In Sabato, domenica e lunedì (adattamento televisivo di Edoardo De Angelis), nella serie Resta con me e nei film Il Principe di Roma, Grazie ragazzi e 100 domeniche. La […]

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Ecco i quattro nuovi attori che Fabrique presenta nel suo numero 42: Liliana Bottone, Francesco Patanè, Pauline Fanton, Andrea Fuorto.

Liliana Bottone, 28 anni

L’avete vista: In Sabato, domenica e lunedì (adattamento televisivo di Edoardo De Angelis), nella serie Resta con me e nei film Il Principe di Roma, Grazie ragazzi e 100 domeniche.

La vedrete in: Nelle serie Bastardi di Pizzofalcone, Inganno e in quella che sto girando (ancora top secret).

I tre film italiani, classici o contemporanei, che preferisce in assoluto: Ho difficoltà a fare classifiche, dico tre film che mi sono piaciuti molto ma che NON rappresentano la mia top 3: Volevo nascondermi, perché mi piacciono le storie vere di persone che hanno vite anche molto lontane dalla mia e mi lasciano qualcosa da portarmi dietro. Esterno notte, uno dei migliori in assoluto che ho visto negli ultimi anni, appassionante, sconvolgente, mi tornavano in mente scene e personaggi anche nei giorni seguenti, era come se il film mi fosse rimasto attaccato addosso. Non essere cattivo: oltre ad essere la consacrazione di due attori magnifici, un film crudo, senza fronzoli, intenso.

Francesco Patanè, 27 anni

L’avete visto: Al cinema ne Il cattivo poeta e Ti mangio il cuore, e nelle serie La legge di Lidia Poët, Monterossi, Imma Tataranni, Un passo dal cielo, Don Matteo.

Lo vedrete in: A teatro nello spettacolo Tu (non) sei il tuo lavoro, scritto da Rosella Postorino (premio Campiello 2018, finalista premio Strega 2023) con la regia di Sandro Mabellini.

I tre film italiani, classici o contemporanei, che preferisce in assoluto: La grande bellezza, perché descrive in modo struggente la decadenza dell’uomo contemporaneo in contrapposizione alla bellezza eterna e maestosa di Roma. 8 e ½, perché Fellini gioca con l’impossibilità di fuggire da sé stessi attraverso l’arte. Veloce come il vento, perché vederlo al cinema fu per me una rivelazione, ricordo la sensazione che provai in sala: un nuovo cinema italiano era possibile e stava cominciando a farsi sentire!

Pauline Fanton, 24 anni

L’avete vista: Nelle serie Vostro Onore e Confusi.

La vedrete in: In Confusi 2, Doc – Nelle tue mani 3 e La legge di Lidia Poët 2.

I tre film italiani, classici o contemporanei, che preferisce in assoluto: Mediterraneo di Gabriele Salvatores, per la ricerca di un proprio posto nel presente che talvolta coincide con il bisogno di prendere le distanze da una realtà immutabile, e per la celata ma chiara esortazione a fermare la follia delle guerre. Caro diario di Nanni Moretti, per la rassegna di immagini di una Roma ignorata e silenziosa, per la sua narrazione della solitudine attraverso il viaggio tra le isole e per l’umorismo drammatico con cui ha raccontato la malattia. Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, perché non lascia speranza di un futuro migliore e perché racconta un’Italia patriarcale nelle famiglie piccole borghesi che continua a mietere vittime.

Andrea Fuorto, 25 anni

L’avete visto: L’Arminuta di Giuseppe Bonito, La prima regola di Massimiliano D’Epiro, Suburra 3 e Patagonia di Simone Bozzelli.

Lo vedrete in: Zweitland (Seconda Patria) di Michael Kofler e Gerri di Giuseppe Bonito. Attualmente sono su un set di un nuovo film di cui non posso ancora parlare.

I tre film italiani, classici o contemporanei, che preferisce in assoluto: Gomorra di Matteo Garrone per la verità che trasuda dallo schermo: per come il regista è riuscito a far convivere attori affermati come Toni Servillo e attori presi dalla strada che regalano un’interpretazione di una verità fuori dal comune. E per come la macchina da presa che accompagna i personaggi per tutto il film riesce a raccontare senza giudicare. Roma città aperta per la straordinaria performance di Anna Magnani, un film dove la distruzione dell’uomo e della terra convivono insieme e riesci a sentire i respiri, le urla, la rabbia, il dolore e la morte. La grande bellezza di Paolo Sorrentino, un’opera d’arte perché è un film che ho sempre ammirato e guardato come si guarda una statua o un quadro. Mi ha fatto innamorare per la seconda volta di questo mestiere e mi fa innamorare ancora ogni volta che lo rivedo.

Fotografo: Gioele Vettraino

Stylist: Cosmo Muccino Amatulli 

Hairstylist: Adriano Cocciarelli per Harumi

Make-up: Chiara Baretti per IDL Makeup

Location: Studiophotografia

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MalaFede, la Madonna che ama la comunità LGBT https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/malafede-la-madonna-che-ama-la-comunita-lgbt/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/malafede-la-madonna-che-ama-la-comunita-lgbt/#respond Wed, 07 Feb 2024 14:50:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18945 Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, […]

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Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, dove si svolgono le danze e i rituali guidati dai canti di Marcello Colasurdo, artista e e mediatore tra la comunità e il divino, si riuniscono i “femminielli”, né maschi né femmine, i più autentici e ancestrali custodi di un culto popolare che celebra la sacralità della natura umana, della rinascita rituale e della Grande Madre. MalaFede è un documentario piccolo ma sconfinato, aperto come un respiro fatto a pieni polmoni, vibrante di colori e energia. Una regia collettiva per un rito collettivo, un esordio fresco e allo stesso tempo meditato, che ha il sapore del raccordo ideale. Il successo di MalaFede mostra a pieno i frutti del lungo lavoro di Chiara Borsini giornalista e sceneggiatrice, Marialuisa Greco autrice e producer freelance e Paolo Corazzo cinematographer e direttore della fotografia. Un’unione rara che muove come un’unica mano e un unico sguardo un progetto che ha fatto della collettività il suo punto di forza.

È stata la vostra prima volta alla regia, raccontatemi come avete vissuto questa esperienza.

Malù: Mi sono sempre occupata della parte autoriale dei progetti, poi il lavoro mi ha portata a sperimentare altri ruoli, così sono diventata una producer. La regia era un percorso che prima di MalaFede non avevo mai preso in considerazione. Lavorare insieme, in una regia collettiva, ci ha permesso di essere sicuri delle nostre scelte e superare qualche dubbio dovuto all’inesperienza. Dalla nostra parte poi, avevamo molti riferimenti cinematografici in comune, un gusto estetico condiviso che ci ha portati verso un risultato apprezzato con soddisfazione da tutti e tre.

Paolo: Ho la fortuna di collaborare ogni giorno insieme a vari registi su progetti e clienti sempre diversi. In pubblicità il risultato e la crescita professionale seguono un percorso fatto da modalità, tempistiche e obbiettivi estetici differenti. La regia di MalaFede per me è stata prima di tutto un dialogo condiviso totalmente diverso dalle altre mie esperienze.

Chiara: Avere la possibilità di condividere questa esperienza alla regia con Marialuisa e Paolo ha sicuramente rappresentato un valore aggiunto al nostro lavoro, sia perché siamo tutti e tre portatori di competenze e sensibilità diverse, sia perché il rapporto umano, oltre che professionale, che ci ha sempre unito ha favorito una crescita durante la quale abbiamo imparato molto gli uni dagli altri. Le produzioni indipendenti conoscono sempre momenti che costituiscono delle sfide e avere la fortuna di affrontarli con persone con cui abbiamo scelto di collaborare per affinità elettive è una grande fortuna.

MalaFede
La Madonna di Montevergine.

Com’è nata l’idea di MalaFede? Perché questo titolo?

