Musica Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 19 Mar 2024 15:27:53 +0000 it-IT hourly 1 Antipop, la storia di Cosmo in un doc su Mubi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/#respond Mon, 26 Feb 2024 14:25:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18975 In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche […]

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In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche da quella definizione così larga e onnivora che è il genere pop. Ed è inoltre lo stesso titolo di un brano dell’album La terza estate dell’amore, una citazione voluta dal regista Jacopo Farina, qui alla sua opera prima.

L’ascesa di Cosmo non appartiene al mercato discografico immediatamente mainstream e la scalata al successo del cantautore di Ivrea somiglia più alla storia di una garage band. Sempre circondato e legatissimo al gruppo e alla sua famiglia, questa caratteristica è il cuore del lavoro di Farina, che si concentra non tanto sulla spiegazione di testi e musiche, ma sulla vita vissuta della “tribù” che ruota intorno a Marco Jacopo Bianchi, da cui poi l’artista emergerà con il nome di Cosmo. Si parte dalla sua prima band, i Melange e dalla morte prematura di uno dei musicisti, passando per il secondo gruppo, i Drink to me, e poi finalmente si arriva al successo presso il grande pubblico come solista, che solo non è mai stato.

Nella prima parte del doc Farina ci espone un racconto corale dove i genitori, ogni amico o musicista hanno lo stesso peso. Ci sono le prove nello scantinato di uno zio o in tavernette casalinghe con boiserie, antistanti il bagno d’una madre presa dal fare il bucato; le bevute dopo i rifornimenti di birre al supermercato e le ragazze che testimoniano amori e creazioni musicali; lo spirito dell’essere uno per tutti e tutti per uno nel lutto affrontato con una lunga astensione dagli strumenti quanto nell’appoggiare in toto la nuova identità solista di Marco, anzi Cosmo. Una famiglia e una tribù appunto, dove a contare è l’unione, sempre e comunque. È questa la caratteristica più incisiva del doc e del Cosmo-mondo. Il regista l’affronta con la voce narrante di Cosmo stesso, e ci sentiamo quasi Marco che osserva la sua storia, o meglio il mondo che lo ha circondato sin dall’adolescenza. Quasi un doc in soggettiva, insomma.

La musica qui ha un ruolo amniotico e, libera dal binomio convenzionale del videoclip (canzone-performance visiva), circola in questo lavoro come una linfa. Sempre presente in mood sonori quasi sottotraccia, loop e melodie estrapolati da arrangiamenti editi, percorre il film con il sound elettronico che caratterizza questo artista.

Dall’1 marzo Antipop arriva in esclusiva su Mubi. Forse una piattaforma di qualità è la migliore via distributiva per un doc di questo formato, un’ora, molto adatto a una fruizione televisiva d’approfondimento. Essendo in uscita il nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco, il quarto da solista di Cosmo, in uscita il 15 marzo per Columbia Records e Sony Music Italy, sembra anche il lancio perfetto sul piano del marketing.

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Pepsy Romanoff. Sopravvissuto al Supervissuto https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/#respond Fri, 27 Oct 2023 12:08:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18778 «Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha […]

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«Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha messo in pausa la sua vita per trasferirsi a Bologna accanto a lui, «perché Vasco è il sole», dice. E il sole è assoluto, «ma è un attimo che ti bruci».

Peppe Romano è tante cose insieme (regista, art director, produttore), ma è soprattutto “il regista di Vasco”: un titolo esclusivo che nessuno, prima di lui, aveva conquistato fino in fondo nell’entourage del rocker. Una storia, la loro, che inizia con i primi videoclip fino ai visual e alla direzione artistica dei suoi live show, compresa la macchina dei record che Modena Park fu nel 2017. Va da sé che a questo punto nessuno avrebbe potuto raccontare Il Supervissuto se non lui. Il risultato è un’opera audiovisiva definitiva su Vasco Rossi, un documentario che è pure un’autobiografia, tra found footage, testimonianze e interviste inedite, e ripercorre le tappe di una vita surreale e chiacchieratissima calandosi nella storia del nostro Paese: le prime radio libere, Sanremo, la Rai, i club, il cantautorato degli anni Settanta-Ottanta e il rock italiano. Senza soddisfare il gossip e risolvere rebus, ma senza voler ignorare ad ogni costo i punti critici. «Alla fine, se ci pensi, io non sono solo un sopravvissuto: io sono un super-vissuto» dice Vasco nei primi minuti della serie. Ma come si sopravvive a un Supervissuto?

Partiamo dalla fine. Critiche, domande scomode, applausi: come è andata?

Pensa che sono arrivati a chiedermi se ho tradito mia moglie con Vasco Rossi [ride]. Ho risposto di sì, perché ho passato tantissimo tempo con lui e ci siamo raccontati davvero il sesso, la droga e il rock’n’roll. Ho letto molte recensioni, alcune sostengono che non abbiamo detto niente di inedito. Secondo me non è vero.

Ecco, secondo te cosa è stato detto di inedito?

Innanzi tutto ci sono tre personaggi inediti alla storia di Vasco Rossi per il pubblico: la moglie Laura Schmidt, il figlio Luca Rossi, e il manager nonché migliore amico storico Floriano Fini. Non avevano mai parlato così apertamente della sua vita, tutti insieme. È ovvio che non abbiamo scoperto l’acqua calda, ma si arriva a Vasco che racconta: «Io a un certo punto avevo venti, trenta grammi di cocaina in casa». Non è la prima cosa che riveli in un’intervista, no?

Vero. Per certi versi, però, anche questa è “la versione di Vasco”.

Questa è una sana verità. Ma quale autobiografia si comporterebbe diversamente? Anche nei testamenti finali, certe cose te le porti dall’altra parte del mondo. Io credo sia giusto che delle cose scottanti se le tenga Vasco, come fa ognuno di noi con i suoi segreti. È ovvio che lui mi ha raccontato delle cose scomode, e molte sono state valutate dai legali e tagliate fuori dalla serie. La verità? Forse sono più contento che qualcosa sia rimasta solo tra me e lui.

 

Sapere più di quanto è stato reso pubblico, decidere cosa tenere e cosa tagliare: tu quale criterio hai seguito?

Io non sono mai partito dal presupposto di fare un documentario d’inchiesta sulla vita di questo artista. Volevo mettere sul tavolo tutte le carte di questo grande puzzle.

E com’è possibile che nessuno avesse già realizzato un progetto del genere sulla più grande rockstar italiana?
Mancava un fattore fondamentale: il punto non era trovare la persona giusta, ma che Vasco arrivasse in un momento e in un tempo preciso della sua vita. Per lui gli anni del Covid sono stati un point break su cui costruire questo racconto, come la ginestra di Leopardi. Piantare un fiore sul Vesuvio.

L’idea di fare una docu-serie è nata in tempo di pandemia. Chi dei due l’ha proposta all’altro?

