Abel Ferrara, Pasolini e il dobermann

Abel Ferrara x Fabrique

Cerchiamo di mantenere la calma. Siamo col fiato sospeso, immobili, sotto al tendone di Café Fabrique, in attesa che si plachi l’uragano. È una tempesta metaforica, s’intende.

Perché il sole brilla alto, l’Isola Tiberina è un’oasi rovente e il Tevere fa quel che può per rinfrescare una giornata torrida e afosa.

Abel Ferrara ci ha raggiunto da qualche minuto, ma pare non vederci. È inquieto, nervoso, non si lascia avvicinare. Ringhia un saluto, s’arrabbia, ispeziona il posto, prende alcune decisioni. Poi le cambia. Si siede e schianta via una borsa, spazza le bottiglie dal tavolino, rifiutando ferocemente qualsiasi contatto. Le fotografie non adesso, nemmeno dopo, forse mai: «Non sono un modello del cazzo». L’intervista forse, dipende, chissà. Vola una parola, bitch, lanciata contro qualsiasi persona a caso nel gruppo che lo circonda: noi, l’assistente personale, l’ufficio stampa. Impossibile individuare con chi ce l’abbia.

L’unica cosa da fare è aspettare. Oppure sforzarsi di intuire.

Ferrara pare un mastino. Uno di quelli lasciati a guardia delle ville, implacabile nella sua missione: difendere il territorio, proteggere il padrone. E in questo momento, evidentemente, sta custodendo qualcosa di molto caro: il suo film. Pasolini, in concorso a Venezia, è un progetto per cui ha speso ogni energia. Ha intervistato e conquistato amici e parenti, guardato tutti i film e letto qualsiasi cosa Pier Paolo Pasolini abbia prodotto, fino ad arrivare a un livello di profondità estremo. In questi giorni ne sta finendo il montaggio. Ed è facile immaginare che tutto vorrebbe tranne che essere qui, davanti a noi, per parlarne.

Dunque mi siedo di fronte a lui esattamente come se mi stessi avvicinando a un dobermann. Gli porgo la rivista. La scruta. Spiego: «È per i ragazzi che oggi vogliono fare cinema in Italia». Sfoglia il giornale. «Quindi finisco qua dentro». Silenzio. «Ok».

Mezz’ora dopo l’intervista finirà con un abbraccio e una consapevolezza: Ferrara stava proteggendo davvero qualcosa di prezioso.

Partiamo dal suo film. Pasolini. Perché?

Quello che mi fa muovere, da sempre, è il desiderio di esprimermi. Faccio film per seguire una visione. Pasolini mi interessava come giornalista, poeta, scrittore, artista, rivoluzionario. Era una personalità complessa. Ho cercato di studiarla a fondo e francamente non smetterei mai.

Il film però racconta solo una giornata nella vita di questa personalità. L’ultima.

Su Pasolini si potrebbe fare un milione di film. Io ho scelto di concentrarmi su un solo giorno e me ne fotto di chi vivrà questo film come se fosse un’indagine. È un film e non me ne frega niente di chi ha ammazzato Pasolini e come. Io mi occupo della tragedia, di quello che abbiamo perduto quando è morto.

In Italia il ricordo di Pasolini è ancora molto vivo.

Cazzate. Non è vero. Tutti qui dicono che lo conoscono, la gente si riempie la bocca di sue citazioni. Ma in realtà ho l’impressione che il suo valore sia riconosciuto molto di più fuori dall’Italia.

In ogni caso gli italiani guarderanno il suo film “americano” con sospetto. Se le aspetta le critiche?

Non me ne frega nulla, non mi pongo il problema. Le aspettative che mi interessano, e che non voglio tradire, sono le mie. Per il resto a me basta avere un cinema, con un tetto sulla testa, nel quale mostrare il mio film a un pubblico. Trovo presuntuoso avere qualsiasi genere di aspettativa.

Nel ruolo di Pasolini non ha scelto un attore italiano, ma Willem Dafoe. Perché?

Prima di tutto perché io sono americano e non parlo l’italiano. E poi per me Pasolini non è italiano. Mi spiego: sto facendo un film su un uomo che è essenzialmente un poeta. Anche quando fa le interviste lui è un poeta, non un giornalista. E non puoi fare un film sulla poesia senza trovare una lingua tua, intima e personale, per raccontarla. Pasolini era un tesoro universale, il suo lavoro è globale. Di più: intergalattico. Per rappresentarlo avevo bisogno di avere con me l’attore con cui ho la maggiore affinità. E ho fatto bene: Willem nel film è perfetto.