Chiara: L’idea è nata sei anni fa dalla lettura di Mamma Schiavona. La madonna di Montevergine e la Candelora. Religiosità e devozione popolare di persone omosessuali e transessuali di Monica Ceccarelli. Il saggio analizza in prospettiva storico-antropologica la devozione, la festa e il conflitto con l’autorità religiosa della comunità campana dei femminielli. Anche La pelle di Curzio Malaparte è stato un testo illuminante per comprendere la figura del femminiello nella cultura partenopea e, potendo contare sulla conoscenza del territorio di Marialuisa che è di origini campane, abbiamo deciso di fare esperienza diretta del pellegrinaggio. Dal 2017 abbiamo partecipato alle celebrazioni della Candelora, che si sono poi purtroppo interrotte per un paio d’anni durante la pandemia. Abbiamo compiuto il pellegrinaggio insieme ai fedeli, danzato con loro, abbiamo condotto molte interviste e raccolto decine di ore di girato. Ci sono voluti anni per dare a MalaFede la forma e il respiro che ha oggi. Inizialmente volevamo farne un lungometraggio che superasse i confini di quel territorio, poi, in fase di pre-montaggio, grazie al supporto della nostra video-editor Giulia Baciocchi, abbiamo spostato il focus del racconto interamente sulla dimensione di Montevergine, tenendo da parte altri elementi della nostra ricerca per progetti futuri.

Malù: Conoscevo la figura del femminiello e alcuni suoi rituali, come la tombola e la “figliata”, il parto del femminiello, al quale mio padre aveva avuto la fortuna di assistere. Il titolo poi fu un’illuminazione: una sera ero con alcune amiche, tra di noi ci chiamavamo “Malefemmine” e, mentre parlavo della difficoltà di trovare un nome al documentario, venne fuori, come fosse un gioco, il nome “MalaFede”. Quel titolo l’ho sempre immaginato con un punto interrogativo: è davvero una mala fede, una cattiva fede, quella di una comunità, emarginata da secoli, che si è costruita una identità religiosa diversa da quella ufficiale ma con gli stessi princìpi?

La scrittrice e docente di Letterature comparate Tiziana de Rogatis ha scritto che Napoli è la città del limen, della soglia, della sospensione tra temporalità, codici e generi opposti. Sostiene che la sua eccentricità si fonda proprio sull’essere una «città ermafrodita e ibrida, femmina e maschio» arcaica e contemporanea.

Chiara: Non potrei essere più d’accordo con questa definizione della cultura partenopea. Nel documentario, Marcello Colasurdo e Ciro Cascina sono stati capaci di rendere questo concetto in maniera esaustiva con la metafora della sirena Partenope – metà donna e metà pesce. Ermafrodita è Napoli ed ermafroditi sono i sacerdoti del tempio di Cibele – secondo la narrazione leggendaria di quel luogo –  sulle cui ceneri sorge oggi il santuario di Montevergine. È straordinario che questa dualità sia un elemento fondativo dell’identità di quel territorio, di cui il femminiello, né uomo né donna, rappresenta una figura iconica.

Malù: Credo che l’aspetto più sorprendente della cultura partenopea sia la capacità di abbracciare tutte queste apparenti contraddizioni: Napoli è una città che accoglie tutte le diversità. Abbiamo incontrato persone che incarnano perfettamente questa caratteristica, persone che si sentono accolte e ascoltate da Mamma Schiavona e che a loro volta accolgono e ascoltano chiunque sia interessato alla loro storia. Un’apertura verso l’altro che è talmente insita nella tradizione che può resistere a qualsiasi tipo di cambiamento.

Più che un set era una festa, era vita e gente.

Chiara: Sì è vero! Siamo stati accolti da subito come parte della “paranza” (famiglia) e abbiamo vissuto appieno l’atmosfera di festa che caratterizza quel 2 febbraio tanto atteso dalle comunità locali. Uno dei momenti per me più significativi delle riprese è stato quando Marcello Colasurdo ci ha aperto la porta di casa sua, permettendoci di entrare in quell’incredibile mondo caotico, ingombro di reliquie e pieno di vita che era il suo privato. Ci ha fatto il caffè, ci ha raccontato momenti della sua biografia che in parte sono diventati materiale prezioso per il nostro documentario, ha cantato per noi. Di tanto in tanto venivamo interrotti dalla voce di un vicino, qualcuno che passava a trovarlo, a portargli qualcosa in dono, Marcello era lo sciamano della sua comunità. E MalaFede, a qualche mese dalla sua scomparsa, assume per noi ancora più valore, è la sua ultima testimonianza, il ricordo più autentico che abbiamo di lui.

MalaFede
Marcello Colasurdo.

I protagonisti, Marcello Colasurdo e Ciretta, sono molto carismatici. Come avete lavorato con loro e come avete gestito l’essere parte della festa, catturarne i momenti senza turbarne lo svolgimento?

Chiara: Marcello e Ciretta ci sono stati presentati da alcune delle persone con cui avevamo compiuto il pellegrinaggio il primo anno e fin da subito ci è sembrato che incarnassero pienamente lo spirito di MalaFede.   Sono persone da sempre abituate alla visibilità mediatica ma la nostra ricerca voleva andare più in profondità, oltre l’aspetto meramente folkloristico dell’evento religioso “fuori dalle righe” e questo approccio ci ha ripagato. La narrazione sul rapporto tra identità e religione, così ben raccontato da Ciretta, è diventata il filo conduttore della nostra ricerca negli anni. Ci interessava capire come venivano vissute dai fedeli le contraddizioni tra religione e spiritualità, tra la storica apertura all’accoglienza di tutte le diversità connaturata e celebrata in quel territorio e le resistenze di alcuni esponenti dell’istituzione religiosa, avvenute in passato. Come convivono in quel luogo il silenzio solenne del santuario e il ritmo cadenzato delle tammorre, il rito cattolico e quello pagano.

La vostra è stata una regia agile, libera, perfetta per adattarsi a un contesto dinamico e mutevole. Ma è stata anche parte di un lavoro virtuoso, fatto di pazienza e lunghe attese. In cosa sentite di aver investito maggiormente?

Chiara: L’estetica della camera a spalla e l’agilità nel comporre il frame ideale ci hanno permesso di avvicinarci ai nostri soggetti senza compromettere la loro spontaneità. In situazioni come le interviste, abbiamo scelto di evitare l’impiego di fonti di luce, a meno che non fosse strettamente necessario. Questo approccio ha richiesto tempo e pazienza ed è proprio il tempo l’elemento del nostro lavoro in cui abbiamo deciso di investire di più. Il tempo concede una maggiore coscienza nella composizione dell’inquadratura, sempre molto complicata in situazioni caotiche e affollate come il pellegrinaggio e le celebrazioni per la Candelora.

Trovo che sia stato fatto un accurato lavoro narrativo anche al montaggio, tanto è vero che è impossibile non notarne l’armonia compositiva.

Paolo: Il lavoro di montaggio svolto di Giulia Baciocchi è stato l’ultima spinta per la chiusura del progetto. L’intervento e la prospettiva di un occhio competente e esterno a tutto il processo di produzione filmica è stato fondamentale per dare a MalaFede il taglio narrativo che ha oggi. Abbiamo lavorato con lei a distanza, poiché tutti viviamo in città diverse d’Italia e la pandemia rendeva complicato qualsiasi spostamento, quindi ogni incontro, confronto o condivisione doveva avvenire online. Nonostante le difficoltà, Giulia è riuscita a gestire una vasta quantità di materiale, cogliendo pienamente l’idea che avevamo in mente, aggiungendo il suo sguardo, poetico e musicale.

Che progetti avete per il futuro? A cosa state lavorando?

Chiara: MalaFede è la sintesi di un lavoro durato anni, che ci ha condotto in altri luoghi, in altri contesti religiosi e culturali, lungo il fil rouge che per noi è sempre stato il tema del rapporto tra identità, spiritualità e religione. In questo momento abbiamo in cantiere un’idea che è nata proprio durante le riprese di Malafede e che abbraccia le stesse tematiche ma in un contesto socio-culturale diverso, nel Nord Italia. È la storia di Don Franco, sollevato dal suo ministero poiché officiava (e tuttora officia) matrimoni tra coppie omosessuali ed è investito dalla sua comunità di un ruolo di guida spirituale nonostante non sia più formalmente un sacerdote. Parallelamente, tutti e tre portiamo avanti altri progetti: Paolo sta realizzando un documentario su Paolo Olbi, artigiano della carta stampata a Venezia e io mi sto dedicando alla scrittura, alla drammaturgia e alla realizzazione di progetti in teatro. Mentre Marialuisa sta lavorando alla produzione di un documentario d’inchiesta e alla scrittura del suo prossimo progetto documentaristico.