Né me lo ha chiesto né gliel’ho proposto. Durante la pandemia lui mi fa capire: «Mi sto annoiando, che ci vogliamo inventare?». Così lo raggiungo una settimana a Bologna per buttare giù qualche idea, per intrattenerci non potendo fare i concerti. Poi mi compro una delle tante biografie su di lui, e capisco che alcuni fatti non tornano. Così inizio a chiedergli: «Ma questa cosa come è andata? È vero quello che c’è scritto qua?». Ci siamo appassionati parlandone, abbiamo iniziato a registrare tutto col telefono, senza telecamere.

Sì, ma quand’è che vi siete detti davvero «stiamo realizzando questa cosa»?
Non ce lo siamo detti. Nell’aria c’era l’idea di Guglielmo Ariè [insieme ad Igor Artibani, tra gli autori di Supervissuto] di fare un documentario importante sulla sua vita. Sono passate due settimane, io e Vasco ci vedevamo ogni giorno dalle quattro alle sei per chiacchierare e registrare. Sono ripartito dal suo anno zero: «Come sei cresciuto? Cosa facevi? Che tipo eri?». E poi queste due settimane so’ diventate nove mesi. Ogni giorno mi dava appuntamento al giorno dopo, e alla fine ho telefonato a Milano: «Raga’, qui il fatto sta diventando serio, mi affitto una casa a Bologna». Sono andato lì il 3 novembre e sono tornato a casa il 10 giugno dell’anno dopo. Considerando tutta la gestazione del progetto, tra shooting, scrittura e registrazione, c’ho lavorato tre anni.

Settant’anni di vita e quasi cinquanta di carriera. Come hai fatto a calibrare i vari blocchi e scegliere a cosa dare più rilevanza?
Questa roba qua è stata molto difficile. Inizialmente avevo dato più spazio ai capisaldi che io ritenevo più importanti, con un imprinting più autoriale ed eccentrico. Ma è chiaro che chi paga vuole che racconti una storia anche come piace a loro. Ed è giusto, perché ci hanno lasciato una libertà totale su un progetto economicamente enorme. Solo Netflix poteva salire su questo carro, e te lo dico senza sviolinare. Però non puoi parlare per tre minuti di C’è chi dice no o Gli spari sopra e magari sacrificare di Gli angeli e Sally. Abbiamo dovuto fare un balance continuo per scendere a patti con i tempi dell’intrattenimento, forse mi sarei preso delle licenze registiche più ampie. A volte avrei sgonfiato tutto e tenuto solo un’immagine con una voce, oppure un minuto di visual e nient’altro.

Hai imparato qualcosa in più sul documentario da intrattenimento?

Ho imparato a calibrare la tensione e le aspettative. Questo modo di realizzare documentari è la bibbia di Netflix: lasciare uno spettatore attaccato e poi dargli una risposta più tardi. Ho imparato l’importanza del diritto d’autore – dei video, delle foto, dei bootleg – e come tutelarlo. Il documentario in sé ha un grande lavoro di elaborazione e costruzione editoriale per raggiungere un risultato.

Qual è la licenza registica di cui vai più fiero?
Sicuramente l’intro del primo episodio. Quello è un vocale originale che Vasco mandò a Tania Sachs per rispondere a una lettera che Cesare Cremonini gli dedicò su Vanity Fair, quando diventò direttore per un numero. Quando ascoltai quel vocale pensai che questo artista era stato capace in un tempo musicale, cioè in poco più di tre minuti, di fare il trailer della propria vita.

E poi c’è la sigla, che racchiude proprio l’essenza di Vasco.

Volevo che fosse graficamente un grande collage di una grande vita. A Bologna avevo una parete bianca con una cartina geografica, dei post-it e una linea rossa che mi portava da un luogo di Vasco all’altro, con accanto le date. Mi piaceva fare infografica cercando di far capire agli spettatori dove si trovavano storicamente, rispetto allo spazio-tempo di Vasco [nda: tutte le grafiche sono opera di Chunk Studio].

La sigla si chiude sull’immagine-icona: il palco, il pubblico dei record e il coro storico [olè olè olè Vasco Vasco]. Ovvero il luogo di culto, i fedeli e il rito. Perché hai scelto il punto di vista del palco anziché dei fan?

È un po’ un’autocitazione. Vasco è Vasco anche perché ha pensato – e si è ricordato – per tutta la vita di avere un pubblico davanti a sé: la camera ribaltata aveva più potenza. Quella è un’immagine davvero epica, che ho imparato a notare e costruire a Modena Park, l’evento degli eventi.

Ed è anche un punto di vista privilegiato: il tuo. Sul palco sempre accanto a Vasco, mai davanti.

Sai, alla fine la nostra è stata una grande storia d’amore. Parlo al passato perché è come se la serie rappresentasse il giorno del nostro matrimonio: noi mo’ ci siamo sposati, la festa l’abbiamo fatta, le fedi ce le siamo scambiate? Bene, ci possiamo pure lascia’, però ormai ci siamo sposati. È una cosa che non ci può togliere nessuno, comunque andrà. Lui ha dato a me ciò che io ho provato a restituire a lui. Non è una trovata di comunicazione: il vero regista di questo progetto è Vasco Rossi. Quale regista migliore di uno che è autore della sua vita come lui? Già trovare questo titolo, Il Supervissuto, è opera sua. Ha coniato un nuovo vocabolo.

Che rientra nel suo glossario: è l’ennesimo vocabolo di una “disciplina spericolata”. La sigla della serie è Gli sbagli che fai, scritta per l’occasione. Non avevi pensato di usare un brano cult?

Sì. Per me la sigla doveva essere un’altra: Lo show. Un pezzo magico, un rock cinematico, lo ascolti e vedi un film. Vattela a sentire.

Non dimenticarti con chi stai parlando.

[Ride] Hai ragione, scusa. Sai quando all’inizio dice: “Alzami un po’ la musica, alzami un po’ la mia voce”? Mi fa venire la pelle d’oca. Per me è anche il pezzo con cui dovrebbe aprire i concerti. Io e Vasco non siamo amici, siamo due professionisti che lavorano insieme: questo è sempre un valore aggiunto. Per questo Gli sbagli che fai me l’ha fatta ascoltare alla fine della serie, dopo aver visto tutto il girato. Era convinto che potesse essere la grande colonna sonora, e aveva ragione, perché è il raccontone di una vita all’insegna del casino. Mi commuovo se ci penso.

Possiamo dire che sei sopravvissuto al Supervissuto?

Io per ’sta serie sono andato dall’analista, sono stato male, mi sono allontanato da casa in tutti i sensi. È stato difficile. Aspetta, mi si rompe la voce se continuo a parlare. Dice l’analista che quando mi succede devo pensare a una cosa che mi fa ridere.

Cos’è che ti fa rompere la voce?

Il fatto che è stato difficile. A un certo punto arrivi anche a dirti: «Vaffanculo, non è che per raccontare questa storia devo andare al manicomio». Quando stai in quella bolla, dall’esterno non si può capire. Vasco è il sole: ti puoi scottare in un attimo se non ti proteggi.

Cosa temevi di più?
Di non reggere la pressione a livello lavorativo. I compromessi da fare con un colosso dell’intrattenimento come Netflix. Che il risultato non raggiungesse la qualità che volevo. Avevo paura di scoppiare prima della fine, perché in mezzo c’è stato il film del concerto al Circo Massimo, una tournée dopo il lockdown e l’ultimo tour. E oh, mica so’ io il Supervissuto [ride].

