Recensioni Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 21 Apr 2022 09:05:48 +0000 it-IT hourly 1 Il legionario, l’esordio avvincente di Hleb Papou https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/legionario/ Tue, 10 Aug 2021 13:24:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15924 A Locarno, nel concorso “Cineasti del presente”, Hleb Papou ha presentato in prima mondiale il suo esordio nel lungometraggio. Il legionario è il risultato del lavoro di sviluppo che Papou ha condotto – insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi – sull’omonimo cortometraggio realizzato come prova di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Distribuito da […]

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A Locarno, nel concorso “Cineasti del presente”, Hleb Papou ha presentato in prima mondiale il suo esordio nel lungometraggio. Il legionario è il risultato del lavoro di sviluppo che Papou ha condotto – insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi – sull’omonimo cortometraggio realizzato come prova di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Distribuito da Fandango, il progetto è stato scelto da Clemart durante un pitch interno alla scuola di cinema, rendendo possibile così un quasi immediato approdo al formato lungo per il regista neodiplomato.,

Hleb Papou, classe ’91, è nato in Bielorussia; trasferitosi in Italia appena adolescente, si è laureato al Dams e poi ha seguito il triennio di regia al CSC. Nella sua prima prova da professionista “adulto” porta la sua passione per certo cinema main stream (l’action drama francese e statunitense, il nuovo polar, certo cinema militaresco, il prison film), una ormai non comune intelligenza politica, un’istanza da narratore popolare che si confronta con il mondo in cui vive e con il pubblico al quale vuole rivolgersi.

Il nucleo d’origine è ancora vistosamente quello al centro del corto: un celerino di seconda generazione, nero figlio di una donna migrante, integrato nella comunità chiusa del corpo della Polizia della mobile al quale partecipa convintamente, dentro il quale – per converso – nasconde e tace la posizione politica e la condizione di vita di madre e fratello che ha in parte rinnegato, si ritrova costretto a scegliere tra la violenza ordinata dallo Stato e la difesa della sua famiglia d’origine.

Girato durante i mesi più caldi della seconda ondata di pandemia, il film risente del ritmo forsennato al quale ci si è visti costretti a lavorare a causa di un contagio sul set durante le riprese e del conseguente lungo blocco delle attività; la scarsa esperienza del regista non gli ha impedito tuttavia di tenere saldo il timone, anche se qualche elemento è inevitabilmente sfuggito a un controllo ferreo (la direzione degli attori avrebbe richiesto una “registrata” prima di considerare “buone” diverse inquadrature). Nonostante tutto questo e nonostante lo script fatichi a trovare una sua forma linguistica credibile (non sempre il ricalco pedissequo del vero produce il verosimile), Il legionario dimostra un autentico desiderio di scontrarsi frontalmente con la realtà e di raccontarla a un pubblico vasto, attraversandone contraddizioni dilaganti e quotidiane ossessioni.

Così la vicenda del protagonista – buono e cattivo, nero ma docilmente adeguato al birignao fascistoide nel quale s’immerge dentro e fuori il tempo del lavoro, italiano e straniero e forse per questo così tanto avvinghiato al feticcio della legge dello Stato in cui vive – diventa il diorama implicito di alcune delle tensioni dalle quali è agitata e divisa la società italiana dei nostri giorni; con i personaggi che gli si muovono intorno quasi ordinati in teorie di caratteri rispetto ai quali il protagonista agisce e reagisce. Papou procede agilmente evitando psicologismi, pathos, pseudointellettualismi (indulgendo semmai solo a qualche schematismo sociologico), inanellando un vortice di scene brevi che rapidamente e inesorabilmente sembrano stringere il poliziotto in una vertiginosa e soffocante spirale chiusa.

Spirale che conduce infine alla scena madre, un finale che, saggiamente, non punta sulla sorpresa né sull’enfasi dell’azione, ma sulla soluzione del turbine di violenza, diffidenza, sospetto e segregazione in uno scambio di sguardi che sintetizza e distilla l’essenza della difficoltà complessa della relazione di impossibile (?) solidarietà tra diversi, del rifiuto di autoconfinamento e reclusione dalla parte dei reietti.