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Kripton, Francesco Munzi racconta le malattie dell’anima https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/kripton-francesco-munzi-racconta-le-malattie-dellanima/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/kripton-francesco-munzi-racconta-le-malattie-dellanima/#respond Tue, 30 Jan 2024 14:33:53 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18937 Kripton racconta la vita quotidiana e insieme extra-ordinaria di un gruppo di ragazzi con problemi psichici all’interno di due comunità nella periferia di Roma. Una vita sospesa in un “difficile mondo” dove l’oscurità governa ma si intravede anche una luce abbagliante che è quella della condivisione e del dialogo. L’abisso mentale dei pensieri troppo veloci, […]

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Kripton racconta la vita quotidiana e insieme extra-ordinaria di un gruppo di ragazzi con problemi psichici all’interno di due comunità nella periferia di Roma. Una vita sospesa in un “difficile mondo” dove l’oscurità governa ma si intravede anche una luce abbagliante che è quella della condivisione e del dialogo. L’abisso mentale dei pensieri troppo veloci, della troppa empatia, delle visioni fantastiche e deliranti, della solitudine, ma anche delle famiglie non aiutate dallo Stato in un post pandemia dove il disagio psichico è aumentato del 30% nei giovani.

Francesco Munzi (Anime nere, Futura) dirige un documentario intimo, delicato, un film necessario e straziante fra domande esistenziali e momenti di profonda verità a cui è impossibile restare indifferenti e in cui è molto facile immedesimarsi. Munzi ci porta su Kripton che “non è remotissimo, ma alquanto remoto è”, un pianeta dove la sensibilità è tantissima, forse troppa, e spesso si vede di più e si sente di più rispetto al pianeta Terra.

Hai detto più volte che fare questo film (distribuito da Zalab) è stato come un salto nel buio, perché in pratica lo avete scritto mentre lo giravate. Ma qual è l’origine di questo documentario? Come arriva l’interesse per la malattia psichica e il disagio mentale? 

È sempre un po’ complicato capire quale sia il motivo per cui si decide di girare un film. Sicuramente io avevo un forte interesse a raccontare personaggi che avessero un contatto con esperienze psichiche estreme e volevo provare a raccontarlo attraverso il cinema. Volevo trasporre sul grande schermo esperienze interiori solitarie e stati d’animo, e per farlo mi sono rivolto a due comunità di Roma che ospitavano ragazzi che avevano fatto questo tipo di esperienze e soffrivano di disagio mentale.

Come sei entrato in queste vite così delicate e intime senza sembrare un estraneo? Come ti sei guadagnato la fiducia dei ragazzi e delle ragazze risultando quasi “invisibile”? 

Una delle cose sorprendenti che abbiamo notato ora che è uscito il documentario è che in realtà dal pubblico viene vissuto come un film di finzione, ha lo stesso coinvolgimento. Questo credo avvenga perché è sì un documentario, ma al centro ci sono le persone e alcuni loro aspetti invisibili, insomma si va in profondità. Anche io sono rimasto sorpreso nel vedere il grado di naturalezza che arriva sullo schermo, e questo credo sia dovuto al fatto che durante le riprese siamo riusciti ad ottenere una grande fiducia, i ragazzi si sono affidati, sono entrati in contatto con noi come persone. Anche l’operatore di macchina Valerio Azzali è entrato in questa dinamica di avvicinamento umano. Sul set eravamo in tre, a volte Valerio era anche da solo. Non avevamo neanche il fonico proprio per evitare qualsiasi cosa che potesse disturbare e distrarre.

Come hai scelto le sei storie da approfondire?

Non è stato facile, è stato uno slalom perché moltissimi centri hanno detto di no, le comunità più lontane dal centro di Roma invece ci hanno dato molta più fiducia. Non so se è stato casuale. I ragazzi sono stati molto generosi e molto coraggiosi, però bisogna anche dire che alla fine l’esperienza del documentario per loro è stata quasi terapeutica, perché rivedendosi sul grande schermo hanno provato un grande beneficio. Per quanto riguarda la scelta, abbiamo privilegiato le storie che davano spazio non solo ai medici ma anche ai famigliari, perché anche questo è un aspetto che volevo raccontare.

Nel tuo film i ragazzi riflettono su argomenti importanti e profondi, dalla solitudine al rapporto fra vero e falso, alla famiglia, ma la cosa che ritorna sempre e che è impossibile non notare è un eccesso di sensibilità nei protagonisti, come se vedessero e sentissero di più.

Quello che ho notato è che questi ragazzi condividono con le persone diciamo “normali” le stesse domande esistenziali, solo che loro rimangono spesso incagliati in certe dinamiche di pensiero. Kripton sta avendo una grande diffusione proprio perchè secondo me il limite fra malattia mentale e normalità non è così definito, e quindi è anche facile immedesimarsi. Per questo sarebbe bello se oltre al suo percorso nelle sale cinematografiche questo documentario diventasse anche uno strumento di discussione per il pubblico ma anche per le scuole, perché i protagonisti sono tutti ragazzi giovani, in particolare Dimitri.

Gli inserti con materiali d’archivio che significato hanno?

 Mentre giravo il film mi sono accorto che avevo bisogno di un contrappunto che andasse in controcanto con l’osservazione e la cronaca del film, qualcosa di più allusivo e evocativo che facesse fare un viaggio di sentimento allo spettatore. Così è arrivata l’idea dei super 8, degli homemovies, usati non in senso narrativo ma associativo e libero una cassa di risonanza per la musica e una trasfigurazione della cronaca.

Uno dei protagonisti del film è Marco Antonio, e qui la parola “protagonista” è perfetta perché lui è l’unico ad essersi posto proprio come attore, inoltre è anche un grande cinefilo. In uno dei suoi monologhi parla di Kripton come fosse il suo pianeta di origine. Perché hai scelto questo come titolo del tuo film? Come se i ragazzi del film fossero veramente originari di un altro pianeta – e in effetti sembra proprio che abbiano dei poteri extra-ordinari…

Kripton, oltre che significare “nascosto” in greco, fa subito pensare a un enigma e ci porta in un mondo sia di fantasia che di delirio, ma comunque sia di mistero. La malattia mentale è qualcosa di doloroso e faticoso, ma è anche un enigma, un mistero appunto. Il tentativo era quello di portare lo spettatore a un contatto ravvicinato – e non con i numeri ma con le persone – con questo tipo di esperienze, di renderle più consuete, di integrarle. L’essere umano può essere anche questo, e con questo film abbiamo provato ad abbattere ancora un po’ di più lo stigma. Perché la strada è quella dell’integrazione contro l’isolamento, ci sono ancora troppa paura e vergogna.

KriptonNel film si parla spesso di oscurità, e qui ce n’è tantissima, però in questo film si vede anche una luce. L’ultima scena, quella con protagonista Benedetta, è struggente e catartica insieme perché riesce a infondere una grandissima idea di speranza. Dove hai trovato la luce in questo luogo?

Già l’idea di poter rappresentare questo mondo per me era qualcosa di virtuoso. Nonostante la fatica e a tratti la disperazione che ho potuto cogliere, la strada non è solo quella di puntare alla guarigione non sempre immediatamente raggiungibile quanto di aprirsi alla condivisione, al dialogo e all’appartenenza e in questo senso Benedetta ne è la dimostrazione, perché inizialmente si faceva riprendere solo da lontano ma poi ha iniziato a fidarsi di noi, si è avvicinata, ci ha parlato, e questo è stato un piccolo miracolo. Lei ci ha fatto questo regalo e ci ha indicato la strada, con una grande naturalezza e normalità.

Ti senti più libero nella realtà (e quindi nel documentario) o nella finzione? Nel tuo prossimo futuro c’è un documentario o un film di finzione? 

Questa è una domanda complicata perché uno può essere libero sia nel documentario sia nella finzione e viceversa. La libertà è più una questione di come ti approcci a ciò che stai per girare, a una storia, e poi naturalmente dipende anche dalla produzione. Il fine dei miei film comunque – anche quando ne faccio uno di finzione – è sempre una sorta di ricerca. A volte parto da un documentario mancato che diventa un film di finzione. Non sono due mondi così separati.

Finzione e realtà, a volte la finzione è più reale del reale… lo dimostra il fatto che Marco Antonio, che non riconosceva più sua sorella né come sua parente né tanto meno come amministratrice di sostegno, dopo aver visto il film ha finalmente ricominciato a darle fiducia e a riconoscerla.

