I documentari musicali sono finiti?

Il segreto di Liberato
"Il segreto di Liberato" di Francesco Lettieri e Giorgio Testi, un esempio da seguire per i doc musicali?

Per fare un documentario musicale che abbia senso serve almeno uno di questi due elementi: serve, banalmente, una storia, un motivo; e serve che chi lavora intorno agli artisti, oltre ovviamente all’artista stesso, lasci mano libera al regista. Sembra facile, ma la realtà è un’altra: in Italia siamo sommersi da lavori deboli, se va bene autocelebrativi, più spesso senza niente da dire o da aggiungere, incentrati su carriere (ancora) brevi e irrilevanti per essere anche solo prese in considerazione. Chiunque, ecco, ha un documentario dedicato. Perché? Ci arriviamo.

Intanto diciamo che il punto non riguarda solo noi, l’inflazione è globale e non ha senso pretendere un Leaving Neverland (2019) ‒ il documentario Netflix sui presunti abusi sessuali di Michael Jackson, quindi un lavoro d’inchiesta, che esula dall’intenzione dei protagonisti stessi ‒ anche quando una zona d’ombra, semplicemente, non c’è. Così come non è un problema che scopriamo oggi: vent’anni fa, nel tentativo disperato di tenere in vita i CD come supporto fisico, di solito ai dischi si allegava un DVD con il making of dell’album in questione; inutile dire che il più delle volte era un onesto «dietro le quinte» con poco o niente da offrire che non fossero immagini qualsiasi in studio o i viaggi in Africa di Jovanotti ripresi con il telefonino (e all’epoca sapete che telefonini c’erano). Però almeno il profilo era basso: non c’erano le piattaforme di streaming a produrli, non c’era questa necessità di promuoverli in pompa magna; non c’erano, in generale, chissà quali pretese dietro.

Musicisti come brand

A far saltare il banco ‒ a riempirci, cioè, di documentari che lasciano pochissimo, ma che ci vengono venduti come epocali, essenziali, da vedere ‒ è stato un cambiamento di paradigma di cui questa invasione è la conseguenza visibile a valle. A monte, oltre allo strapotere delle etichette e il loro orizzonte ridotto rispetto alle voci un minimo dissidenti, con il risultato di appiattire su toni trionfalistici ogni trattazione sui loro artisti (il disco di platino di qui, il record di streaming di là…), c’è la necessità di vendere i cantanti stessi come un qualcosa di diverso rispetto a ciò che erano. Lo dimostra, eccoci, Taylor Swift: oggi i musicisti sono narratori, costruttori di mondi; non bastano le canzoni, c’è da mettere in piedi una storia ampia e coinvolgente, da veicolare dei valori (sì, come fanno i brand). I brani sono parte di universi più grandi. Chiedere, tra le tante, a Elodie, la cui carriera è decollata quando le varie Due, Tribale eccetera sono diventati inni alla libertà (da cui la partecipazione al Pride) che contengono all’interno, come emanazione, la scalata di una ragazza dai quartieri popolari e la famiglia disastrata alla cima, peraltro in un ruolo, la popstar donna, che da noi ha pochi precedenti. Sento ancora la vertigine (2023), su Prime Video, incarna bene questo cortocircuito: è stato realizzato convinti che ci volesse, che servisse raccontare una storia per rafforzare un racconto che di per sé non ha niente di sbagliato; ci si è schiantati, però, con un contenuto ancora debole, con poco da dire. D’altronde parliamo di un’industria, quella musica, che sta mandando i nuovi artisti a schiantarsi in tour negli stadi insostenibili: per uno che, quasi da esordiente, ce la fa, tanti altri non vendono biglietti a sufficienza, tanto che questa corsa a diventare grandi troppo in fretta si sta trasformando in un bagno di sangue. I documentari precoci e l’impoverimento del documentario stesso come strumento di racconto sono lo specchio di questa mentalità. Con riflessi su tutti.

Antipop
Il documentario su Cosmo, “Antipop” (ph: Nicholas Garlisi).

Non è giusto, infatti, sparare solo sui nuovi. Chiaro, se ci fosse del sangue da mostrare sarebbe tutto diverso, come testimonia How I’m Feeling Now (2023), ricamato da Netflix sulla lotta quotidiana della popstar mondiale Lewis Capaldi. Ma a volte basta un’idea di regia azzeccata per fare grandi cose: in Antipop (2023, è su Mubi) Cosmo è, sì, protagonista, ma non compare quasi mai e il racconto è incentrato su chi gli sta intorno e su come il contesto influenzi la sua musica; mentre X sempre assenti (2023, sempre su Mubi) è perfetto nella sua atipicità per restituire il perché i Verdena sono uno dei grandi errori di sistema della musica italiana. Ma qui entrano in ballo gli artisti, la loro voglia di mettersi in gioco. Che spesso, s’intende, non c’è.

