Chiara Bersani, protagonista alla Biennale Danza

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Chiara Bersani in un momento di "Gentle Unicorn". Ph: Samuel Webster

Premio Ubu 2018, Chiara Bersani è una giovane regista, coreografa, performer e attrice piacentina dal talento indiscusso. È tra i protagonisti della Biennale Danza, in laguna da oggi fino al 25 ottobre, dove porterà il suo spettacolo Gentle Unicorn. Le idee di Chiara Bersani sul rapporto fra corpo e sguardo, i rischi dell'”abilismo” e il valore della provincia sono da annotare e andare a rileggersi ogni tanto.

Quando hai incontrato il teatro?

Come spettatrice, da bambina. Il teatro c’è sempre stato. A dirla tutta, al liceo avrei voluto seguire il laboratorio di giornalismo, ma non potevo: era nei giorni in cui dovevo fare fisioterapia. Allora mi sono iscritta al laboratorio teatrale. Quindi si può dire che ci sia stato un pizzico di casualità! A ogni modo, vivendo in un momento storico in cui non era contemplata per una persona disabile la possibilità di diventare attrice, tenevo questo mio desiderio a una certa distanza. È stato solo quando a Parma ho incontrato la realtà creativa di Lenz Rifrazioni che ho iniziato a considerarlo un lavoro possibile. Poi ho conosciuto Alessandro Sciarroni e abbiamo fondato Corpoceleste. Da lì è stato un andare per tentativi, intessere rapporti, cercare maestri – Alessio Maria Romano, Rodrigo García, Jerome Bel… – e pian piano qualcuno ha iniziato ad ascoltarmi quando dicevo che c’era un problema se un artista disabile non riusciva a lavorare in Italia.

Come hai capito che volevi essere un’autrice, oltre che una performer?

Al debutto del mio lavoro come attrice vennero scritte da giornalisti, su testate nazionali, recensioni molto positive, ma in cui l’accenno delle mie competenze veniva sempre dopo un’importante descrizione del mio corpo. Ed erano descrizioni… forse dovrei dire involontariamente violente, ma direi più incoscientemente violente, perché una persona che di lavoro scrive non può non sapere che «corpo deforme» è un’espressione molto forte. Fu un colpo violentissimo per me, perché io ero pronta a un pubblico che magari avrebbe reagito al mio corpo in un certo modo, ma a un professionista che non avrebbe saputo leggere il mio corpo, no. Questa pratica di sottolineare la stranezza del mio corpo è andata avanti per anni, fino al punto che per me è diventata molto difficile da sostenere, o meglio, è diventato difficile accettare che non si parlasse della questione. E quindi ho iniziato a macinare nella testa l’idea di diventare autrice.

Nel lavoro Gentle Unicorn è molto forte il rapporto tra il tuo corpo in scena e lo sguardo degli spettatori.

È uno spettacolo che si concentra proprio sulla tematica corpo-sguardo, cerca di farla esplodere. Desideravo che fosse veramente il rito di una comunità, di un gruppo di persone in una stanza che si incontra. E ovviamente nessuno se ne può chiamare fuori, perché siamo a teatro, dove anche se va in scena il più classico degli spettacoli di tutto l’universo, lo spettatore dell’ultima fila che tossisce influenza il lavoro: non è come al cinema, non sei mai fuori. Sei sempre dentro.

L’incontro è un concetto chiave della tua poetica.

Sì. Partendo dalle letture fatte sul mio corpo, rendendomi conto che in realtà vengono fatte letture su tutti i corpi, ho messo a fuoco il fatto che non ci prendiamo il tempo per guardarci e andare oltre il primo impatto. Non me la sento di mettere sotto inchiesta il pregiudizio, che è un meccanismo umano, animale, di difesa. Ma sento invece il bisogno di mettere in discussione il tempo che non ci prendiamo per verificare poi quel pregiudizio, che solo un incontro dai tempi “altri” può mettere in crisi. In Goodnight, peeping Tom, ad esempio, io e gli altri tre performer – Marco Agostin, Matteo Ramponi, Marta Ciappina – siamo in scena per quattro ore, e i fruitori possono entrare cinque alla volta, per 55 minuti massimo, durante i quali sono chiamati a scegliere se passare del tempo da soli con uno di noi, e con chi. Tutto quello che accade lì dentro è un dialogo senza parole, è una continua scelta reciproca. La responsabilità del pubblico sta nello scegliere quanto osare durante quei 55 minuti.

chiara bersani in gentle unicorn
Chiara Bersani in “Gentle Unicorn”

Il tuo ultimo lavoro, Il canto delle balene, è ispirato al whale watching.

Avevo l’idea di lavorare su una vicinanza che non necessita della prossimità. Sono partita dallo spirito di comunità delle balene, che possono comunicare a tantissimi chilometri di distanza attraverso un canto emesso dalla calotta cranica. Nello spazio scenico ci sono infatti moltissime sedie dove le persone possono sedersi, scegliendo il proprio punto di vista, e il performer (Matteo Ramponi) fa parte del pubblico. Ciascuno spettatore è invitato a vivere lo spettacolo “in solitudine”, a cercarsi uno spazio proprio, non di gruppo. Fa un po’ sorridere pensare che abbia debuttato a marzo, l’ultimo giorno prima del lockdown, perché ha l’aria di un distanziamento sociale ante litteram.

Perché hai scelto il teatro?

Io vengo dalla provincia, e ora, quando ci torno per presentare un lavoro, so che lì troverò le reazioni che mi emozionano. Sono quelle che negli anni mi hanno permesso di lavorare sui progetti, magari fatto cambiare rotta. Raramente in una grande città o in un festival internazionale ho avuto una rivelazione su quello che stavo facendo. Dalle date in provincia invece sì! Quindi: perché ho scelto il teatro? Credo, infine, veramente per il rapporto esclusivo che può avere con la provincia.

Il tuo lavoro sui corpi ha un forte significato politico. Non a caso in passato hai parlato dei rischi dell’“abilismo”…

Senza andare sul melodramma, a quanti è capitato di rompersi una gamba e rimanere a casa tre mesi? Iniziare ad avere difficoltà con il lavoro, o perderlo proprio, rimanere senza sovvenzioni, incontrare insomma una serie di difficoltà: in quel momento, quelle persone si stanno scontrando col pensiero abilista, che è un modo di pensare basato sul presupposto che tutto funzioni sulla falsa riga dei corpi abili, da un punto di vista atletico, ma anche cognitivo, psicologico, neurologico, sensoriale, emotivo, relazionale. È un pensiero che esclude la fragilità del corpo. Ma l’essere umano è fragile. Ogni animale è fragile. L’umano è un animale fortemente sociale e comunitario, per il quale l’accudimento, l’integrazione e la vita condivisa sono fondamentali. Poi, non per tirare acqua al mio mulino, ma io sono profondamente convinta che le persone disabili siano fondamentali per la società: meno una società è eterogenea, e meno è felice. Le persone disabili, come tutte le minoranze che hanno possibilità di prendere voce, aprono altri immaginari, altri mondi possibili.