Siamo rimasti tutti stupiti da questa cosa, certo non possiamo avere la certezza che sia davvero legata al documentario ma tutto lo fa pensare. Il film ha permesso a Marco Antonio – così come agli altri – di vedersi dall’esterno e quindi di avere un’altra prospettiva. Non sappiamo quali meccanismi siano scattati ma essersi messi davanti alla macchina da presa equivale a essersi messi in scena e a volte mettersi in scena dà più libertà rispetto al ruolo che ti senti costretto a interpretare nella vita di ogni giorno.

 

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Il true crime non è mai abbastanza https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/il-true-crime-non-e-mai-abbastanza/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/il-true-crime-non-e-mai-abbastanza/#respond Thu, 25 Jan 2024 15:56:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18925 Al confine tra letteratura e giornalismo, tra narrazione e inchiesta, nel giro di pochi anni il true crime è diventato uno dei territori narrativi più interessanti della cultura pop contemporanea. Secondo i dati dell’Osservatorio Agicom la cronaca nera è il tema più trattato dalle pagine social e dalle testate giornalistiche. Se da un lato consumiamo […]

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Al confine tra letteratura e giornalismo, tra narrazione e inchiesta, nel giro di pochi anni il true crime è diventato uno dei territori narrativi più interessanti della cultura pop contemporanea.

Secondo i dati dell’Osservatorio Agicom la cronaca nera è il tema più trattato dalle pagine social e dalle testate giornalistiche. Se da un lato consumiamo ossessivamente queste storie, dall’altro siamo stressati dai contenuti violenti che digeriamo senza elaborarli, vittime della compassion fatigue. Ma nel true crime invece li elaboriamo, lasciamo entrare il male e lo interroghiamo, lo osserviamo da una distanza di sicurezza mediato da altri. Non si è mai trattato di un genere uniforme, il tono poteva variare dal sensazionalista allo spirituale fino al didattico, ma nonostante i penny dreadful e i tascabili dalle copertine schizzate di sangue, l’ideatore riconosciuto del true crime è Truman Capote, autore di A sangue freddo (1966), il resoconto del quadruplice omicidio della famiglia Clutter nel Kansas del 1959. E pensare che per gli scrittori e i critici dell’epoca era uno scandalo che uno scrittore serio si dedicasse a un romanzo-verità, a quello che Norman Mailer definì un «fallimento dell’immaginazione». Tuttavia il true crime vero e proprio – che combina il racconto di un omicidio con la ricostruzione di tipo investigativo – nasce e si sviluppa con il giornalismo moderno e in parallelo con i progressi nell’ambito della scienza forense.

Con l’arrivo in televisione il genere raggiunge picchi mai visti prima, in Italia con Chi l’ha visto? o Storie maledette di Franca Leosini, virali anche sui social, per approdare poi sui nuovi media: podcast, videocast, docu-serie e serie tv. L’onda d’interesse parte tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti con il podcast Serial della giornalista Sarah König e con la serie Making a Murderer di Netflix. Verso il 2017 arriva sui nuovi media italiani anche grazie al giornalista Pablo Trincia con il suo Veleno, il podcast sul caso dei “diavoli della Bassa modenese” e più di recente con Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps prodotto da Chora Media per Sky e SkyTg24. Sono tanti i giornalisti e scrittori rinomati a essersi lanciati sulle piattaforme audio, come Stefano Nazzi, scrittore ideatore e voce indimenticabile di Indagini de Il Post e autore de Il volto del male (Mondadori, 2023). La passione per il genere ha attirato anche moltissimi creator su piattaforme come Youtube e Twitch, dove la più ascoltata (e vista) è Elisa De Marco, nota come Elisa True Crime. Non restano indietro le piattaforme VOD, con docufilm e docuserie incentrare su casi di crimine realmente accaduti in Italia, come Vatical Girl – La scomparsa di Emanuela Orlandi di Mark Lewis.

Ogni cultura ha le proprie storie di crimini e misteri irrisolti, così i contenuti rispettano perfettamente la formula glocal del successo targato Netflix, non  a caso la piattaforma più attiva nella produzione e distribuzione di questo genere. Dopo tanti casi americani arrivano infatti anche quelli italiani come Marta – Il delitto della Sapienza, diretto da Simone Manetti, sulla studentessa di giurisprudenza uccisa il 9 maggio 1997. Il regista stesso ci ha raccontato la sua esperienza: «È un progetto che mi ha profondamente coinvolto sin dall’inizio. La vicenda affrontava temi complessi, portando con se un dibattito che non si è mai spento, nonostante i molti anni trascorsi dal fatto e dalla chiusura giuridica. Per me un aspetto fondamentale, non solo in questo documentario ma in tutti quelli che dirigo, è mantenere un approccio “atesico” alla narrazione. Questo significa che non prendo parte alla discussione ma cerco di riportare lo spettatore al tempo degli accadimenti per farglieli rivivere come furono vissuti all’epoca rispettando, chiaramente, la verità processuale». Secondo Manetti siamo ben lontani dall’aver raggiunto la saturazione dei contenuti: «Il true crime sembra godere di una popolarità duratura grazie alla sua intrinseca capacità di coinvolgere il pubblico con storie reali affascinanti. La diversità di sottogeneri e la continua evoluzione della narrazione contribuiscono a mantenerlo vivo».

Secondo il giornalista e autore Stefano Nazzi l’interesse per il true crime è sempre esistito: «Cerchiamo di capire e contestualizzare ciò che non capiamo, che ci appare lontano da noi ma ci accorgiamo fare invece parte del mondo. Riuscire a inquadrare un fatto orribile ci aiuta forse a sentirci più uniti e ad averne meno paura». Nel suo libro Il volto del male Nazzi ha trattato in modo analitico e mai banale molti casi di cronaca: «Il male ha molti volti, con un tratto che unisce: le persone che fanno male ad altre persone si sentono solitamente al di sopra degli altri, vedono loro stessi al centro di tutto, il resto dell’umanità è per loro senza valore». Per Elisa De Marco ci interessano «le ragioni che spingono persone “strutturalmente” uguali a noi a commettere delle azioni socialmente impensabili, orribili. La violenza domestica, le relazioni tossiche o abusanti sono questioni diffuse, ma di cui spesso si fa fatica a parlare. Credo che l’interesse nasca proprio lì, cerchiamo un modo per capire, per essere a nostra volta più consapevoli».

Il podcast si conferma uno degli strumenti più amati per gli amanti del true crime. Per Stefano Nazzi «consente di raccontare le storie coinvolgendo chi ascolta grazie alle musiche, al tono della voce, alle pause anche mentre fa altre cose».

true crimeSpesso l’attenzione del pubblico è del tutto focalizzata sulla persona che commette il crimine, soprattutto nel caso dei serial killer: ci si concentra sul loro passato, sul modus operandi e sul fascino che alcuni di loro hanno saputo esercitare durante le indagini e i processi. Non a caso uno dei rischi principali di chi tratta il genere come storyteller è la romanticizzazione del crimine e la mitizzazione dell’assassino, come è accaduto nel caso di Jeffrey Dahmer dopo la serie di Ryan Murphy per Netflix. Ma la vicenda del Cannibale di Milwaukee ha portato anche a una riflessione razziale, sull’impunità che gli è stata a lungo garantita dall’essere bianco e benestante. Analogamente al criminale per cui il mondo dell’intrattenimento ha sfiorato l’ossessione, Ted Bundy, interpretato tra gli altri da Zac Efron nel film Ted Bundy – Fascino criminale, che puntava l’accento su quanto il serial killer fosse di bell’aspetto.