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Barrì – Avincola e Amir Ra, in anteprima esclusiva https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/barri-avincola-e-amir-ra-in-anteprima-esclusiva/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/barri-avincola-e-amir-ra-in-anteprima-esclusiva/#respond Mon, 02 Oct 2023 12:44:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18743 Metti un giorno Avincola, Pasquale Panella, Morgan e Amir Ra: esce domani 3 ottobre il videoclip di Barrì, prodotto da Origines Project. Noi ve lo mostriamo in anteprima esclusiva e vi raccontiamo che storia c’è dietro. Io sono stato luce/ingranaggio/chiave/ponte/Io ho condotto le genti/in luoghi inesplorati/ho contattato spazi/e tempi piegati «A un certo punto mi […]

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Metti un giorno Avincola, Pasquale Panella, Morgan e Amir Ra: esce domani 3 ottobre il videoclip di Barrì, prodotto da Origines Project. Noi ve lo mostriamo in anteprima esclusiva e vi raccontiamo che storia c’è dietro.

Io sono stato luce/ingranaggio/chiave/ponte/Io ho condotto le genti/in luoghi inesplorati/ho contattato spazi/e tempi piegati

«A un certo punto mi contatta Morgan e mi dice: “Senti, ho fatto una chat Whatsapp con artisti e producer che stimo, e vorrei aggiungere anche te. Ho scritto un libro di poesie [Parole d’aMorgan, al tempo ancora inedito] e ho chiesto al grande Pasquale Panella di scrivere la prefazione”». Inizia così il viaggio di Barrì, e continua con Panella che propone a Morgan: “Io non ti faccio la prefazione. Ti faccio l’infrazione: cioè rispondo a tutte le tue poesie con altrettante poesie”. «Morgan ha pensato che con un’opportunità così rara sarebbe stato bello se ogni artista avesse scelto a sua volta delle poesie di Panella per trasformarle in canzoni».

Avincola ne ha scelte cinque, e una in particolare è diventata la title track con cui ha aperto il suo ultimo disco: Barrì. «La cosa più curiosa? Oggi ci sentiamo spesso, ma la prima volta che ho parlato con lui mancava mezz’ora alla mezzanotte di Capodanno: così ho passato il Capodanno al telefono con Pasquale Panella».

«È stata una delle cose più belle della mia vita, e non penso solo alla vita artistica. Questi testi non nascevano per essere canzoni: l’aspetto complicato e affascinante è stato il dover inseguire e avvolgere le parole con la musica. Mai avrei ritoccato il testo. Ma la consapevolezza di fare questo lavoro sulle parole dell’autore degli ultimi cinque album di Lucio Battisti [i famosi ‘album bianchi’ pubblicati tra il 1986 e 1994], lo stesso che ha scritto tutta la discografia di Enzo Carella, che ha lavorato con Zucchero e Mango, che ha scritto Vattene amore per Minghi, curato la versione italiana di Notre Dame de Paris e Romeo e Giulietta di Riccardo Cocciante… È  chiaro che mi emoziona. Barrì in un paio di giorni era pronta».

Oggi il video di Barrì si apre con il voice over di Morgan che recita i versi, bellissimi, della poesia originaria alla quale Panella ha risposto, che Avincola ha poi reso musica e sulla quale Amir Ra ha costruito un universo visivo. È inevitabile notare come questa creatura collettiva e composta su più livelli, sembri incredibilmente concepita da un unico sguardo. Partendo dal testo di Panella – evocativo ma obiettivamente criptico, sulla soglia dell’astrattismo – Avincola ha lavorato per creare una sorta di frattura tra parole e musica (i contrasti  non mancano nella sua discografia, come se testo e musica camminassero sempre insieme, consapevoli l’uno dell’altra, ma alimentandosi proprio nella distanza e nel conflitto): «Ho iniziato a lavorare su una sequenza ritmica di batteria molto ripetitiva. Volevo delle fondamenta toste su cui poter giocare con suoni, armonia, musica, e costruire uno scenario alternativo al testo. Battisti ebbe un po’ lo stesso approccio con Panella: ha dovuto costruire la musica su testi che avevano già una loro ritmica, dei tranelli, delle metriche alle quali adattarsi. Nel mio piccolo ho cercato di sperimentare lo stesso approccio».

Barrì

Io ho cablato freddo ferro/che connesso a rame sottile/ha suonato le note più acute mai udite/destando l’attenzione/agli elefanti nella foresta/tra gli applausi dei salici piangenti/dei sadici e paganti/che ridevano al mio passaggio/fragoroso e sfuggito a tutti

Amir Ra (che in occasione della prima collaborazione con Avincola per il videoclip di Battiti feat. Folcast aveva creato l’impianto visivo di un videogioco, combinando live action e 3D) per Barrì si confronta invece con un brano che di letterario e tangibile ha ben poco: lo traduce in una lettura filmica della canzone, collocando scene del quotidiano in un tempo incantato e onirico: «Già dal primo ascolto l’intuizione era quella di mettere Barrì all’interno di una sequenza filmica, quindi farla diventare una sorta di colonna sonora di quello che accade. Parte tutto da questa figura femminile con un velo: è alla ricerca della sua identità e del suo spazio. Volevo ricreare un preambolo contaminato dalla natura, che potrebbe anche sembrare il Nord Africa, con un’immagine quasi mistica di donna tra i campi. Le parole del pezzo sono molto evocative, e avevo anche due reference madri: i visual della regista iraniana Shirin Neshat e un film del ’94, Sotto gli ulivi di Abbas Kiarostami, che racconta la libertà, girato nel deserto con dei colori incredibili e una cura particolare rispetto all’uso del velo».

«Ho voluto lasciare Amir libero – spiega Avincola – perché mi fido ciecamente della sua intuizione e della sua originalità. Io scrivo canzoni, e solo quello so fare: non mi piace chi si improvvisa indossando panni che non gli stanno bene. Ho capito cosa aveva davvero in mente Amir solo durante le riprese ed è stato emozionante rimanere un po’ all’oscuro, vedergli costruire qualcosa dal niente. Il fatto che il videoclip sia volutamente poco chiaro mi affascina tantissimo, e si lega allo stile del testo di Pasquale Panella che, come sappiamo, è molto criptico nelle sue parole».

In un’atmosfera da realismo magico, il video alterna movimenti di macchina lenti e sinuosi a carrellate quasi danzate, con inquadrature pensate per essere composte come quadri animati (le migliori) in cui i personaggi respirano appena, mossi solo dal vento che li circonda, mimetizzandosi con i pattern della terra attraverso un’estetica ipnotica: «L’estetica è qualcosa che curo nei minimi dettagli, e avendo un’inclinazione da direttore della fotografia, questo mi porta a celebrare la cosa più importante: la luce. Tutte le riprese erano coordinate al timing del sole. Cercavo corpi baciati dalla luce che creassero un’atmosfera precisa. Per le ottiche ho usato delle Zeiss fotografiche vintage, che hanno una pasta che mi piace moltissimo. Adoro anche i filtri e li utilizzo spesso, non solo per togliere colore ma anche per giocare con la luce naturale, i riflessi, gli specchi».