Come ha scelto le musiche?

La musica sarà eccezionale, credo. Sarà ottima anche perché abbiamo deciso di non suonarla noi, né io né Willem.

Il processo creativo per lei è doloroso?

Tutto diventa faticoso quando hai a che fare con le emozioni. È uno sviluppo doloroso e complesso. Un po’ come andare contro corrente, come cercare di risalire un fiume al contrario. Ostinatamente.

E come si sente ora che sta finendo?

L’ultimo giorno di riprese è in assoluto il giorno più felice. Ma dura pochissimo. Sei esaltato per 24 ore e poi di nuovo devi ricominciare da capo, al montaggio. L’euforia resiste due giorni, poi monti, finisci il film, lo fai vedere al pubblico e ancora per qualche momento sei felice. Poi torni invisibile per i successivi sei mesi.

Finisce il film: a chi lo fa vedere per primo?

Non ho una sola persona di fiducia: ho il mio gruppo. C’è il mio assistente, Jacopo, il montatore, il fotografo, lo sceneggiatore, che ha lavorato sia su Pasolini che su Napoli Napoli Napoli. Ho un gruppo che mi dà il feedback, lo stesso da Go Go Tales in poi. Lavoro sempre con lo stesso team, anche in Italia. È fondamentale avere le persone giuste intorno quando fai un film. E poi, insomma, io non mi faccio mica un cazzo di selfie davanti alla telecamera: io faccio film.

Se è per questo ha fatto anche tv. La rifarebbe?

Che ho fatto, Miami Vice? E ti pare bello? Forse sembrava bello ai ragazzini di nove anni incollati alla tv. Quando giro una cosa non me ne frega niente se è per il cinema o per la tv, il processo è uguale: la telecamera, gli attori, le storie. E per quanto riguarda il tempo, cioè la possibilità di raccontare una storia più lunga e dilatata… Welcome to New York, il mio ultimo film, durava due ore. Troppo lungo. Spero di tenere Pasolini sui 90 minuti.

Da anni vive e lavora in Italia. La sente, la decadenza del paese?

Quale decadenza? Economica? Culturale? Politica? Io amo questo paese e negli ultimi cinque anni l’Italia è diventata la mia casa. Io non avverto la decadenza. Piuttosto sento un certo dinamismo. M’impegno a portare la mia energia in ogni cosa che faccio in questo paese. E poi il film business è un disastro quasi dappertutto, non solo qui. Siamo nel pieno della rivoluzione digitale, sta cambiando tutto: come la gente gira i film, come li vede e come li vende. Ma quando il gioco si fa duro, si dice dalle mie parti, i duri iniziano a giocare.

Sì, ma la crisi c’è. Ed è durissima.

Crisi o non crisi, oggi se vuoi fare un film non hai più scuse. Hai il cellulare, il tuo cazzo di computer, nessuno può fermarti. Se ti dicono “c’è la crisi mondiale” non li devi ascoltare, anzi non la devi usare nemmeno quella parola, “crisi”. La crisi è una parola inventata da Wall Street per fottere le persone. Non saprei nemmeno come tradurla, quella parola, in italiano. Esiste?

Esiste. Provi a immaginarsi adesso, in Italia, a 20 anni: direbbe ancora così?

Certo. Sarei identico a come sono oggi, visto che mi sento un 18enne, forse un 19enne. Farei le stesse cose, cercherei le stesse storie, lavorerei con gli stessi attori, avrei le stesse difficoltà a trovare i finanziamenti. E non ascolterei le cazzate sulla crisi, non sentirei scuse…

Allora le va di dare un consiglio a chi oggi vuole fare cinema in Italia?

Farlo. Perché finché non lo fai, il regista, non hai idea di cosa si tratti. Non lasciarsi scoraggiare, andare avanti, non permettere alla gente di mettere un muro tra ciò che vuoi fare e la tua voglia di farlo. Vai avanti, cazzo: hai una visione, una storia, un sentimento, un bisogno di comunicare? E allora inseguilo. Prendi il telefonino e inseguilo. Vincent van Gogh ha venduto un solo fottuto dipinto in vita sua e non si è scoraggiato. E allora? Ringraziate Dio che avete un telefono e YouTube, che non vivete in un paese sotto dittatura, che siete a Roma, in un paese libero la cui arte è ammirata dalle persone in tutto il mondo. E il cinema è la forma d’arte più preziosa che esista.

foto: Francesca Fago