Tutti i nostri intervistati non hanno dubbi, tra gli errori peggiori c’è il sensazionalismo, come spiega Stefano Nazzi: «Il racconto della cronaca è spesso spettacolarizzato, carico di giudizi e del tentativo artificiale di suscitare emozioni quando dovrebbe essere invece il fatto in sé, nella sua crudezza, a suscitare emozioni». Il sensazionalismo è un meccanismo di forzatura emotiva, concorda Simone Manetti, e prosegue la riflessione sulla pericolosità di questo approccio che «può sfociare nella “pornografia del dolore”, ovvero sfruttare il dolore delle vittime a fini di solo intrattenimento. Talvolta si può cadere nell’enfatizzazione del colpevole, trascurando le storie delle vittime. Per evitarlo, bisogna mantenere un approccio equilibrato, rispettoso e imparziale tramite una rigorosa ricerca dei fatti, il coinvolgimento delle vittime quando possibile e la presentazione delle storie in modo che il pubblico possa formarsi le proprie opinioni». Per queste ragioni la verifica dei fatti e il rispetto devono essere al centro del lavoro, spiega Elisa De Marco: «È importante tenere a mente che le storie che si raccontano non sono le nostre, e per questo vanno trattate con il massimo del rispetto e delicatezza. Tutti possiamo commettere degli sbagli nella ricerca delle informazioni, a me per prima è capitato, proprio per questo cerchiamo sempre di verificarle al massimo delle nostre possibilità». Anche Simone Manetti si è avvalso delle testimonianze delle persone coinvolte: «Ho sempre realizzato lavori nei quali erano presenti le varie parti chiamate in causa e insieme a loro ho costruito il racconto e la narrazione. Non ho mai preso un “dolore” per farne un film senza il permesso di chi l’ha provato e sperimentato sulla propria anima».

Ed è proprio il “come” l’aspetto cruciale in Only murders in the building, la fortunata serie targata Disney creata da John Hoffman e Steve Martin protagonista con Martin Short e Selena Gomez: i tre personaggi principali sembrano non avere niente in comune se non il fatto di abitare all’Arconia, un palazzo dell’Upper West Side di New York. Presto i tre scoprono di essere tutti fan di un podcast true crime All Is Not Ok in Oklahoma e il ritrovamento di un cadavere proprio all’Arconia dà il via alle indagini e li rende protagonisti del proprio podcast: Only murders in the building. Charles-Haden Savage (Steve Martin) a un certo punto dice «Ogni storia true crime è reale per qualcuno», sintetizzando l’approccio della serie, una comedy venata di mistero che intercetta con leggerezza e lucidità le problematiche insite in un fenomeno che da tempo attraversa in maniera trasversale il mondo dell’entertainment. Disney ha compiuto un passo ulteriore nell’evoluzione del true crime anche grazie alla nuova politica glocal, con nuove produzioni ancorate al territorio italiano, come nel caso di Avetrana – Qui non è Hollywood di Pippo Mezzapesa, coprodotto da Groenlandia e in uscita nei primi mesi del 2024. Infatti la richiesta – e quindi l’offerta – di contenuti cresce anche da noi: il primo novembre è arrivato Sky Crime, in collaborazione con A+E Networks Italia. Roberto Pisoni, Sky Entertainment Content and Channels Senior Director, spiega: «Il true crime è un genere in crescita costante che attrae un pubblico trasversale con podcast, programmi televisivi e serie documentarie di grande successo, perché da una parte rilegge episodi della memoria collettiva con testimonianze nuove, rivelazioni o semplicemente rimettendo in fila i fatti e dall’altra rianalizza i possibili errori nelle indagini o gli esiti giudiziari dubbi. Ci illude di poter trovare finalmente una soluzione per i casi irrisolti o evidentemente ambigui e talvolta lo fa davvero. E poi è un genere ibrido in cui sono ricostruiti e documentati fatti di cronaca reali ma che possono essere narrati con un’efficace dose di drammatizzazione».

In definitiva, superata l’indagine televisiva di bassa qualità, con l’evolversi dei contenitori e dell’attenzione al tema si è evoluto anche il contenuto e soprattutto sono cambiate le modalità con cui il true crime viene narrato, alzando di molto il valore di un prodotto che – con buona pace di una critica – si è fatto sofisticato. A tal punto da essere degno di analisi dai parte dei teorici dei new media, per cui il fascino della cronaca nera risiede anche nella capacità di mostrarci un male diffuso concentrato in un solo evento, mentre la violenza sistemica di solito fa meno notizia di un crimine efferato.

Come scrive Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare, se è vero che le storie ci aiutano a evadere dal quotidiano, le storie dell’orrore ci piacciono perché ci mettono di fronte a una serie di paure e pericoli che possiamo vivere a distanza di sicurezza.  D’altro canto, la massificazione del fenomeno ha portato con sé anche un pubblico più vasto e variegato: che sia interesse per il macabro, curiosità, senso di verità e giustizia o un modo per imparare a cogliere i segnali di pericolo, la maggior parte dei fruitori trova nel true crime un effetto catartico. Secondo le statistiche il crescente interesse del pubblico femminile può essere letto proprio in quest’ottica, ma anche come desiderio di riappropriarsi delle storie in cui le donne sono sempre state oggetti e (quasi) mai soggetti.

Ed è così anche per l’occhio investigativo di Rebecca Makkai, da noi conosciuta per I grandi sognatori (Einaudi, 2021), romanzo finalista al premio Pulitzer, che nella sua nuova suspense novel I Have Some Questions for You (2023 – inedita in Italia) si confronta proprio con l’ossessione per il true crime. L’autrice riflette su alcuni temi etici, come il rischio di oggettivare le vittime soprattutto se sono giovani, bianche e carine. L’ultima riflessione non è nuova, ne ha scritto già Alice Bolin in Dead Girls: Essays on Surviving an American Obsession (2018), mettendo in luce il mito moderno del Dead Girl Show in cui un detective sviluppa il proprio personaggio grazie al sacrificio della vittima perfetta: una donna silente che si fa terreno neutrale e muto innesco della storia. Makkai nel suo romanzo ironizza su un gruppo di dipendenti dal true crime: la sua protagonista è diretta al suo ex college dove terrà un corso sul podcasting. Makkai sceglie un approccio grandangolare e si chiede: può il true crime essere etico? Arrivati alla pagina finale tutte le opzioni restano aperte. È il delitto perfetto, quello in cui alla fine è il lettore (o lo spettatore) ad avere in mano il coltello.

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Eliana Albertini, atmosfera di provincia e comicità https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/eliana-albertini-atmosfera-di-provincia-e-comicita/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/eliana-albertini-atmosfera-di-provincia-e-comicita/#respond Wed, 10 Jan 2024 14:37:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18894 La vita e le atmosfere di provincia, il Delta del Po, la pianura e i suoi silenzi, ma anche – con La vita della mia ex per come la immagino io, l’ultimo fumetto disegnato su sceneggiatura di Gero Arnone e pubblicato da Minimum Fax – una inaspettata capacità comica. Sono gli ingredienti dei fumetti e […]

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La vita e le atmosfere di provincia, il Delta del Po, la pianura e i suoi silenzi, ma anche – con La vita della mia ex per come la immagino io, l’ultimo fumetto disegnato su sceneggiatura di Gero Arnone e pubblicato da Minimum Fax – una inaspettata capacità comica. Sono gli ingredienti dei fumetti e delle illustrazioni di Eliana Albertini, un’autrice che nel giro di pochi anni si è costruita un segno personale e maturo, sperimentando con i generi e le possibilità della “nona arte”.

Mi colpisce come nei tuoi fumetti – da Malibu (BeccoGiallo, 2019)  a Anche le cose hanno bisogno (Rizzoli Lizard, 2022) – ci sia, esplicito o più in sottotraccia, un grande spazio dato al microcosmo della provincia fatto di grandi pianure, esperienze di crescita, ma anche violenza, diffidenza se non esplicito razzismo. Questa presenza dipende solo dal fatto che è un ambiente che conosci bene o ha anche un valore narrativo in senso più ampio?
È principalmente un ambiente che conosco bene e che ho usato come base per capire su cosa fondare i miei fumetti. Infatti hanno cominciato davvero a piacermi proprio quando ho iniziato a pensarli attingendo dal mio personale background provinciale. All’epoca ancora non si erano diffuse le storie che parlano di provincia e sinceramente non mi sembrava per niente una figata raccontarla. L’Accademia mi è servita anche per capirne il valore narrativo: non so se ci sarei arrivata da sola o almeno non so se ci sarei arrivata in così poco tempo, considerando che partivo quasi da zero. Realizzare quei fumetti (soprattutto Malibu, il primo) per me è stato davvero necessario per mettere insieme tutto: la vita, il fumetto, la scrittura, le storie che mi interessavano e in cui riuscivo a riconoscermi.