Per quanto si intraveda il topos del triangolo amoroso, il risultato è, in definitiva, una vibrazione surreale: «E la bellezza del surreale, nel testo di Panella e nella visione di Amir, per me è un pregio», osserva Avincola. «Nel surreale ognuno può trovare qualcosa di sé. La sensazione che ho avuto leggendo la prima volta il testo di Panella è la stessa che ho provato guardando per la prima volta il videoclip: l’impressione di trovarmi di fronte a uno specchio distorto dove ogni cosa prende una forma inaspettatamente diversa da quella canonica».

 Ma ecco che lì… sei arrivata tu/e mi sono fermato a respirare/Allora ho detto alla mia vita:/“guai a te se mi togli quello sguardo/che la vita di tutte le mie reincarnazioni/possa essere dannata se non sarò capace/di salire alla sua grazia effeminata/odorante di vita e piena del tempo/finalmente saturo di un senso/prima d’ora mai incontrato/e che ‘amore’ ho definito”. (Morgan)

 

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Serepocaiontas: rompo il ghiaccio con l’ukulele https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/serepocaiontas-vita-musica-ukulele/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/serepocaiontas-vita-musica-ukulele/#respond Wed, 19 Jul 2023 10:17:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18589 Ha fatto diventare l’ukulele uno strumento popolare anche fra gli spettatori Rai, e già questo dice molto delle sue capacità. Serena Ionta, in arte Serepocaiontas, negli anni ha creato una community di circa 120mila followers tra Instagram e TikTok (grazie anche alla Laurea in Management alla Bocconi). A dicembre ha debuttato in tv nella nuova […]

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Ha fatto diventare l’ukulele uno strumento popolare anche fra gli spettatori Rai, e già questo dice molto delle sue capacità. Serena Ionta, in arte Serepocaiontas, negli anni ha creato una community di circa 120mila followers tra Instagram e TikTok (grazie anche alla Laurea in Management alla Bocconi). A dicembre ha debuttato in tv nella nuova trasmissione di Fiorello, VivaRai2, che la vede fissa nel cast come cantante e strumentista. Negli ultimi tempi ha anche iniziato a “cantare per il cinema”: un brano per la colonna sonora dell’ultimo film di Leonardo Pieraccioni e la partecipazione alla colonna sonora della seconda stagione di A casa tutti bene di Gabriele Muccino. Tra i suoi singoli/tormentoni: Limonata, Tapis Roulant e Lattine insieme ad Avincola, con cui ha suonato al Fabrique Club di maggio.

È da poco uscito il suo nuovo singolo, in coproduzione con DSonthebeat (Daniele Silvestri) per l’etichetta discografica SoloCoseBelle Dischi/ADA Music Italy, Mi hai rotto il ghiaccio che, già dal titolo, vuole fare riferimento al classico momento di “rottura del ghiaccio” in una conversazione tra due persone sconosciute.

Che volevi dirci con questo tuo nuovo singolo, Mi hai rotto il ghiaccio?

Ho voluto raccontare con leggerezza i momenti di imbarazzo che sorgono nell’attimo in cui due persone entrano in contatto. E specialmente quando “lui” tende a essere insistente e poco corretto nei confronti dell’altra persona, ecco io vorrei poter dire a tutt*: guardatevi dal dire costantemente di sì in ogni occasione, e mantenete sempre la testa alta. In alcuni casi è meglio lasciar correre, piuttosto che accettare passivamente quello che ci viene proposto.

Come è stato l’inizio del tuo percorso musicale? E, domanda inevitabile, perché hai scelto l’ukulele?

Sono nata a Latina, una realtà molto piccola, e a diciotto anni ho deciso di trasferirmi a Milano per studiare al Conservatorio e allo iscrivermi alla facoltà di Management della Bocconi. Ho seguito un anno di Conservatorio, dopodiché mi sono laureata. Negli anni di formazione a Milano mi sono avvicinata al jazz e pop; in realtà sin da quando avevo sette anni sognavo di scrivere testi di canzoni per bambini, in seguito poi ho scoperto anche la chitarra classica e il canto.

E poi sei volata all’estero, giusto?

Esatto. Dopo un breve periodo di Erasmus ho preso la decisione di trasferirmi a Londra per continuare sulla strada del digital marketing, che studiavo all’Università. È allora che inizio a suonare l’ukulele e a vederlo come “oggetto portatile”, come “valvola di sfogo”: mi mancavano la famiglia e gli affetti di una vita che avevo lasciato in Italia. Così pian piano questo strumento musicale, che in principio era solo un hobby, è diventato il mio compagno e poi un vero e proprio cavallo di battaglia nel campo del pop e dell’indie. Una volta tornata a Roma ho conosciuto infine Daniele Silvestri, al quale devo moltissimo come produttore e coautore dei miei maggiori progetti musicali, finora svolti quasi sempre in collaborazione con lui.

Delle collaborazioni con Pieraccioni e Fiorello, che ti hanno resa famosa, che mi dici?

Penso che il momento della svolta, l’occasione per farmi conoscere davvero dagli spettatori, è stato l’incontro con Leonardo Pieraccioni, che mi ha chiamata dopo avermi vista in alcuni video pubblicati su Instagram e TikTok, in cui naturalmente cantavo e suonavo l’ukulele. Non credevo di venire alla ribalta con dei reel sui social, ma è stato proprio da lì che è partito tutto! Dopo il brano per la colonna sonora del film di Pieraccioni, è stata la volta della chiamata di Fiorello per partecipare al live di VivaRai2, che mi ha permesso, fra l’altro, di conoscere tantissimi artisti e musicisti. Adesso, a malincuore, lascio Roma per trasferirmi di nuovo a Milano, ma spero di tornare presto… restate collegati! [ride]

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Jacopo Planet, un sound senza frontiere https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/jacopo-planet-un-sound-senza-frontiere/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/jacopo-planet-un-sound-senza-frontiere/#respond Fri, 28 Apr 2023 15:09:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18426 Jacopo Planet, nome d’arte di Jacopo Martini, ha infiammato la serata al Fabrique Club del 24 marzo. Audace, energetico e coinvolgente, non mi aspettavo durante l’intervista di trovare una persona così sensibile, poetica e a tratti anche timida. Tutte qualità che Jacopo mette al servizio della propria musica e che gli permettono di arrivare dritto […]

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Jacopo Planet, nome d’arte di Jacopo Martini, ha infiammato la serata al Fabrique Club del 24 marzo. Audace, energetico e coinvolgente, non mi aspettavo durante l’intervista di trovare una persona così sensibile, poetica e a tratti anche timida. Tutte qualità che Jacopo mette al servizio della propria musica e che gli permettono di arrivare dritto al cuore delle persone.