 

 

 

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Deux, il folgorante esordio di Filippo Meneghetti https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/festa-del-cinema-deux-il-folgorante-esordio-di-filippo-meneghetti/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/festa-del-cinema-deux-il-folgorante-esordio-di-filippo-meneghetti/#respond Tue, 24 Nov 2020 09:11:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13332 Accade di rado di assistere a un’opera prima pienamente convincente e matura, dotata di una notevole sensibilità e capace di esprimere tanto sul piano stilistico quanto su quello narrativo quel delicato e complesso equilibrio che solitamente un cineasta acquisisce solo nel tempo con l’esperienza. È questo il caso di Deux (Two of Us il titolo […]

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Accade di rado di assistere a un’opera prima pienamente convincente e matura, dotata di una notevole sensibilità e capace di esprimere tanto sul piano stilistico quanto su quello narrativo quel delicato e complesso equilibrio che solitamente un cineasta acquisisce solo nel tempo con l’esperienza. È questo il caso di Deux (Two of Us il titolo internazionale), l’ottimo esordio nel lungometraggio di Filippo Meneghetti, regista veneto classe 1980 che vive a Parigi da otto anni dopo aver lavorato nel circuito del teatro e del cinema indipendente a New York e studiato regia e antropologia in Italia.

Presentato lo scorso anno con successo di pubblico e critica in diversi importanti Festival (Toronto, Londra, Roma) e da pochi giorni annunciato dalla Francia come suo rappresentante nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero, Deux è una coproduzione franco-lussemburghese-belga incentrata sulle vite di Nina e Madeleine, due donne mature che si amano segretamente da molto tempo. Vivono in Francia nello stesso palazzo, in due appartamenti uno di fronte all’altro, ma si sono conosciute durante un viaggio a Roma di Madeleine, la quale in tutti questi anni non ha ancora trovato la forza di raccontare la verità alla propria famiglia. Proprio quando, a tre anni dalla scomparsa del marito, Madeleine sembra decisa a uscire allo scoperto con i figli, però, accade all’improvviso un tragico evento che metterà a dura prova le esistenze di entrambe le donne.

Scritto dallo stesso Meneghetti insieme a Malysone Bovorasmy con la collaborazione della più esperta Florence Vignon (autrice nel 2016 insieme al regista Stéphane Brizé della sceneggiatura di Una vita), il film racconta con una certa grazia e senza mai eccedere nei toni una storia d’amore vigorosa e struggente. La regia di Meneghetti è solida, funzionale alle esigenze narrative e in grado di esaltare le ottime interpretazioni delle due protagoniste Barbara Sukowa (divenuta nota nel contesto del Nuovo Cinema Tedesco grazie a Fassbinder e Margarete von Trotta) e Martine Chevallier (grande attrice teatrale francese che fa parte dalla fine degli anni Ottanta della Comédie-Française), che contribuiscono in maniera determinante a raggiungere vette di notevole intensità. Convincente è anche la prova di Léa Drucker nei panni di Anne, la figlia di Madeleine che fatica ad accettare la sessualità della madre, recentemente apprezzata nel pluripremiato L’affido (2017).

Deux è dunque un film al contempo potente e asciutto, che ha il pregio non di poco conto di evitare con abilità qualsiasi tipo di retorica o banalizzazione – indicativo da questo punto di vista il bel finale – e segnala in maniera inequivocabile un nuovo talento italiano davvero molto promettente, capace oltretutto di trasferirsi e trovare finanziamenti all’estero per inseguire il proprio sogno di fare cinema. Siamo certi che sentiremo ancora parlare di Filippo Meneghetti e, a dir la verità, già non vediamo l’ora di poter scoprire la sua opera seconda.

 

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Papa Francesco – Un uomo di parola: il messaggio di speranza di Wim Wenders https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/papa-francesco-uomo-di-parola-il-messaggio-di-speranza-di-wim-wenders/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/papa-francesco-uomo-di-parola-il-messaggio-di-speranza-di-wim-wenders/#respond Fri, 28 Sep 2018 09:28:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11407 Il film che Wenders ha dedicato a Papa Francesco arriva nelle sale dopo molti rumors e svariati anni di lavorazione. Stando alle dichiarazioni del cineasta tedesco, rilasciate durante la conferenza stampa di qualche giorno fa alla Casa del Cinema di Roma, sono stati anni di assoluta libertà, senza alcun tipo di ingerenza, dalla pre-produzione al […]

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Il film che Wenders ha dedicato a Papa Francesco arriva nelle sale dopo molti rumors e svariati anni di lavorazione. Stando alle dichiarazioni del cineasta tedesco, rilasciate durante la conferenza stampa di qualche giorno fa alla Casa del Cinema di Roma, sono stati anni di assoluta libertà, senza alcun tipo di ingerenza, dalla pre-produzione al final-cut.