Hai detto che lo spunto per Anche le cose hanno bisogno è nato dalle lunghe passeggiate durante il lockdown.
In quel periodo, come tutti credo, cercavo di far passare le giornate e fra le poche cose consentite per fortuna c’erano le passeggiate. Stavo nel mio paesino di origine per cui era abbastanza facile sforare i 200 metri concessi dalla legge: da questo gravissimo reato come prima cosa è nato passeggiatine, un librino autoprodotto che raccoglie foto e pensieri proprio di quelle specifiche passeggiate. Nel frattempo stavo leggendo Underworld di DeLillo e riflettendo sull’idea per un nuovo libro. Anche le cose hanno bisogno quindi è nato da una lunga operazione: le passeggiate, le cose che raccoglievo da terra durante queste passeggiate e il tema ricorrente dell’immondizia che fa da sottotraccia in Underworld. Da tutto questo ho voluto togliere solo il lockdown.

Eliana AlbertiniAnche nei tuoi dipinti mi pare che emerga l’attenzione alla provincia, agli oggetti e a una sorta di silenzio e di vuoto nel quale quasi manca la presenza umana. In certe composizioni, così come in alcune tavole dei fumetti, emergono forse le atmosfere di due grandi osservatori della pianura come Luigi Ghirri o Gianni Celati. È così? Quali sono i tuoi riferimenti visivi e narrativi?

Sicuramente sono stati e sono due punti di riferimento. Quando li ho scoperti ho capito per la prima volta quanto si potesse entrare dentro il lavoro di un’altra persona. Mi attira tutto ciò che parla di silenzio, incomunicabilità, interstizi, infatti da più giovane mi piacevano molto le opere di Edward Hopper, David Hockney, Stephen Shore e in seguito mi sono buttata nella letteratura americana (DeLillo, Roth, Franzen). Anche loro rappresentano in un qualche modo il silenzio, ma Ghirri e Celati ne mettono in scena uno che mi fa dire “lì c’ero anche io”.

Con la storia breve La salamandra hai partecipato alla raccolta A.M.A.R.E. per Canicola. Di recente è uscito anche il libro autoprodotto Povere Puttane Vol.3. Come vivi questa esperienza di condivisione editoriale? È uno stimolo per te collaborare con autrici vicine per sensibilità?
È stato fondamentale per me anche per uscire da quel silenzio in cui spesso mi sono ritrovata, per caso o per scelta. La collaborazione e la condivisione non rappresenta per me la condizione naturale per produrre, per cui mi sono sempre cercata degli spazi in cui farlo senza sentirmi oppressa. La prima esperienza è stata “Blanca”, nel 2014, un collettivo che ho fondato con Martina Tonello, Irene Coletto e Noemi Vola, e credo sia stato un buon modo per imparare a muovermi in questo settore insieme a una squadra. Ho capito che se non c’è gioco non mi piace, se assomiglia troppo a un lavoro tendo a perdere interesse. A.M.A.R.E. invece mi ha dato la possibilità di sperimentare un tipo di storia che fino a quel momento non avevo mai provato, e le Povere Puttane (Martina Sarritzu e Giulia Cellino) a usare gli esperimenti di vita per farne delle storie.

In La vita della mia ex per come la immagino io c’è un vero cambio di registro, visto che nel libro entra e con un ruolo centrale l’elemento della comicità. Inoltre hai disegnato su sceneggiatura non tua ma di Gero Arnone. Come è nato il progetto e cosa ha significato per te?
Il progetto è nato in casa Minimum Fax che ha in primo luogo incaricato Gero di scrivere un libro a fumetti (prima esperienza anche per lui). Mi è stato proposto di prendere parte al progetto successivamente: all’inizio non mi era ancora ben chiaro di cosa si trattasse, ma solo per il fatto che sarebbe stato un libro comico in cui avrei avuto spazio di manovra ho accettato. È un registro narrativo che mi piace moltissimo e mai sarei riuscita a farlo da sola, in più ero già fan della comicità di Gero. Non avevamo davvero idea di cosa potesse realmente uscire fuori, ma di sicuro non pensavamo a niente meglio di così. Dal mio punto di vista è stato divertente e stimolante, cosa che mai avrei pensato del lavorare con uno sceneggiatore. Mi piace fare cose diverse e questo libro è diverso in ogni pagina: è un concentrato di situazioni al limite che si disinnescano poco prima di esplodere, fino all’esplosione finale. Per questo motivo pensavamo potesse suscitare qualche polemica, e invece è stato accolto piuttosto bene, al punto da andare in ristampa dopo poco tempo.

Cosa puoi dirci dei tuoi progetti in corso?
Proprio per il fatto che non amo ripetermi ora sto provando a cimentarmi in qualcosa di nuovo: un libro illustrato, di quelli che in terza media pensavo di voler disegnare per tutta la vita. Ci provo ora dopo dieci anni di soli fumetti!

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L’AI Act riuscirà davvero a tutelare il diritto d’autore e d’immagine? https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/lai-act-riuscira-davvero-a-tutelare-il-diritto-dautore-e-dimmagine/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/lai-act-riuscira-davvero-a-tutelare-il-diritto-dautore-e-dimmagine/#respond Wed, 29 Nov 2023 09:23:34 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18851 L’AI Act, il regolamento europeo che dovrebbe disciplinare l’intelligenza artificiale, riuscirà davvero a tutelare il diritto d’autore e d’immagine? I dubbi non sono pochi. È di poco tempo fa la notizia che, secondo il Collins Dictionary, la parola più significativa del 2023 è AI. Anche nel settore cinematografico, sono pochissimi i dubbi che, in un’immaginaria […]

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L’AI Act, il regolamento europeo che dovrebbe disciplinare l’intelligenza artificiale, riuscirà davvero a tutelare il diritto d’autore e d’immagine? I dubbi non sono pochi.

È di poco tempo fa la notizia che, secondo il Collins Dictionary, la parola più significativa del 2023 è AI. Anche nel settore cinematografico, sono pochissimi i dubbi che, in un’immaginaria top ten dei temi più “caldi” dell’anno, vi siano le tecnologie di intelligenza artificiale.

Del resto, un evento che ha recentemente monopolizzato l’attenzione dei media è stato lo sciopero degli sceneggiatori, che ha paralizzato l’industria per interi mesi: una manifestazione compatta, dura, come non se ne vedevano da decenni, che ha portato la Writers Guild of America a siglare un accordo con la Alliance of Motion Picture and Television Producers, associazione rappresentativa di produttori cinematografici e televisivi. E qual era uno dei principali terreni di scontro della protesta se non i rischi connessi all’intelligenza artificiale e alla forte contrazione delle opportunità e delle condizioni di lavoro di attori e sceneggiatori? Un’impresa storica, che ha confermato che solo uniti si può difendere gli interessi della categoria e, soprattutto, dei lavoratori più esposti. Però, a ben vedere, sebbene il fronte sia stato compatto, non mancano le crepe.

Infatti, un’altra notizia che ha catturato l’interesse dei lettori è il deaging di Harrison Ford nell’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones, Il quadrante del destino, realizzato per mezzo di un complesso di tecnologie, tra cui un dispositivo che aveva “imparato”, con un processo di machine learning, le espressioni del volto dell’attore, generando poi le sue facce con un ringiovanimento di oltre quarant’anni. Ford, infatti, ha 81 anni nella realtà, ma solo 35 nei primi minuti del film e tutto questo senza dover ricorrere ad altri attori, come nel passato, ma riproducendo le sue immagini con una sorta di lifting partorito dall’intelligenza artificiale. Un deciso passo in avanti rispetto a tecnologie analoghe, di cui si era fatto uso nel recente passato, ad esempio in The Irishman, dove erano state adoperati raggi infrarossi e grafica computerizzata.

Uno scenario distopico, perché, se abbandoniamo il tecno-entusiasmo che troppe volte vizia con la novità la nostra percezione, non possiamo non notare che una casa di produzione, acquistando i diritti di immagine di un attore, potrebbe ricreare una recitazione infinita, anche al di là della vita biologica dell’attore stesso. Un bel risparmio di spesa per chi investe nel cinema, ma, se si ribalta la prospettiva, una svendita dei diritti degli attori e degli altri operatori del mondo del cinema. Come possiamo arginare questa deriva?