Ha vissuto girando il mondo tra Roma, Parigi e gli States, e ognuno di questi luoghi ha rappresentato un importante passo nella sua carriera e identità. Difficile non immaginarselo quando parla della sua infanzia tra bar e ristoranti jazz americani, e i primi live per strada a Parigi a soli 14 anni.  L’Italia gli ha dato il falsetto di Battisti e l’originalità di Lucio Dalla, la Francia le influenze elettroniche e gli USA lo hanno ispirato sul lato performativo. Tutti pezzi di un puzzle che però non si incastrano alla perfezione. Lui stesso confessa: «Non so come trovare un equilibrio ad esempio tra Francia e Italia: lo continuo a cercare, ma ancora non credo di averlo del tutto… la musica fluttua».

In realtà l’essere in bilico fra vari mondi come un trapezista non è un problema, ma ciò che rende il suo sound libero e sincero. Tra la musica che «lo fa stare bene e sentire a casa» cita il folk e il soul di Labi Siffre e Van Morrison, ma rimane molto attento alla scena contemporanea e ascolta Bad Bunny e la scena trap: «Sono molto legato alla musica di oggi e quando trovo qualcosa che mi piace voglio provarlo, sempre per vedere come ci sto dentro, come partecipare».

Quando gli chiedo come si svolge il suo processo creativo mi risponde che non riesce bene a spiegare come funziona, che tutto può nascere da un solo accordo o da una parola. Ma l’obiettivo è sempre quello di trasmettere emozioni: Jacopo vorrebbe che i suoi ascoltatori si immaginassero in un giardino fiorito tra aromi, cibi e bevande da ogni parte del mondo.

Invece, a proposito delle immagini, rivela che «per me in realtà è uno sforzo lavorare su questo piano. Parto sempre dalla musica e poi mi vengono in mente immagini che rappresentano il pezzo, che così finisce sempre per essere qualcos’altro rispetto a quello da cui ero partito. Alla fine ciò che si realizza è “quello che in quel momento si incastra meglio”, e tutto cambia. Come quando uno pensa di innamorarsi di una persona e poi si innamora di un’altra». 

Jacopo Planet

Jacopo parla per metafore e simbolismi a volte difficili da capire, più semplici da sentire.  Gli chiedo allora del cambiamento e anche qui sa sorprendere. «A volte ci si immagina in un modo ma poi scopriamo di essere diversi. Come quando ti vesti figo e ti senti figo, poi ti scattano una foto e dici “oddio chi è questo”. Anche le canzoni sono un modo sempre nuovo di scoprirsi».

La sua musica è in continua evoluzione: nonostante abbia studiato tanto, conserva l’ingenuità e la meraviglia dell’autodidatta e anche la scelta di cantare in diverse lingue nel suo EP Amour transalpino riflette la volontà di fare una musica che gli permetta di «raccontarsi in modo onesto e trasparente». «La lingua più difficile per scrivere è il francese. Ha una grande tradizione, è pulita, analitica. Quando ho visto che l’EP era nelle classifiche francesi per me è stato bellissimo perché vuol dire che anche lì qualcuno ama la mia musica. L’inglese è più semplice anche perché siamo abituati a sentirlo. È comodo, ma va usato nei momenti giusti, con parsimonia. Altrimenti può diventare una maschera».

L’ultima domanda che gli faccio è perché ha scelto Jacopo Planet come nome d’arte. Forse doveva essere la prima, ma la sua risposta dà un senso più profondo a quello che ci ha raccontato. La verità “non ufficiale” è che Instagram non gli accettò solo “Jacopo”, come avrebbe voluto chiamarsi, e si ispirò al profilo di Tommy Cash che si era chiamato World. «Planet è un mondo senza frontiere stilistiche e linguistiche perché sempre alla ricerca di nuovi generi. Sui social faccio video e interviste a persone da tutto il mondo. Ma forse questa risposta è arrivata a posteriori, come quando fai un tatuaggio e solo dopo dici “ah, forse l’ho fatto per quello”».

Jacopo ci lascia con la promessa di un pezzo in uscita prossimamente («una vera bomba») e di date live insieme a Popa, artista di origine lituana. Lavorerà anche a nuova musica, ma non sa dirci quando perché quello «succede e basta».

 

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Lorenzo Disegni, autoironico e sincero https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/lorenzo-disegni-autoironico-e-sincero/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/lorenzo-disegni-autoironico-e-sincero/#respond Mon, 17 Apr 2023 07:42:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18377 Lorenzo Disegni ha 27 anni e una carriera musicale davanti a sé: i nostri lettori se ne sono resi conto sentendolo suonare al Fabrique Club del 24 marzo scorso a EXP. Fin da bambino Lorenzo è stato cresciuto a «pane e Beatles» ed è da sempre stato attratto dalla cultura e dalla musica che girava […]

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Lorenzo Disegni ha 27 anni e una carriera musicale davanti a sé: i nostri lettori se ne sono resi conto sentendolo suonare al Fabrique Club del 24 marzo scorso a EXP. Fin da bambino Lorenzo è stato cresciuto a «pane e Beatles» ed è da sempre stato attratto dalla cultura e dalla musica che girava oltre i confini italiani; suo padre gli faceva ascoltare gli artisti inglesi degli anni ’60 mentre la madre i grandi cantautori italiani, tra tutti De Gregori. «Non so come, quando o perché mi sono avvicinato alla musica, ma ricordo che fin da bambino scrivevo pezzi strani e fuori di testa con mia sorella», rammenta ridendo.

La passione per la musica e per i viaggi lo hanno inevitabilmente portato a trasferirsi a Londra per continuare gli studi. Un’anima divisa quindi tra due città – Roma e Londra – ha dato vita a una musica che lui stesso definisce «psichedelica, autoironica e sincera», che alla scena inglese ruba il sound alla Beatles, si lascia ispirare anche dal grunge americano degli anni ’90, mentre per i testi la più grande ispirazione resta il cantautorato italiano.  «L’equilibrio tra i due mondi lo trovo essendo onesto in quello che faccio, mettendo dentro quello che ho urgenza di esprimere». E, sul suo processo creativo, aggiunge: «Cambia sempre. Succede che inizio a scrivere mentre che parlo con qualcuno o anche mentre guido. Giro sempre con il taccuino. A volte c’è prima la musica, a volte prima il testo, non ho un vero schema».

Lorenzo Disegni

Così è stato anche per Era ora, un brano fresco ma con note malinconiche che parla di una separazione: «Era ora è tutta autobiografica, scrivo della mia vita perché ha un effetto terapeutico e catartico. Solo dopo aver finito quel pezzo sono finalmente riuscito ad andare oltre quella storia». Era ora anticipa l’album di debutto in uscita a breve, che continuerà sulla linea dei brani già pubblicati ma con un sound decisamente meno pop. «È un album che ha fermentato tanto: doveva uscire durante la pandemia, ma poi abbiamo rimandato e così, con il tempo, sono ritornato sui pezzi dando loro una nuova veste e con un gusto un po’ più personale. I pezzi che erano già usciti hanno una cornice abbastanza pop, mentre questi nuovi hanno un sound più corposo».

