Profeti: Dio, da che parte stai?

Profeti
Jasmine Trinca e Isabella Nefar in "Profeti" di Alessio Cremonini.

Ci vuole un po’ prima che Profeti si assesti. Nei primi minuti del nuovo film di Alessio Cremonini, in sala dal 26 gennaio, vediamo la giornalista italiana Sara (Jasmine Trinca) aggirarsi nella Siria (che in realtà è la Puglia) devastata dalla guerra e annerita dall’Isis. Ascoltiamo un’intervista a una combattente curda, entriamo in una chiesa cristiana distrutta e bruciata, ma intuiamo che non è di questo che il film vuole parlarci. Poi, di notte, Sara, il suo operatore e il suo interprete vengono rapiti. Sara attraversa giorni di prigionia e interrogatori, assiste a torture e sente grida disperate, ma non è ancora questo. Viene portata in un campo dell’Isis, entra in una casa dentro la quale ci sono tre donne. Manca poco, ma non è ancora questo. Due delle tre donne partono, e Sara si ritrova sola con Nur (Isabella Nefar). Ecco che Profeti inizia davvero. 

Tutto il film, da questo momento, è ambientato in una casa in cui Sara è costretta a vivere con Nur – donna con donna – dove è trattata da ospite e non da prigioniera: i pasti sono preparati da Nur e non le viene richiesto di fare nulla. C’è un solo letto matrimoniale, e allora Sara e Nur dormono insieme. Sara non ha un dio e Nur – che ha trascorso tutta la sua vita a Londra in una famiglia laica – sì, lo ha scelto da quando ha incontrato suo marito, un mujahidin. Nur prega in arabo ma parla a Sara in inglese. Sara ha molte domande, Nur conosce solo le risposte del Profeta, le altre le tiene per sé. Si arriva al paradosso: Profeti diventa un film tutto di scrittura, ma proprio la sceneggiatura è il suo più grande difetto, perché è pedissequa, dovrebbe man mano svelarci l’una e l’altra, ma non arriva mai a dirci più di quanto già non sappiamo da subito della giornalista occidentale e della moglie di un combattente dell’Isis. Certo, in mezzo ci sono degli spunti ottimi, come la domanda che pone Nur: che strumenti può mai avere una giornalista italiana – e per estensione tutto l’occidente – che conosce a malapena l’arabo per giudicare una guerra che alcuni arabi considerano santa? 

Un altro paradosso è che, nonostante la sceneggiatura, Trinca e Nefar hanno davvero una grande forza, sono il “motore immobile” chiuso in quattro mura dal quale si propaga l’intensità che Cremonini ricerca. Il rapporto tra le due è dunque la vera sostanza di cui è fatto Profeti, ma è come se un vuoto facesse da spartiacque. Il confronto quotidiano e imposto deve portare alla contaminazione e alla resa da parte di una delle due donne. La resa c’è, e l’istante in cui avviene è il più bello di tutto il film, un momento di pura regia dove al ribaltamento di un’idea corrisponde il ribaltamento dell’inquadratura, con un’immagine capace di raccontare uno stato d’animo, proprio come dovrebbe essere nel cinema. Ma è in questo processo di avvicinamento al ribaltamento – vero o finto che sia – che manca qualcosa. In questo film pieno di bombe che esplodono fuori si attende una deflagrazione interna, che non arriva mai.

Ultime note: Profeti è il caso più unico che raro di un film italiano che, per la maggior parte, non verrà visto in versione originale. È girato principalmente in inglese, e sarebbe importante vederlo così, perché il dialogo tra un’italiana e un’araba che comunicano attraverso una terza lingua è la rappresentazione riuscitissima di una comunicazione che anche quando funziona non è mai completa. Il montaggio di Marco Spoletini, infine, è efficace e crea contrasti potenti, concedergli ancora più spazio avrebbe probabilmente aiutato il film.