Venerati maestri e buchi nell’acqua

E non è neanche vero che raccontare i mostri sacri sia una garanzia, anzi. Di base, artisti di livello enorme pretendono una centralità anche attoriale nel progetto e non si concedono volentieri (e giustamente, peraltro) ai tribunali dell’inquisizione. Così, per un Vasco Rossi che magari non sarà al 100% sincero e controlla la narrazione su di sé, ma almeno riempie lo schermo e rende la serie evento Netflix Il supervissuto godibile nel ripercorrere ascese e cadute, il vizio più frequente, in Italia, è quello di approcciarsi ai venerati maestri in maniera servile, accondiscendente. Specie se non sono più in vita. Il risultato è una generale banalizzazione di vicende più complesse. Siccome chiunque ha bisogno di un documentario, e bisogna farlo in fretta, perché lo fanno tutti, ci si ferma in superficie. Caro Battiato, una lunga digressione su Franco Battiato a cura di Pif, in onda sulla Rai a inizio 2022 a realizzata con le voci raccolte a margine del concerto tributo dell’Arena di Verona con il meglio della musica italiana, era stato sommerso di critiche per l’approccio, diciamo, facilone. Lo stesso di cui soffre Io, noi e Gaber, dove il ritratto di Giorgio Gaber passa prima di tutto per le parole dei suoi famigliari (ci mancherebbe), ma è interessante solo quando il sodale di sempre, Sandro Luporini, parla delle loro routine di lavoro, mentre gira a vuoto se il resto della musica italiana di oggi, di nuovo, deve dire la sua (e lo fa spesso, purtroppo). Quasi mai, insomma, capita di trovarsi davanti a film come Ennio di Giuseppe Tornatore, a opere più modeste ma ambiziose come Senza fine su Ornella Vanoni, o con alle spalle una ricerca d’archivio sopra la media (Per Lucio su Lucio Dalla di Pietro Marcello, un piccolo kolossal). Lo standard è piuttosto Vengo anch’io, il lavoro su Enzo Jannacci che preso dall’urgenza di arrivare a tutti non riesce neanche lontanamente a cogliere la profondità del personaggio.

Il Supervissuto
“Il Supervissuto”, docuserie targata Netflix per la regia di Pepsy Romanoff.

La verità ‒ e qui c’entra, di nuovo, lo strapotere degli artisti ‒ è che non c’è interesse a sviluppare prodotti approfonditi: la gran parte dei documentari usciti negli ultimi anni sono pensati per i fan dell’artista in questione, soffrono della necessità di essere meramente promozionali o di porsi, in caso contrario, come ultra-generalisti. Per cui, in sostanza, partono zoppi. Peccato, perché è proprio uscendo dal selciato che i documentari danno il meglio. Per esempio In finestre rotte, film sulla vita in tour di Francesco De Gregori addirittura del 2001, con la regia di Stefano Pistolini, si vede il protagonista schivare i fan che gli chiedono una foto. Lo fa con un sorriso, ma è comunque duro. A un certo punto una signora gli dice che lei «ha una bambina», come a convincerlo. La scena è tragicomica: «È un ricatto?», risponde lui. Ricordo l’effetto che mi ha fatto quella scena: ok le ragioni del cuore e le ragioni di Stato, ma quindi De Gregori è uno stronzo? Nel 2016 invece andai alla prima di Ritmo sbilenco, su Elio e le Storie Tese, i decani della musica demenziale in Italia. Ero sicuro che sarebbe stata una festa, ma non si rideva mai: sullo schermo c’era un gruppo annoiato e stanco, che non dava mai l’impressione di divertirsi e che oltretutto sembrava scollato nei suoi elementi; altro che amici. Due anni dopo avrebbero annunciato lo scioglimento senza che la notizia mi sconvolgesse (ero preparato: un documentario che annuncia lo scioglimento di un gruppo, what?), mentre la reunion dello scorso anno, quella sì, mi ha messo un po’ di tristezza.

Liberato apre una strada

Tra l’altro, agli inizi della carriera, nel 1992, proprio gli Elii erano stati protagonisti di un mokumentary-parodia profetico: s’intitolava Chi ha incastrato Elio e le Storie Tese, era una sorta di spy story sotto mentite spoglie, raccontava la loro ascesa e in un certo senso anticipava la deriva che avrebbe preso il genere tutto trent’anni dopo. Perché non era un documentario, lo sguardo non era esterno: loro erano attori protagonisti, facevano il loro gioco. Bene, l’anno scorso è uscito in pompa magna Il segreto di Liberato, che ritorna lì capovolgendo, però, la prospettiva: la trappola di presentarlo come film-documentario è durata un attimo, il tempo di rendersi conto che era un’opera (bella) pensata dallo stesso Liberato per raccontare la sua identità senza, ovviamente, rivelarla, quindi mantenendo il totale controllo. Chiaramente è uno specchio dello strapotere dell’industria, oggi, rispetto a qualsiasi voce non allineata: gli artisti hanno fatto il giro, ora si filmano da soli e non hanno interesse nei documentari duri e puri.

Non è detto che sia la fine del genere, però. Sicuramente Il segreto di Liberato, più che sancire la morte del documentario musicale, apre alla nascita di un qualcosa di diverso che può, in potenza, essere altrettanto valido. Ma con obiettivi opposti: film che possano valorizzare il lavoro dei registi da una prospettiva interna, raccontando i protagonisti stessi dal loro punto di vista, certo, ma con opere originali, creative, ambiziose – insomma, non i musicarelli degli anni Sessanta. Dall’altra parte, percorrere la strada dei documentari duri e puri diventa sempre più difficile, ma esempi come Antipop su Cosmo, prima ancora che opere che coinvolgono venerati maestri, le rispettive famiglie e il cucuzzaro dei grandissimi, altri artisti a loro vicini, dimostrano che una via d’uscita c’è: l’idea, l’originalità e la sincerità pagano, specie se in ballo ci sono musicisti – e ce ne sono, specie tra gli indipendenti – disposti a mettersi in discussione.