La musica di Lorenzo Disegni è una musica evocativa, che parla anche per immagini. L’altra sua più grande passione infatti sono i film: «C’è una forte connessione tra il cinema e la mia musica. I miei pezzi sono molto cinematografici, i miei testi credo sembrino delle mini sceneggiature». E conclude: «Vorrei che le persone ascoltando le canzoni evocassero il ricordo di qualcosa di impercettibile ma reale, un ricordo indefinito ma molto forte, qualcosa che non sanno quando è accaduto o con chi, ma che sanno che è successo».

Sul suo futuro Lorenzo preannuncia tante novità. Questa estate lo vedremo portare la sua musica in giro e sta già lavorando in studio al suo secondo album. Intanto venerdì scorso è uscito il suo ultimo singolo Faremo finta (spesso).

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Moses Christopher: superare i limiti con la musica https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/moses-christopher-superare-i-limiti-con-la-musica/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/moses-christopher-superare-i-limiti-con-la-musica/#respond Wed, 08 Mar 2023 13:03:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18247 Ho trovato Moses Christopher per caso. Stavo scorrendo le mie storie su Instagram quando mi sono imbattuto in una delle sue canzoni e sono rimasto profondamente colpito. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea saperne di più sulla musica di questo artista gentile e disponibile. Questa è la tua prima intervista con una testata […]

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Ho trovato Moses Christopher per caso. Stavo scorrendo le mie storie su Instagram quando mi sono imbattuto in una delle sue canzoni e sono rimasto profondamente colpito. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea saperne di più sulla musica di questo artista gentile e disponibile.

Questa è la tua prima intervista con una testata italiana. Parlami di te.

Mi chiamo Moses Christopher, sono un cantautore, musicista e produttore attualmente residente ad Aveiro, in Portogallo. Sono nato negli Stati Uniti vicino a New York e sono di origine portoghese e italiana. Oltre alla mia passione per la musica, sono molto attratto dalla natura e dagli sport all’aria aperta come l’escursionismo, la mountain bike, il surf e lo skateboard. La connessione con la natura è diventata una parte essenziale della mia ispirazione musicale.

Sulla tua pagina Instagram hai molti video in cui ti esibisci per strada in diverse città. Cosa significa suonare per strada?

Suonare ed esibirsi per strada significa molte cose per me ed è diventata una parte importante del mio viaggio come artista e performer. Suonare per strada mi ha aperto molte porte e mi ha aiutato a evolvermi come cantautore e artista. È una prova di perseveranza e pazienza e dovrebbe essere un rito di passaggio per molti cantanti. Non è facile e a volte può essere piuttosto umiliante. Mi ha aiutato a capire quanto amassi davvero la musica e so che continuerò nonostante tutto a suonare per la gente.

Come è cambiato il tuo approccio alla musica nei tuoi dieci anni di attività?

Sento di essere cresciuto e di essermi evoluto come cantautore e anche come produttore. Mi sforzo di andare sempre più in profondità e superare i miei limiti come artista e ora, con l’esperienza, sento di potermi esprimere ancora più facilmente e in modo più chiaro attraverso la mia musica. Sono più vicino a fare l’arte che mi piace. 

Moses ChristopherNel 2021 hai vinto due premi con due canzoni che appartengono a generi completamente diversi: hip-hop/rap e dance. Qual è il tuo genere preferito?

Gli stili musicali che preferisco sono il rock e il blues. Tuttavia mi sono preso del tempo per studiare e conoscere anche altri generi, questo il motivo che mi ha spinto a collaborare e produrre diversi generi musicali. 

Puoi dirci qualcosa sul tuo EP Perception pubblicato da poco?

Perception è il mio primo EP ufficiale ed è stata una esperienza importantissima per me. Ho scritto, registrato e prodotto tutta la musica da solo nel mio studio. L’ho fatto durante la pandemia, che ovviamente ha avuto una grande influenza sullo stile e sulle canzoni. Durante il processo di scrittura e registrazione sono stato in grado di elaborare, destrutturare e razionalizzare molti pensieri e sentimenti che non sarei mai stato in grado di fare senza la musica. Non è stato facile lavorare tutto da solo, ma è stata una grande opportunità per mettere alla prova i miei limiti e le mie capacità.

Ci sono due canzoni che mi hanno colpito particolarmente: We are all Refugees e Escape. Puoi raccontarci la loro storia?

We are all Refugees è stato scritto durante il periodo in cui vivevo a Porto, in Portogallo, nel 2016. C’era la guerra in Siria e molti rifugiati stavano migrando verso i paesi europei in cerca di pace e libertà. Ho avuto il piacere di incontrarne parecchi e questi incontri mi hanno aperto gli occhi sulle disuguaglianze e ingiustizie di questo mondo. Ho iniziato a comporre la canzone per le strade di Porto, dove ho girato il videoclip della canzone. Volevo condividere il messaggio che alla fine siamo tutti rifugiati e dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri. Tutti cercano amore, pace, amici e una casa, noi non siamo poi così diversi da coloro che sono costretti a lasciare il proprio paese e fuggire. Escape invece è stato scritto durante la pandemia mentre lavoravo al mio EP Perception. Come molte persone durante quel periodo ho iniziato ad avere molte paure e pensieri negativi; meditavo quasi ogni giorno e facevo esercizi di respirazione, ma non sembrava aiutare. Il pensiero della costrizione, della lontananza dalla natura e dalle altre persone è stato la radice della mia ispirazione dietro la canzone

 

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RBSN: la musica si fa per amore, non per soldi o fama https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/rbsn-la-musica-si-fa-per-amore-non-per-soldi-o-fama/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/rbsn-la-musica-si-fa-per-amore-non-per-soldi-o-fama/#respond Sun, 09 Oct 2022 13:41:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17789 Classe ’96, Alessandro Rebesani aka RBSN è un giovane e talentuoso compositore, produttore e musicista italiano. La sua strada si è intrecciata con quella di Fabrique nel luglio di questo anno, in occasione dell’evento estivo della rivista, dove Alessandro ha accompagnato la serata con le sue canzoni che fondono psichedelia, jazz, folk ed elettronica. Le […]

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Classe ’96, Alessandro Rebesani aka RBSN è un giovane e talentuoso compositore, produttore e musicista italiano. La sua strada si è intrecciata con quella di Fabrique nel luglio di questo anno, in occasione dell’evento estivo della rivista, dove Alessandro ha accompagnato la serata con le sue canzoni che fondono psichedelia, jazz, folk ed elettronica. Le sue esperienze accademiche iniziano a Roma con lo studio della chitarra, continuano nel 2015 al Berklee College of Music di Boston e poi nel 2018 al College of Music di Leeds. Dopo anni di esperienze internazionali accanto a importanti nomi europei, RBSN approda a Ropeadope, etichetta statunitense per cui ha pubblicato a maggio il nuovo singolo, Stranger Days, tratto dall’album omonimo da poco disponibile sulle piattaforme.

Quando hai capito che volevi fare della musica il tuo lavoro?

Il momento di svolta per il passaggio da musica-passione a musica-lavoro è stato il supporto dello studio di Trastevere Pyramid e del produttore Luca Gaudenzi. Con lui ho realizzato un EP che ha fatto sì che cominciassi a lavorare con il mio nome, i miei brani, il mio entourage. Da quel momento si sono aggiunte tutte le altre persone con cui ora collaboro. Se poi ti dovessi dire cosa mi ha fatto realmente capire di voler fare musica “da grande”, allora ti dico guardare School of Rock a 9 anni. Mi sono detto: “Sì, voglio fare questo!”.