Al centro del cinema di Wenders resta sempre la struttura del road movie, stavolta inteso come viaggio, dialogo e confronto a due. Wenders ha infatti condotto personalmente questa lunga e intensa intervista con Francesco, capace di attraversare le spazio e il tempo, per affrontare in modo diretto i grandi temi del pontificato. Per tutta la durata del film e del viaggio la voce narrante resta quella dello stesso Wenders (che scopriamo parlare un perfetto italiano) mentre Jorge Mario Bergoglio non parla come d’abitudine la lingua di Roma e del Vaticano, ma il suo «spagnolo delle Americhe», il dialetto argentino.

papa francesco

Qualcuno sarà già perplesso: Papa Francesco – Un uomo di parola (qui il trailer ufficiale) non era un titolo prevedibile nella filmografia di Wenders (che ha incontrato il Papa presentandosi subito come protestante). I rischi infatti erano tanti: presentare un omaggio devoto al capo della Chiesa Cattolica, oppure un insipido documento di celebrazione, affidandosi alla grande tradizione dell’agiografia del santo di secolare memoria. Il film di Wenders su Francesco ha l’ambizione di evitarli tutti. Protagonista assoluto del film è naturalmente Papa Francesco: primo pontefice dall’America Latina, primo pontefice di formazione gesuita, il primo che abbia scelto il nome di San Francesco d’Assisi. Come voce narrante, è lo stresso Wenders che presenta Bergoglio con questi tratti biografici, che alludono a scelte radicali, espresse e concretizzate con coraggio.

Con Papa Francesco – Un uomo di parola, molti biglietti saranno venduti a chi desidera vedere un buon film d’autore sul Papa. Forse ci saranno spettatori atei o agnostici, incuriositi da un’opera dirompente per la sua autenticità. Altri avranno perfino l’ardire di pagare un biglietto, solo per vedere il nuovo film di Wim Wenders. Quel ragazzo che inizia come critico innamorato del cinema, arriva al lungometraggio e scopre il successo con Alice nella città (1973).

Il film su Papa Francesco arriva in un momento preciso della storia di Wim Wenders. I suoi documentari più recenti erano quello su Pina Baush del 2011 e quello realizzato nel 2014 con Juliano Ribeiro Salgado: Il sale della terra. Ma il progetto di un film su Francesco (che integra il reportage e l’intervista con ampi inserti in bianco e nero, dedicati al Santo di Assisi e affidati al volto di Ignazio Oliva) è paradossalmente più prossimo al primo documentario del giovane Wenders: Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980). Un esemplare straziante di direct-cinema, mentre Wenders filma l’amico Nicholas Ray (alias il regista di Gioventù bruciata – Rebel Without a Cause) che affronta il cancro, perde la sua battaglia e muore. Quell’idea di verità radicale, dove il primissimo piano e lo sguardo in macchina sono praticamente un gesto d’amore, anche adesso è alla base di Papa Francesco – Un uomo di Parola.

papa francesco

Nell’arco degli anni Papa Francesco e Wim Wenders hanno modo di affrontare i temi più disparati. Anche per Wenders, il cardinale argentino è il più moderno tra i successori di Pietro. Soprattutto, è un uomo che non ha paura di nulla. Parleranno di Grazia ma soprattutto di povertà, fame, ecologia e sfruttamento della madre terra, della tolleranza zero verso i casi di pedofilia interni alla Chiesa – e molte altre ferite della realtà contemporanea.

Per quanto riguarda lo specifico filmico, Wenders fa una scelta che si rivela determinante: una macchina da presa equipaggiata nella parte anteriore con un dispositivo Intertron. Per Wenders, «una sorta di teleprompter invertito». In parole più semplici: un monitor che permette al regista e al pontefice di dialogare, guardandosi costantemente negli occhi. Inutile dire che ogni spettatore al mondo avrà la sensazione che Francesco lo stia fissando in volto. È forse questa la chiave di volta di un film complesso, affascinante, che raggiunge pienamente il suo scopo. Ovvero: oltrepassare i confini delle religioni, delle certezze e dei popoli, per consegnare il suo messaggio di speranza universale.