In tanti intravedono nell’emanando AI Act, il regolamento europeo che dovrebbe disciplinare l’intelligenza artificiale, la panacea per ogni preoccupazione. Eppure, se qualcuno si prendesse la briga di passare in rassegna gli 85 articoli del testo legislativo, non ancora approvato in via definitiva, constaterebbe che non esiste una singola disposizione sul diritto d’autore o sui diritti di immagine. Certo, nella sua ultima versione, l’AI Act prevede l’obbligo, per chi utilizza queste tecnologie, di palesare le modalità con cui è stata “allenato” il sistema: quindi, bisognerebbe rendere trasparenti le fonti, rivelando testi, immagini, suoni che hanno educato il sistema di intelligenza artificiale, rendendolo capace di generare nuovi contenuti.

Una risposta però ancora insoddisfacente, se poi si riflette sulla circostanza che siamo al cospetto di una semplice utilizzazione di contenuti e non – in termini giuridici – di una riproduzione, tutelabile dalle regole del diritto d’autore. Difatti, l’art. 3 e (soprattutto) l’art. 4 della Direttiva copyright del 2019 consentono di utilizzare i contenuti legalmente accessibili: si tratta dell’eccezione di text and data mining, che dovrebbe consentire di “nutrire” i sistemi di intelligenza artificiale, in sede di progettazione, con migliaia di contenuti ottenuti scandagliando in rete o riprendendo dalle opere del passato. Il par. 3 dell’art. 4, però, esclude le opere il cui utilizzo non sia stato espressamente riservato “attraverso strumenti che consentano lettura automatizzata”, ma, allo stato, non vi è alcuna certezza sull’ambito di applicazione di tale regola.

Cosa si intende per lettura automatizzata? L’apposizione del simbolo © in calce ad un contenuto (es. una sceneggiatura, un articolo o una canzone) è sufficiente a bloccare (da un punto di vista legale) la pesca a strascico delle tecnologie dell’intelligenza artificiale? E, ancora, le finalità dell’allenamento delle macchine dovrebbero essere limitate all’ambito della ricerca o si estendono anche a successive utilizzazioni commerciali?

Last but not least, chi può essere considerato l’autore di una sceneggiatura creata da un’intelligenza artificiale generativa? Chi possiede o ha istruito la tecnologia? Chi immette le chiavi di ricerca per generare un nuovo testo? Anche su questo, l’incertezza regna sovrana. Affidarsi alle sole regole giuridiche per frenare l’incedere della tecnologia è un po’ come tentare di svuotare il mare con un secchiello. Il diritto è lento, fotografa il presente e difficilmente riesce a prevedere compiutamente il futuro.

Non si vuol negare che un intervento legislativo sia necessario, per fare chiarezza in un campo nel quale in tanti si stanno arricchendo, creando nuovi monopoli delle informazioni, sfruttando il lavoro di altri. Però, da sola, la legge non basta. Serve la consapevolezza della forza data dall’unione di tutti i lavoratori della cultura (in un tempo lontano, si sarebbe parlato di una coscienza di classe).

L’esperienza di Los Angeles e degli studios di Hollywood insegna che non dobbiamo attendere una legge, che potrebbe intervenire quando oramai i giochi sono fatti. Servono accordi sindacali e di categoria, qualcosa che impedisca di ridurre iniquamente il costo del lavoro: non a caso, la WGA ha ottenuto non solo che non sia attribuito valore creativo alle sceneggiature scritte con l’intelligenza artificiale generativa, ma anche che non possano essere negoziati accordi che consentano alle case di produzione di ridurre i compensi degli sceneggiatori che lavorano su bozze realizzate per mezzo dell’AI. Un passo importante, che dimostra che non tutto è perduto se si è uniti nelle rivendicazioni.

*Professore ordinario di diritto comparato, Socio dello Studio Legale E-Lex

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Seydou Sarr: Garrone mi ha mostrato qualcosa di me che non conoscevo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/seydou-sarr-garrone-mi-ha-mostrato-qualcosa-di-me-che-non-conoscevo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/seydou-sarr-garrone-mi-ha-mostrato-qualcosa-di-me-che-non-conoscevo/#respond Tue, 28 Nov 2023 09:13:43 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18837 Leone d’argento a Venezia 80 e Premio Mastroianni all’attore protagonista: se Io Capitano è stato uno dei casi cinematografici di quest’anno, al pari Seydou Sarr è stata una scoperta davvero inattesa. È a lui che dedichiamo la nuova cover Fabrique du Cinéma, giovane senegalese scelto da Matteo Garrone per raccontare l’epica della migrazione senza morbosità, […]

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Leone d’argento a Venezia 80 e Premio Mastroianni all’attore protagonista: se Io Capitano è stato uno dei casi cinematografici di quest’anno, al pari Seydou Sarr è stata una scoperta davvero inattesa.

È a lui che dedichiamo la nuova cover Fabrique du Cinéma, giovane senegalese scelto da Matteo Garrone per raccontare l’epica della migrazione senza morbosità, senza distorsioni voyeuristiche e senza rincorrere un messaggio ad ogni costo. Ha sempre sognato il calcio: il grande cinema è arrivato per caso, presentandosi ai casting del film organizzati a Thiès, a un’ora e mezza da Dakar. La storia di Seydou è incredibilmente simile a quella del suo personaggio: e proprio come lui, su quello che arriverà dopo rimane un’affascinante incognita. Nel frattempo ci racconta il viaggio.

Seydou, partiamo dal provino per il film: come ti sei preparato? Avevi capito realmente cosa stavi andando a fare?

No, davvero non lo sapevo cosa stavo andando a fare, perché c’erano tante altre persone, credo più di cento. Mia sorella mi ha accompagnato e mi ha aiutato molto a sostenere l’audizione.

Quanto è durato il viaggio di Seydou Sarr insieme a questo personaggio che ha il suo stesso nome? La preparazione, lo studio, le riprese?
Direi che in tutto è durato più o meno tre mesi: quando eravamo in Senegal la

situazione era più tranquilla, ma la parte più complessa è iniziata in Marocco: lì è stato davvero difficile, c’erano molte emozioni che dovevo esprimere. Quanto alla preparazione, a essere sinceri non ne ho avuto il tempo, perché era la mia prima volta su un set e non sapevo cosa mi aspettava.

Cosa sapevi dell’Italia prima di questo film? Condividevi le vere e durissime avvertenze che la madre di Seydou dà al figlio?

A dire il vero dell’Italia non sapevo granché, perché il mio sogno era andare in Europa. Per quanto riguarda gli ammonimenti della madre a Seydou, è giusto che lei glieli abbia dati, è sua madre, ma non possono trattenerlo. Lui vuole aiutare la famiglia, e alla fine ci riuscirà. Ecco, io penso che Seydou abbia ragione a non ascoltare la madre, perché non può restare a casa senza fare nulla, anche se realizzare il suo desiderio sarà tutt’altro che facile.

Tu invece hai vissuto per diversi mesi a casa della mamma di Matteo Garrone. È un aneddoto curioso. Come è successo?

Sì, è vero, sono stato da lei per quasi un anno. È successo quando avevamo finito le riprese ed ero tornato in Senegal: poi però mi è stato detto che dovevamo girare una nuova scena in Italia con Moustapha [Moustapha Fall, che nel film interpreta Moussa, il cugino di Seydou ndr], e le riprese avrebbero richiesto altri quattro giorni. Mi sono detto che non sarei rimasto in Italia solo per quattro giorni. Così ho chiamato Matteo per dirgli che mi sarebbe piaciuto prolungare il mio soggiorno e lui mi ha invitato ad andare a casa della madre.

Hai vinto il Premio Mastroianni come Miglior attore emergente: Mastroianni è un’istituzione, rappresenta la grande storia del cinema. Tu fino a poco fa sognavi il calcio.

Quando ho ricevuto il premio a Venezia ero davvero contento e fiero. Se ora avrò la possibilità di continuare con il cinema lo farò, perché il modo in cui Matteo ha lavorato con noi mi ha permesso di capire che c’era qualcosa che dormiva in me da molto tempo e che non conoscevo. Ma anche il calcio non lo lascerò, perché è sempre stato il mio sogno.

Qual è l’immagine o la scena del film che ti colpisce di più, ogni volta che lo guardi?

Sicuramente è la scena in cui una signora anziana doveva morire tra le mie braccia durante la traversata del deserto. Anche mio padre è morto tra le mie braccia: di colpo non vedevo più la signora, vedevo mio padre, ed è stato un momento difficile.