Studi prima a Roma, poi negli USA e infine in UK. Che differenza hai notato tra le diverse concezioni di musica di questi tre paesi?

C’è sicuramente un modo diverso di vivere la musica. In USA e UK la musica è a ogni angolo, ed è anche un po’ più libera da scopi commerciali e modaioli. Chi fa musica lì non lo fa per farsi un nome o per guadagnare, ma per creare un ambiente sano e godibile da tutti. Quando penso all’Inghilterra, penso agli eventi di South London, dove ti scannerizzano il passaporto, ti tolgono il telefono e stai lì a ballare e ad ascoltare generi diversi per ore. In Italia invece gli eventi di ogni tipo, dai concerti alle degustazioni di vini, sono ancora troppo volti al networking e al chit-chatting. Non si guarda mai l’oggetto che in teoria è protagonista dell’occasione, ma si è sempre alla ricerca di qualcuno di nuovo da conoscere. E la fruizione di contenuti artistici di qualsiasi forma è ancora un po’ elitaria, mentre in altri paesi si abbassano i prezzi per far sì che tutti riescano ad accedervi.

RBSNLa musica è parte essenziale del cinema: hai mai lavorato all’interno di un progetto audiovisivo?

Sì, mi è capitato più volte e in varie forme. Qualche tempo fa mi è successo di lavorare, sia come attore che come musicista, al cortometraggio Trittico, diretto da Flaminia Mereu e Filiberto Signorello, con Federico Majorana e Francesco Centorame. Lì ho capito che la musica all’interno di un film è un elemento centrale per stimolare l’emozione del pubblico. Sono cambiati i tempi degli Henry Mancini o Ennio Morricone che scrivevano pezzi incredibili che funzionavano benissimo anche da soli. Oggi c’è un sound design che amplifica la dialettica del film e non è un extra-layer, ma più un within.  

C’è un film che secondo te non potrebbe esistere senza la colonna sonora?

Un esempio di brano che aumenta la suggestione già presente nella scena è The Wolves dei Bon Iver in Come un tuono. Il brano non è stato scritto per il film, ma c’è un’ottima comunicazione tra il pezzo e la scena, che la rende ancora più suggestiva. Se invece devo pensare a film in cui il soundtrack è qualcosa di totalmente intessuto alle immagini, mi vengono in mente due lungometraggi molto diversi, ma che usano la colonna sonora in modo simile. Il primo è Dune di Denis Villeneuve, dove Hans Zimmer con la sua tecnologia avanzatissima ha creato frequenze molto basse, di 45htz, che fanno vibrare fisicamente. Il secondo è Capri-Revolution di Mario Martone, dove le musiche di Apparat quasi non si distinguono dai rumori naturali delle scene. Grazie all’uso di sintetizzatori e macchine super moderne, il compositore riesce a dare un’impronta melodica a suoni assolutamente naturali, come il fruscio delle foglie o i rumori prodotti dagli uomini. 

Con la pandemia abbiamo attraversato un momento in cui l’arte si è dovuta fermare. Come hai trascorso questo periodo di chiusura?

All’inizio del 2020 ero un ragazzo che veniva da un anno molto prolifico, da tanti successi e dal primo tour europeo. Mi sono rifugiato nello studio e nella scrittura, ho metabolizzato le esperienze vissute. Ho inoltre rimodulato la band, inserendo quello che ora è uno dei pilastri del progetto RBSN, il batterista Federico Romeo. Ti posso dire che la pandemia mi ha dato modo di capire come crescere e sicuramente mi ha aiutato a farlo! Perché firmare con una super distribuzione statunitense da Roma, fare un disco a Trastevere che viene masterizzato a Berlino e mandato a New York è un giro molto figo…

E ora che si può ricominciare, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il nuovo disco è appena uscito su tutti i dispositivi digitali e sarà su Bandcamp, se uno vorrà ordinarsi un vinile. Su Roma ci sarà un delivery a mano fatto dal sottoscritto!

Mi fai il nome di una persona per te importante sotto il profilo artistico?

Ci sono molte figure che mi hanno guidato. Però, se dovessi sceglierne una, ti direi l’artista statunitense Nick Hakim: il suo è un suono nuovissimo per un mondo super post-moderno. Hakim mi piace anche perché è simile a noi, è uno che mentre componeva il suo primo album, Green Twins (2017, ATO Records), faceva le consegne a domicilio.

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Lorenzo Lepore, una voce emergente a metà strada fra De Gregori e Fulminacci https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/lorenzo-lepore-una-voce-emergente-a-meta-strada-fra-de-gregori-e-fulminacci/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/lorenzo-lepore-una-voce-emergente-a-meta-strada-fra-de-gregori-e-fulminacci/#respond Wed, 20 Jul 2022 12:28:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17416 Lorenzo Lepore, classe ’97 è un cantautore classico e atipico allo stesso tempo. Nonostante la sua giovane età può vantare una bella esperienza: già affermato nella scena emergente romana, si inserisce bene nel mercato attuale grazie al suo stile con il quale riesce a unire il cantautorato tradizionale (a cui si ispira) con l’attualità, la […]

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Lorenzo Lepore, classe ’97 è un cantautore classico e atipico allo stesso tempo. Nonostante la sua giovane età può vantare una bella esperienza: già affermato nella scena emergente romana, si inserisce bene nel mercato attuale grazie al suo stile con il quale riesce a unire il cantautorato tradizionale (a cui si ispira) con l’attualità, la modernità e le esigenze dell’industria musicale. Seppur con un occhio ai grandi del passato, nulla ha da invidiare ai più moderni avanguardisti. E proprio qui, a metà strada fra De Gregori e Fulminacci, troviamo Lorenzo, che ci ha raccontato un po’ di sé.

Iniziamo dal principio: vuoi presentarti? 

Ho 24 anni e sono un cantautore di Roma. Faccio questo da quando mi sono ritrovato una chitarra in mano a tredici anni e casualmente ho scritto una canzone con gli unici tre accordi che conoscevo. Ero in gita con gli scout e quella canzone rimase in testa a tutti i presenti. Da quel momento ho capito che quella era la mia strada e non ho mai smesso.

Come avviene il tuo processo creativo?

Secondo me un cantautore non fa altro che mettere in musica le cose della vita. L’arte è sempre presente, ma noi dobbiamo coglierla e non sempre siamo predisposti a farlo. Poi però arriva un momento magico in cui mi sento di imprimere delle parole nella musica. E quando avviene è una liberazione, un momento di luce in cui viene spontaneo scrivere. Come fare un tuffo in un’acqua purissima, come sorridere veramente senza chiedersi perché.

Quindi, arrivato fino a qui, cosa diresti al Lorenzo alle prime armi?