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Ricchi di fantasia: Castellitto e Ferilli ricchi per caso https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/ricchi-di-fantasia-castellitto-e-ferilli-ricchi-per-caso/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/ricchi-di-fantasia-castellitto-e-ferilli-ricchi-per-caso/#respond Thu, 27 Sep 2018 06:23:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11394 Si è più ricchi quando si è innamorati veramente o per il biglietto vincente della lotteria nel taschino? Ce lo mostra Ricchi di fantasia (qui il trailer ufficiale), la nuova commedia di Francesco Micciché mettendo insieme Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. La struttura spinge l’imitazione di situazioni classiche in stile commedia all’italiana. I protagonisti hanno lo stesso […]

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Si è più ricchi quando si è innamorati veramente o per il biglietto vincente della lotteria nel taschino? Ce lo mostra Ricchi di fantasia (qui il trailer ufficiale), la nuova commedia di Francesco Micciché mettendo insieme Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. La struttura spinge l’imitazione di situazioni classiche in stile commedia all’italiana. I protagonisti hanno lo stesso nome dei loro personaggi, così Sergio e Sabrina amanti entrambi bloccati da rispettivi consorti e famiglie fanno saltare le loro unioni ufficiali per una forte vincita. Peccato sia soltanto uno scherzo dei colleghi di Sergio, giù al cantiere, capeggiati da Paolo Calabresi. Ma ormai i cocci sono rotti e la fuga in un pulmino scalcinato insieme a figli vari più madre/suocera petulante si trasforma in un roadmovie verso la Puglia.

Si tratteggia l’Italietta che vorrebbe ma non può. Non solo nel lavoro, dove Sergio subisce angherie economiche sfumate di truffa dal costruttore che lo schiavizza, un Gianfranco Gallo impeccabilmente sibillino. Ma dove i sogni artistici di Sabrina sono bloccati nei siparietti canterini da pianobar per neofascisti. A tal riguardo, Faccetta nera in versione animazione ristorante è chiaro segno dei nostri tempi: oggi il film vorrebbe criticare ma verrà frainteso dai più, per poi un domani essere osservato con inedito interesse per la ribellione stretta sotto i denti dei nostri artisti e autori attuali. E tutto per un comodo, condiviso meccanismo di valutazione timorosa dell’oggi. La Commedia all’Italiana girava intorno ai problemi, li avvolgeva, ma a un certo punto li colpiva frontalmente, non di striscio. E a suo modo cerca di fare lo stesso anche Ricchi di fantasia.

ricchi di fantasia

Andando avanti Micchiché mette in rilievo Antonio Catania e Antonella Attili, ricchi sfrenati e machiavellici. Escono frasi come: «La tristezza è per i ricchi» o «Per salvare la faccia rischiamo di perderla». Sì, perché ogni personaggio qui è impegnato a dimostrare quello che non potrebbe. La lotta di classe di una volta muta in guerra tra poveri. Tanto tra colleghi squattrinati con falsi biglietti vincenti quanto tra nuovi membri di una famiglia allargata per sbaglio. Si capovolgono anche le politicizzazioni. I ricchi diventano di sinistra e i poveri più destrorsi. Addio slogan come potere operaio e potere al popolo. È il ricco che ha tempo e potere per acculturarsi e diventare fine intellettuale dalla parte del giusto, seppur umettato di cupidigia. Al povero restano invece sole, cuore e livore. Ora vale un si salvi chi può generalizzato, apparentemente orizzontale. Ognuno con i propri mezzi. Ricchi o poveri che siano. Leciti o meno. Il ché ci richiede un’osservazione più complessa rispetto al passato.

Si ride amaro e di cuore in questa commedia che a ogni lettura è capace di mostrarci nuove sfaccettature. Finti poveri e finti ricchi si mescolano come carte ben orchestrate in un gioco di ruoli che ha solo rari momenti di stallo narrativo e un cast sempre frizzantino. «Viviamo in una società dove non c’è oggettività nella propria ricchezza»: ha ragionato durante la conferenza stampa di presentazione Paolo Calabresi, che interpreta il collega di Sergio, spalla d’appoggio e amico di sempre. «Ricchezza in sé è la finanza, ormai virtuale. Indipendentemente da questo siamo un paese che ha sempre fatto finta di essere più ricco di quello che è. Abbiamo voluto sempre aspirare ad essere qualcosa di superiore a ciò che eravamo. Chi fa finta di essere povero essendo ricco, lo fa per un piano deliberato. Invece chi finge di essere ricco, pur essendo povero, ha un piano di disperazione».

ricchi di fantasia

Tra gli attori spiccano poi la bambolosità new-age del personaggio di Matilde Gioli, che fa la figlia mitigatrice di Sergio, e il suo piccolo Art interpretato da Vincenzo Sebastiani. Viso pacioccone e linguetta pronta al tempo comico. Non manca nemmeno un curioso segno distintivo della commedia sentimental-familiare contemporanea lanciato da Moretti, poi perseguito da Muccino e tanti altri: la scena della canzone corale in automobile. E stavolta, scuserete lo spoiler, è il turno di Pupo. Con Su di noi. Cantiamo, ché ci passa.