Hai paura di quello che succederà dopo? Dopo il film, dopo Garrone, dopo gli Oscar, dopo un debutto così inaspettato e fortunato?

No, non ho paura. Perché se avrò la possibilità di continuare con il cinema, lo farò, altrimenti farò qualcos’altro. Per me non esistono lavori di serie B.

Fotografa Roberta Krasnig, assistente Davide Valente; Stylist Flavia Liberatori, assistente Vittoria Pallini; Hairstylist Adriano Cocciarelli per Harumi; Makeup Iman El Feshawy; Abiti Paul Smith, Fendi, Sandro

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Tech femminismo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/tech-femminismo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/tech-femminismo/#respond Wed, 22 Nov 2023 18:08:46 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18814 Riappropriarsi delle regole del gioco di tecnologia e intelligenza artificiale: è la parola d’ordine del nuovo femminismo, che non vuole più lasciare la palla solo agli uomini. Partiamo da Teknolust, profetico film del 2002 di Lynn Hershman Leeson con Tilda Swinton: è un’utopia sci-fi di come le cose dovrebbero essere se alle donne fosse stato […]

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Riappropriarsi delle regole del gioco di tecnologia e intelligenza artificiale: è la parola d’ordine del nuovo femminismo, che non vuole più lasciare la palla solo agli uomini.

Partiamo da Teknolust, profetico film del 2002 di Lynn Hershman Leeson con Tilda Swinton: è un’utopia sci-fi di come le cose dovrebbero essere se alle donne fosse stato riconosciuto da sempre un rapporto alla pari con scienza e tecnologia (secondo dati Istat del 2021, in Italia si laurea presso Facoltà scientifiche solo il 16,5 delle studentesse, contro il 37% degli studenti).

Teknolust non fa mistero di giocare sulla prospettiva ribaltata: nel mondo della sua protagonista, la scienziata Rosetta Stone (Swinton), gli elettrodomestici nascondono futuristici dispositivi di calcolo e comunicazione, e l’obiettivo delle giornate è uno solo: creare la vita prescindendo dall’apporto dei maschi. Per Stone, questo significa creare robot senzienti “infusi” di vita dal suo stesso DNA. Di conseguenza, non solo le saranno biologicamente, ma anche fenotipicamente identici. I nomi delle prime “figlie” sono Ruby, Olive e Marinne, tutte interpretate da Swinton. Confinate in casa, ma impazienti di mettere il naso là fuori. Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di un nutriente particolare: il cromosoma Y contenuto nel genoma degli uomini. Per procurarselo c’è solo una strada: uscire dal nido, sedurli in un rapporto sessuale, e portare a casa il bottino.

Con Teknolust Herman non si muove nel vuoto, ma si lega a una riflessione cominciata con i movimenti post-umanisti e, specialmente, nell’alveo di un femminismo che si avvia al suo periodo tardo e che, pur non dichiarandosi intersezionale, di fatto ne anticipa alcuni assunti di base. Il testo canonicamente indicato come apripista di questo cambiamento è il Manifesto Cyborg di Donna Haraway: pubblicato per la prima volta sulla Socialist Review nel 1985, il Manifesto rivendica una visione complessa dell’identità e dunque del ruolo sociale dell’individuo, non riconducibile alle dualità di pensiero (“maschio” contro “femmina”) proposte dalla società occidentale e patriarcale. Siamo tutti assemblati di pezzi diversi, tutti cyborg o Creature (Shelley scrive che le membra del “mostro” provengono da corpi diversi, poi ricucite insieme) e la strada procede sull’individuazione dei punti di comunità e non, come nella prima ondata di femminismo, delle differenze. Come scrive Helen Hester in Xenofemminismo (NERO, 2018), «Manifesto Cyborg è stata un’espressione precoce dell’appello a generare parentele. […] Le basi per le nostre coalizioni strategiche più produttive potrebbero non risiedere nel nostro DNA». Memori della lezione di Michela Murgia, vogliamo aggiungere un complemento di specificazione: parentele d’anima, affinità elettive. Senza il bisogno di riprodurci con un cromosoma Y di mezzo.

Teknolust
Tilda Swinton in “Teknolust”.

C’è di più. Tanto il pensiero cyborg che lo xenofemminismo (una delle ultime evoluzioni del post-femminismo e transfemminismo) invocano un recupero del rapporto uno-a-uno con la tecnologia nella sua accezione più vasta: un mezzo, mai un fine, per modificare le persone e la loro relazione con l’identità e il contesto sociopolitico. Storicamente infatti, dicendola con il sottotitolo del saggio Gender Tech (Editori Laterza, 2023) di Laura Tripaldi (scienziata e scrittrice, PhD in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali), la tecnologia ha controllato il corpo delle donne, relegandole in ruoli preconfezionati e sempre soggetti alla volontà di colonizzazione maschile rifrasata come “indagine scientifica”, spesso medica. Scrive Tripaldi: «Le violenze operate dalla medicina sui corpi femminili […] non sono soltanto una macchia indelebile nel rapporto delle donne con il sapere tecno-scientifico. Sono anche, e soprattutto, l’inizio di una nuova forma di controllo tecnologico sui corpi, destinato a svilupparsi […] attraverso il Novecento in forme sempre più sottili e invisibili». […]

Di queste tecnologie, come la contraccezione ormonale, che promette non solo protezione da gravidanze indesiderate ma anche salvezza da tutti gli “squilibri” e i “guai” dell’essere donna, si dice che “è ciò che vogliono le donne”. Peccato che, come spiega Tripaldi, siano state inventate da un uomo, e che la situazione non migliori nemmeno nei trial medici per farmaci di uso comune, viziati dal cerchio di un serpente che si morde la coda: si hanno pochi dati sul corpo delle donne perché ci si concentra solo su alcuni aspetti del loro funzionamento, cercando di sopprimerli o controllarli; si sviluppano medicinali con dati prevalentemente maschili; ai trial i partecipanti sono prevalentemente uomini; dunque i prodotti sono sviluppati per gli uomini.

Si genera così un bias sistemico nei confronti del corpo femminile, tenuto in scarsa considerazione se non durante eventi biologici che, come la gravidanza, sono giudicati “interesse della comunità”. Tornando a Hester: «Lo xenofemminismo è un tentativo di formulare una politica di genere radicale adeguata a un’epoca di globalità, complessità e tecnologia. […] Il progetto xenofemminista non rifiuta la tecnologia (o la scienza o il razionalismo – idee spesso considerate costrutti patriarcali), ma la considera tanto una parte dell’ordito e della trama delle nostre vite quotidiane quanto una potenziale sfera di intervento attivista».

In altre parole, serve riappropriarsi della tecnologia, utilizzandola attivamente e rivendicando una libertà sociale che proprio dalla tecnologia è stata storicamente negata. Un’esigenza tanto più attuale negli anni in cui l’Intelligenza Artificiale è arrivata – e sempre di più arriverà – alla ribalta della quotidianità. Lo scriveva, già cinque anni fa, Ivana Bartoletti sul Guardian: «Il problema dell’avere solo uomini a scrivere le regole del gioco si sta facendo evidente nelle dinamiche di una cosa che è destinata a cambiare il modo in cui vivremo e respireremo: l’AI».

Bartoletti è una dei maggiori esperti mondiali di privacy e protezione dei dati. È stata ricercatrice all’Università di Oxford ed è attualmente Global Data Privacy Officer di Wipro. «C’è un primo grande problema: le scienziate sono poche, e questo porta a una conseguenza ancora più disastrosa: la mancanza di pensiero intersezionale mentre si crea un algoritmo». Che cosa succederebbe, per esempio, se per rinnovare un patente bastasse interfacciarsi con un’Intelligenza Artificiale, e se questa fosse stata addestrata per sottoporre le donne a prove e scrutini maggiori (d’altronde, donna al volante…)? O se il processo di recruitment di un’azienda dovesse passare attraverso le maglie dell’AI, magari portata a sfavorire le donne in età fertile per la paura di una maternità imminente? E che cosa succederebbe se queste AI fossero state cresciute nella convinzione che i capelli di una persona afrodiscendente non fossero indice di affidabilità? […]

Oggi, mentre siamo tutti bravi a giocare con ChatGPT e creare immagini di animali buffi con Midjourney, sarebbe bene non far cadere questi e altri avvertimenti nel vuoto.

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