C’è stato un grande e repentino cambiamento. Perché si cresce e quindi si migliora. Ho fatto tante esperienze, ho suonato tanto su tanti palchi. Ho studiato molto, ad esempio l’Officina Pasolini è stata fondamentale. Ma quello che rimpiango del passato è che si perde un po’ di spontaneità e d’innocenza. Purtroppo ho dato forse troppo ascolto alle opinioni di chi avevo intorno e per questo ora è più raro trovare quotidianamente quella luce che ti fa mettere la vita in musica. Quando si è a contatto con etichette discografiche, produttori, addetti ai lavori, ognuno ha la sua idea e, ovviamente, non si può piacere a tutti. Questo forse mi ha un po’ danneggiato, ma la vita è anche questa: mettersi a confronto con un pubblico consistente. Se potessi incontrare il me di anni fa vorrei riprendermi quella luce, fregarmene di più.

A tal proposito: ora che sei in un’etichetta discografica, come vivi il confronto fra l’industria musicale e l’arte in sé e la tua necessità di espressione?

Ho avuto la grande fortuna di trovare un produttore (Tony Pujia) che ha preso a cuore la parte più controcorrente della mia musica. Futuro, il primo singolo prodotto dalla T-Recs, è un brano poco mainstream: è tutto suonato, senza musica elettronica, spontaneo e improvvisato. Quasi un freestyle su chitarra in canzone d’autore. Quindi il fatto che il team ha accolto questa musica al posto di cose più commerciali mi ha sorpreso, mi aspettavo che un’etichetta pretendesse hit per vendere e basta.

Un anno fa hai vinto un titolo prestigioso: il Premio Miglior Testo di Musicultura. Com’è stata questa esperienza?

Musicultura l’ho sempre vista come un punto da raggiungere e un esempio per tutti i cantautori. Quando è nata negli anni ’90 i primi a metterci la faccia sono stati artisti come Fabrizio de André, Montale. Da lì sono passati i più grandi, come De Gregori e Dalla e, sempre lì, sono nati nuovi cantautori bravissimi che ascoltiamo tutt’ora. Ritrovarmici dentro dopo anni che la vivevo da spettatore è stato incredibile. Ero nel teatro e sorridevo, ridevo, perché non ci credevo. Sento che questa esperienza mi ha consacrato, è stata una conferma del fatto che forse posso farcela.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Non posso non nominare Venditti perché mi ha fatto capire che volevo fare il cantautore. Quando i miei amici si guardavano le partite della Roma io ascoltavo le sue canzoni. Poi De Gregori, forse più importante, che è realmente il mio punto di riferimento, perché è un artista che ha sempre raccontato fregandosene di quello che c’era intorno. È difficile trovare qualcuno che mi trasmetta le stesse sensazioni, forse vivo più nel passato che nel presente. Oggi mi capita di apprezzare soprattutto coetanei ed emergenti che mi emozionano e che trovo più validi ed interessanti rispetto a ciò che è più mainstream.

Lorenzo Lepore

Progetti futuri?

Questa estate mi ha dato il piacere di trovarmi dentro tre concorsi importanti: Premio Bertoli, Premio Amnesty International e Premio Via Emilia, quindi sarò impegnato nel partecipare a questi tre eventi. E lo sarò anche nel fare concerti in giro per l’Italia. A breve poi uscirà il mio disco, ci sto lavorando e non vedo l’ora di presentarlo e condividerlo con tutte le persone che vogliono accoglierlo. Sarà un passo decisivo e fondamentale perché dentro c’è tutta la mia vita, il mio pensiero, le mie idee nella forma più pura.

E qual è il fondamento del tuo pensiero che esprimi nelle canzoni?

Credo che sia racchiuso nella canzone Meglio così, penultimo singolo uscito, che racconta della lotta continua tra fare quello che si vuole e cercare di compiacere gli altri. Quando si ha un’esigenza, un’urgenza, una verità che si vuole urlare al mondo bisogna continuare a farlo anche se nessuno ti ascolta. Perché la diversità è la più grande ricchezza che abbiamo.

Ultima, difficile, maledettissima domanda: perché fai tutto questo?

Perché non potrei fare altrimenti. Mi sveglio la mattina e ascolto musica, in macchina ascolto musica, con gli amici ascolto musica, la sera vado ai concerti. La musica è ossigeno per me. Quindi, se è ossigeno fare musica, è ossigeno che posso dare agli altri.

* Andrea Strange è un giovane cantautore romano, giunto secondo al Premio Fabrizio De André e tra i finalisti dell’1MNEXT 2022. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con Fabrique alla ricerca dei talenti più “caldi” del momento.

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IRE, il nuovo talento della musica indie spagnola https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/ire-il-nuovo-talento-della-musica-indie-spagnola/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/ire-il-nuovo-talento-della-musica-indie-spagnola/#respond Thu, 16 Jun 2022 12:55:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17287 Irene Arrospide, meglio conosciuta come IRE, è un nuovo talento della musica spagnola che scommette sull’indie-pop e sulla sperimentazione. Con la sua voce sognante e un ritmo  coinvolgente, è un’artista che rimane impressa. IRE, come ti sei avvicinata alla musica? Fin da piccola ero appassionata di musica e canto. In casa mia si è sempre […]

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Irene Arrospide, meglio conosciuta come IRE, è un nuovo talento della musica spagnola che scommette sull’indie-pop e sulla sperimentazione. Con la sua voce sognante e un ritmo  coinvolgente, è un’artista che rimane impressa.

IRE, come ti sei avvicinata alla musica?

Fin da piccola ero appassionata di musica e canto. In casa mia si è sempre respirato molta arte, ma è stato mio nonno (a cui piaceva farci concerti con la chitarra) che mi ha “dato il la”. Inoltre, anche se mi piacevano altri strumenti, la chitarra mi sembrava perfetta per accompagnare la mia voce. Ho iniziato cantando le cover e poi a comporre la mia musica.

Come si è evoluto il tuo stile musicale nel corso degli anni?

Penso di aver sempre avuto un mio stile, non saprei davvero come descriverlo o definirlo. Ma posso dire che rispetto alle prime canzoni pubblicate su Spotify, ora sono a una svolta. Fino allo scorso anno il mio era un progetto indie, ma ora mi sto muovendo verso una direzione molto più sperimentale.

Cosa ti ispira a fare musica?

Sono ispirata dalle cose più comuni a quelle più curiose. Dall’amore, dall’odio, dalle persone, un paesaggio visto dal finestrino dell’automobile, da serie e film, dalle parole che sento… Davvero non lo so, le idee mi vengono in testa e le canto. Inoltre da molte influenze musicali: se dovessi evidenziarne alcune in questo momento direi La Roux, Angus&Julia, Santigold, Portishead, BENEE, Lana del Rey.

RE, cantante e musicista spagnola

Hai mai sognato di scrivere musica per il cinema?

Adoro il cinema e la colonna sonora in un film è fondamentale, sarebbe un grande onore scriverne una. Come ogni cosa della mia vita mi piace viverla al meglio, quindi quando guardo un film lo vivo come se fossi la protagonista.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Ti vedremo presto in Italia?

In questo momento sto lavorando a un progetto che mi entusiasma davvero. Un progetto diverso, sperimentale e con un produttore importante. Mi piacerebbe portarlo in Italia il prossimo anno.

 

 

 

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