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Una storia senza nome, quando il cinema racconta il cinema https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/una-storia-senza-nome-quando-il-cinema-racconta-il-cinema/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/una-storia-senza-nome-quando-il-cinema-racconta-il-cinema/#respond Fri, 21 Sep 2018 13:30:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11348 “Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto […]

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“Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto l’arduo compito di chiudere fuori concorso la rassegna di pellicole tricolore che tra la Selezione Ufficiale, le Giornate degli Autori, Orizzonti e la Settimana Internazionale della Critica hanno riccamente popolato gli schermi del Lido veneziano.

Orchestrato come un gioco di scatole cinesi, la nuova fatica di Roberto Andò è un’opera meta-filmica, che racconta senza prendersi sul serio il mondo che si nasconde dietro l’industria cinematografica italiana. La protagonista Valeria è la segretaria di un produttore e arrotonda il misero stipendio scrivendo segretamente per Alessandro, celebre sceneggiatore nonché suo grande amore. La vita della giovane è totalmente sconvolta quando un misterioso uomo la contatta, invitandola a vedersi per discutere di una storia che lui vorrebbe che scrivesse. Impaurita ma anche incuriosita, Valeria decide dare appuntamento all’interlocutore, senza sapere che quello sarà solo l’inizio di un’avventura ai limiti del possibile.

una storia senza nome

Prodotto leggero e pensato per il grande pubblico, Una storia senza nome (qui il trailer ufficiale) è un film sicuramente azzardato e rischioso, che tenta di divertire sia nella storia raccontata, sia nei toni della messa in scena. La narrazione non è anzitutto prettamente lineare, dato che alterna momenti al presente, flashback in bianco e nero e sequenze meta-cinematografiche. Sebbene questo ibridismo non provochi confusione, le parti realistiche non possono sempre essere definite tali, perché elementi involontariamente inverosimili puntellano il succedersi degli eventi, lasciando trasparire l’assenza di una struttura narrativa forte. I caratteri tipici della commedia non bastano per salvare le sequenze più illogiche, che spesso si concludono con risoluzioni sbrigative o inconsistenti.

Anche la caratterizzazione dei protagonisti è volutamente limitata: preferendo ragionare sui personaggi in quanto maschere (come ad esempio l’ingenua, la sgualdrina, l’egocentrico, ecc.), Andò non desidera dipingere figure a tutto tondo. Ciò riecheggia la bidimensionalità tipica della tradizione teatrale italiana, che oggi però appare innegabilmente anacronistica. In questo micro-cosmo quasi parodistico, si muovono Micaela Ramazzotti, ormai legata al ruolo dell’eroina un po’ naif, e Alessandro Gassmann, inguaribile playboy propenso alla truffa. A rubare la scena sono tuttavia altri due bravi interpreti del cinema italiano, che qui vestono i panni rispettivamente dell’enigmatico detective e della madre impicciona: il primo è Renato Carpentieri, premiato agli ultimi David di Donatello grazie a La tenerezza di Gianni Amelio, mentre la seconda è Laura Morante, vista al Lido anche con La profezia dell’Armadillo.

una storia senza nome

Tornando a quanto detto all’inizio, la messa in scena e il conseguente montaggio possono invece essere considerati il secondo azzardo del progetto. Proprio a causa del già citato intreccio tra sogno e realtà, la linea narrativa si caratterizza infatti di toni differenti a seconda del momento, che spesso però appaiono eccessivamente artificiosi. Anche le sequenze del quotidiano non si caricano di uno sguardo autoriale realmente preciso, provocando un senso di anonimia rappresentativa. Da contro, Andò riesce a orchestrare il ritmo in modo estremamente coinvolgente, permettono allo spettatore di seguire con interesse la storia. L’intrattenimento del pubblico sembra dunque essere lo scopo principale di quest’ultima fatica firmata dal regista palermitano che, nonostante gli innegabili problemi, riesce a divertire e a coinvolgere chiunque la guardi.

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Tumaranké: un racconto corale fatto di origini, sogni e integrazione https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/tumaranke-un-racconto-corale-fatto-di-origini-sogni-e-integrazione/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/tumaranke-un-racconto-corale-fatto-di-origini-sogni-e-integrazione/#respond Tue, 07 Aug 2018 08:31:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11083 Ogni giorno i giornali e la tv ci mostrano in modo distaccato le tante navi che dall’Africa arrivano a toccare la nostra penisola: espressioni che rivelano paura e speranza, occhi che, se sei solito all’empatia, ti portano a interrogarti su quale sia il loro passato. Tumaranké dona la possibilità di scoprire la verità non solo su […]

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Ogni giorno i giornali e la tv ci mostrano in modo distaccato le tante navi che dall’Africa arrivano a toccare la nostra penisola: espressioni che rivelano paura e speranza, occhi che, se sei solito all’empatia, ti portano a interrogarti su quale sia il loro passato. Tumaranké dona la possibilità di scoprire la verità non solo su quel passato, ma anche di conoscere la nuova quotidianità di trentotto migranti minorenni proprio attraverso i loro occhi.

Così il film ci parla della crisi umanitaria degli ultimi anni offrendoci un esempio del lavoro fatto dalle associazioni di accoglienza; ci racconta le storie di chi è partito di notte per affrontare chilometri infiniti tra deserto e mare e nottate in prigioni libanesi, ci fa ascoltare le voci di giovani che hanno visto l’Inferno ma hanno ancora voglia di credere nel futuro.

Tumaranké

I giovani migranti hanno avuto la possibilità di frequentare un workshop di otto mesi: sono stati formati dal regista milanese Andrea Caccia su come utilizzare il loro smartphone per riportare al meglio le loro giornate e i loro pensieri. Lo smartphone è l’elemento chiave dell’intero progetto: rappresenta l’opportunità di restare in contatto con la terra che hanno lasciato e di non dimenticare il motivo per cui sono partiti, è l’oggetto indispensabile per avere notizie dalla famiglia e per creare e mantenere nuovi legami sul territorio che li ha accolti, è l’occasione di mostrare il lento passare del tempo e il desiderio di guardare con fiducia alla vita che potranno costruirsi in Europa. Tumarkè significa proprio questo, il mettersi in viaggio alla ricerca di un futuro migliore.

Il film fa parte del progetto Re-Future – uno dei dodici selezionati dal Programma Europa Creativa della Commissione Europea per sostenere l’integrazione dei profughi – ed è stato prodotto da molteplici enti italiani ed europei che hanno saputo captare il potenziale delle tecnologie di creare contatto e conoscenza tra culture differenti. I ragazzi hanno scelto di mostrare lezioni di Italiano, momenti di isolamento, la curiosità verso cibi che non avevano mai gustato, partite a pallone ed esplorazioni del territorio siciliano, la sensazione di mancanza e il valore della nuova famiglia costruita nei centri che li ospitano.

Tumaranké

Tumaranké è stato realizzato dalla società di produzione Dugong Films, dall’associazione siciliana AccoglieRete e dall’Università Telematica Internazionale Uninettuno, con la partnership di cinque società europee operanti nella produzione audiovisiva e cinematografica. Ha debuttato lo scorso 30 giugno al Pesaro Doc Fest e lo scorso mese è stato presentato in vari festival dedicati a documentari e cortometraggi tra Palermo, Spoleto e Trieste, sensibilizzando gli spettatori e mostrando una verità che troppo spesso viene raccontata diversamente.

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Dei: adolescenza e crescita secondo Cosimo Terlizzi https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/dei-adolescenza-e-crescita-secondo-cosimo-terlizzi/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/dei-adolescenza-e-crescita-secondo-cosimo-terlizzi/#respond Mon, 02 Jul 2018 13:00:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10829 Il cinema italiano sta negli ultimi anni riscoprendo i racconti di formazione: pellicole come Scialla (Stai sereno) di Francesco Bruni, Un bacio di Ivan Cotroneo o Piuma di Roan Johnson hanno infatti intrecciato le classiche logiche del bildungsroman con nuovi modelli di intendere l’adolescenza, lontani da ciò a cui ci avevano abituato le produzioni commerciali […]

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Il cinema italiano sta negli ultimi anni riscoprendo i racconti di formazione: pellicole come Scialla (Stai sereno) di Francesco Bruni, Un bacio di Ivan Cotroneo o Piuma di Roan Johnson hanno infatti intrecciato le classiche logiche del bildungsroman con nuovi modelli di intendere l’adolescenza, lontani da ciò a cui ci avevano abituato le produzioni commerciali dei primi anni Duemila. Ultimo in ordine di tempo, Dei (qui il trailer ufficiale) è una nuova ed interessante declinazione del micro-cosmo giovanile, indagato questa volta alla luce di una velata nostalgia che ricorda l’ultimo lavoro di Abdellatif Kechiche.

Martino (Luigi Catani) è un diciassettenne innamorato dello studio e della filosofia. Costretto a vivere nella povertà della campagna pugliese, tenta ogni giorno di fuggire dalla monotonia della vita contadina, infiltrandosi con l’amica Valentina (Angela Curri) alle lezioni di storia dell’arte dell’Università di Bari. Durante il corso, conosce l’affascinante ed enigmatica Laura (Martina Catalfamo), una studentessa che divide un appartamento in centro con un gruppo di ragazzi, tra cui il musicista Ettore (Andrea Arcangeli). Questi nuovi ed inaspettati amici stravolgono completamente la vita di Martino, convincendolo anche a ripensare il rapporto con il burbero padre (Fausto Morciano).

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Opera prima dell’artista e documentarista Cosimo Terlizzi, Dei intreccia fin dalle prime sequenze un interessante impianto narrativo con una dialettica di espedienti esteticamente ricercati. La storia, pur riprendendo logiche da coming of age movie ormai particolarmente diffuse, si svincola da qualsiasi stereotipo, restituendo con credibilità la crescita emotiva e umana del protagonista, nonché la ricontrattazione dell’instabilità connaturata alla gerarchia famigliare. Anche la metafora dell’albero di ulivo, che con cadenza regolare ritorna in sequenze dal sapore onirico, si intreccia coerentemente con la dimensione realista, offrendosi come perfetto contrappunto visivo.

Analogamente, la sceneggiatura venata di sotto-testi filosofici permette di intrecciare la concretezza di una storia estremamente veritiera con una dimensione-altra, lontana tuttavia dalle svolte sovrannaturali di lungometraggi come il recente Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher. Da un punto di vista formale, la formazione pregressa del cineasta favorisce un utilizzo accorto di inquadrature dove l’equilibrio vige da padrone. Come in piccoli tableaux vivants, i personaggi assumo infatti pose dall’eco pittorico, interagendo con gli ambienti ma soprattutto con le luci. Sono proprio queste ultime che, alternando effetti bruciati ad altri quasi stroboscopici, permettono di caratterizzare in modo peculiare alcuni passaggi, tra cui i bellissimi primi piani del protagonista.

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Un conclusivo appunto deve essere infine mosso relativamente al cast. Luigi Catani, classe 2000, si dimostra nonostante la tenera età un perfetto protagonista, abile a giocare sui non detti e di trasmettere la profondità del suo personaggio ricorrendo spesso solo alle espressioni del volto. Ugualmente, il più navigato Andrea Arcangeli incarna un archetipico fratello maggiore, sensibile e duro contemporaneamente, capace di accompagnare il giovane amico nei cambiamenti della vita: l’interprete, già ottimo in The Startup di Alessandro d’Altri, si conferma pertanto uno dei più brillanti giovani divi del panorama contemporaneo. Degne di nota, anche le controparti femminili, come la convincente Angela Curri e l’incisiva Martina Catalfamo.

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Le Precensioni: Tito e gli alieni https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-tito-e-gli-alieni/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-tito-e-gli-alieni/#respond Thu, 07 Jun 2018 06:05:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10656 Dopo la puntata dedicata all’acclamato lungometraggio di Alice Rohrwacher intitolato Lazzaro felice, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un nuovo episodio incentrato su Tito e gli alieni (qui il trailer ufficiale italiano), commedia fantascientifica diretta da Paola Randi e interpretato da Valerio Mastandrea, Clémence Poésy e Luca Esposito. Presentato in anteprima al Torino Film Festival e distribuito da Lucky Red, […]

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Dopo la puntata dedicata all’acclamato lungometraggio di Alice Rohrwacher intitolato Lazzaro felice, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un nuovo episodio incentrato su Tito e gli alieni (qui il trailer ufficiale italiano), commedia fantascientifica diretta da Paola Randi e interpretato da Valerio MastandreaClémence Poésy e Luca Esposito. Presentato in anteprima al Torino Film Festival e distribuito da Lucky Red, il film esordisce nelle sale italiane il 7 giugno.

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Le Precensioni: Lazzaro felice https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-lazzaro-felice/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-lazzaro-felice/#respond Thu, 31 May 2018 12:30:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10580 Dopo la puntata dedicata al chiacchierato film di Abdellatif Kechiche Mektoub, My Love – Canto uno, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un episodio incentrato su Lazzaro felice (qui il trailer ufficiale italiano), nuovo lungometraggio di Alice Rohrwacher (Le meraviglie), presentato al Festival di Cannes e già recensito sul nostro sito. Il film, interpretato da Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher e […]

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Dopo la puntata dedicata al chiacchierato film di Abdellatif Kechiche Mektoub, My Love – Canto uno, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un episodio incentrato su Lazzaro felice (qui il trailer ufficiale italiano), nuovo lungometraggio di Alice Rohrwacher (Le meraviglie), presentato al Festival di Cannes e già recensito sul nostro sito. Il film, interpretato da Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher e Nicoletta Braschi, è distribuito nelle sale italiane da 01 Distribution a partire dal 31 maggio.

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Lazzaro felice: quando il fantastico non è più un tabù https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/lazzaro-felice-quando-il-fantastico-non-e-piu-un-tabu/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/lazzaro-felice-quando-il-fantastico-non-e-piu-un-tabu/#respond Wed, 30 May 2018 14:00:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10572 Un dato andrebbe registrato, una tendenza emergente nel cinema (e nella retevisione) italiana: risvegliato sul grande schermo da Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, apprezzato dal pubblico in un film come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e fiorente adesso anche in tv (Il miracolo di Sky, La luna nera di Netflix), il […]

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Un dato andrebbe registrato, una tendenza emergente nel cinema (e nella retevisione) italiana: risvegliato sul grande schermo da Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, apprezzato dal pubblico in un film come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e fiorente adesso anche in tv (Il miracolo di Sky, La luna nera di Netflix), il fantastico non è più un tabù.

Ancorati tradizionalmente al realismo, un’eredità diventata negli anni pesante come un macigno, gli autori italiani stanno scoprendo il gusto liberatorio di sfondare la parete del reale e frugare oltre lo specchio alla ricerca di qualcosa di stra-ordinario. Questione di punti di vista, di cultura: quel che per gli altri è evasione, per noi figli del neorealismo è trasgressione. Ed è normale che in un paese come il nostro, il cui immaginario soprannaturale è stato storicamente (ri)plasmato dal cattolicesimo, l’accesso al fantastico avvenga attraverso la porta della religione.

lazzaro felice

Non sorprende dunque che a farsi affascinare dalla meraviglia dell’impossibile sia proprio l’autrice de Le meraviglie e Corpo celeste, Alice Rohrwacher, che con il suo Lazzaro Felice (qui il trailer) si cimenta con un topos del fantastico, il viaggio nel tempo, realizzando un ibrido non del tutto riuscito ma molto personale tra racconto del reale e favola poetico-spirituale. La storia è quella di Lazzaro (Adriano Tardiolo), un contadino ostaggio dei propri padroni che insieme ad altri lavoratori (tra loro Alba Rohrwacher e la brava Agnese Graziani) serve la contessa dell’Inviolata (Nicoletta Braschi), senza rendersi conto delle condizioni di sfruttamento cui l’isolamento li ha condannati. Ma un giorno Lazzaro, preoccupato per le sorti del padroncino Tancredi (Luca Chikovani), disperso dopo una gita in campagna, cade in un burrone. Batte la testa. E da lì in poi, per lui, tutto sarà diverso.

Favola che non nasconde una profonda tensione religiosa, nel riferimento simbolico al Lazzaro biblico e nei tanti rimandi alla spiritualità cristiana, Lazzaro Felice ha il pregio di cambiare percorso proprio nel momento in cui il meccanismo narrativo è ormai innescato. Rohrwacher orchestra efficacemente i suoi personaggi (tutti volti da cinema, seppur non tutti adatti a recitare) e poi, proprio quando ci avrebbe convinti a credere, e cedere, all’ennesimo prolet-revenge neo-neorealista, fa uno scarto e introduce nel “già visto” una componente magica, irrazionale.

È una mossa fortissima. Una svolta talmente potente che la sua carica, dirompente, non si lascia purtroppo ammaestrare da una sceneggiatura che ne sottovaluta la portata, perdendone il controllo. L’impressione è che, una volta piazzato il fantastico nella storia, Rohrwacher non sappia far fronte ai nuovi interrogativi che porta in dote alla narrazione. Come se lei stessa non avesse chiaro lo sguardo con cui intende raccontarlo (realistico? spirituale? agnostico?), e dunque anche l’approccio che i personaggi hanno di fronte al portento (Ci credono? Ne hanno paura?), il miracolo di Lazzaro è insieme la fortuna e la condanna del film.

Impeccabile nella prima parte tradizionale, e imperfetto ma coraggioso nella seconda, Lazzaro Felice percorre una strada in salita, smarrendo qua e là la direzione e arrivando scomposto alla meta. È normale, capita a tutti gli esploratori: aprire il sentiero per gli altri è un lavoro spesso ingrato e faticoso. Ma indispensabile, e sempre degno di ammirazione.

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