Majonezë, il cuore balcanico del cinema italiano

    Majoneze
    "Majoneze", il corto di Giulia Grandinetti finalista ai David di Donatello (ph: Paolo Grandinetti).

    Giulia Grandinetti dice di avere sogni piuttosto vividi. «Li controllo molto. Ho sognato in bianco e nero, in animazione, muovendomi con il ritmo di una cinepresa. Mi sembra che sognare sia l’equivalente del fare un film. Forse anche perché vengo dal teatro, solo dopo è arrivata la scuola di cinema. Anche se il primo amore è stata la danza. Credo di essere così ossessionata dai sogni proprio perché uniscono tutto ciò che mi sta a cuore: ritmo, corpi, movimento. Cinema, insomma.»

    Tria, tre sorelle e un sacrificio

    Partiamo dal suo corto Tria – Del sentimento del tradire, in concorso a Venezia nel 2022 e selezionato in prestigiosi festival in giro per il mondo. Ambientato in una Roma distopica, Tria – ovvero “tre” in lingua greca – racconta una famiglia di immigrati rom alle prese con la nascita del loro quarto figlio, un maschio. Ma la legge parla chiaro: nel Paese, alle famiglie non italiane è permesso generare un massimo di tre figli, e, se ne arrivasse un quarto, uno dovrebbe essere sacrificato, con precedenza alle femmine. E tra Zoe, Iris e Clio, le figlie preesistenti della famiglia, per fare posto al fratello, ne dovranno rimanere solo due. La scelta dei genitori è però osteggiata da un atto apparentemente inspiegabile: il tradimento istintivo di una delle sorelle ai danni delle altre, che, un attimo prima che la sentenza di morte sia pronunciata, scambia, non vista, i bicchieri appositamente assegnati e contenenti, a seconda, o acqua o veleno, modificando in via definitiva il decorso della storia.

    Una riflessione, quella di Tria, che parte da lontano e affonda le proprie radici nell’humus fertile della cultura (e morale) della Grecia Antica. D’altronde, Giulia non fa mistero di essere “mezza greca”, e di portarsi sempre dietro le estati passate nella grande casa di famiglia (allargata), una specie di colonia tra zii, cugini e parenti, stretti in letti adiacenti. «Ho un fortissimo senso della comunità, di quello che gli esseri umani possono fare quando decidono di agire per cambiare il proprio destino, per il bene di tutti. Tria è nato da qui, e dall’esplorazione del sentimento della prevaricazione per eccellenza, il tradimento.»

    Tria
    “Tria – Del sentimento del tradire”.

    Ecco allora l’aspetto rituale del sacrificio del figlio, consumato dalla comunità per placare l’ira tutta umana della legge e rielaborato dallo spettatore seguendo l’apparato simbolico-iconografico di cui Tria si compone. «L’inserimento di alcuni simboli è stato spontaneo, come fatto di identificazione, per guidare il pubblico attraverso la storia. Per esempio, la contrapposizione uomo-natura. Poi ci sono stati i simboli rodati per quanto meno scontati, come per esempio la funzione di messaggero non solo tra persone, ma anche tra mondi assunta dai volatili, sempre nel mondo antico. Nel mio caso, ho scelto un piccolo rapace. Un guardiano del nido, capace sia di proteggere che, per gli artigli, di agire attivamente sulla realtà».

    Non esagera, Giulia, quando dice di entrare in contatto con Tria attraverso la sua musica, i suoi suoni. Perché colonna sonora e sound design lavorano in sinergia, mirando a un unicum immersivo, creatore di significato oltre il significante dell’udito. Per muoversi verso quest’obiettivo, Giulia ha richiesto al lavoro di sound design e mix, realizzati con maestria da Giulio Previ e Riccardo Gruppuso, un dialogo speciale con le composizioni ed arrangiamenti dei compositori e musicisti Lucia Alessi e Pier Sante Falconi, membri tra l’altro della Balkan Lab Orchestra di Roma. L’orchestra ed il suo fondatore Federico Pascucci hanno inoltre ceduto per il corto l’utilizzo del brano Djelem Djelem presente nel loro DISCO AJVAR.

    Majonezë: Romeo e Giulietta in Albania

    Questo ci dicevamo io e Giulia Grandinetti un paio di anni fa. Il suo nuovo cortometraggio, Majonezë, era finalista ai David di Donatello, Giulia è ancora nomade. Però riusciamo a sentirci, io sempre a Milano. Lei non capisco mai bene dove si trovi. Allora partiamo dalle certezze: «Nel 2019 ero in viaggio in Europa dell’Est con Andrea Benjamin Manenti, un direttore della fotografia che a quel tempo era il mio compagno. A un certo punto abbiamo preso una deviazione fuori programma e siamo capitati a Ersekë, in Albania. Cioè, ci siamo arrivati dopo una strada abbastanza brutta, su cui non ci sentivamo al sicuro». La mattina dopo, scoprono un posto fuori dal tempo. «Alla fine del viaggio ci siamo tornati a prendere contatti con gli abitanti, con il sindaco. Stavo cercando la location per una storia e dentro di me avevo già capito. Mi sembrava di aver fatto un viaggio nel tempo, ma non capivo bene in che epoca».

    La sensazione di chi si metta a guardare Majonezë è la stessa. Il dove, be’, si rintraccia. Il “quando” rimane aperto, nemmeno è necessario che si chiuda. Non ci lavorerà con Manenti, le riscritture dureranno anni. Nel giugno 2023, Giulia torna a Ersekë per fare sul serio. «A ottobre abbiamo preparato il set, a dicembre abbiamo girato, a primavera dell’anno dopo avevamo il corto pronto. Il comune del paese è stato di aiuto incredibile, mi hanno permesso di usare una vecchia casa disabitata rimettendola a posto, pensa che mi hanno mandato una squadra di signore per aiutarmi a pulire».

    Majoneze

    Albania, non si sa quando. Elyria (Caterina Bagnulo) vive in una famiglia di pastori e aiuta il padre a badare alle pecore. Ha una liaison con Goran (Alessandro Egger), un giovane del posto. Problemino: Elyria è di etnia albanese, Goran è serbo. Il padre di lei, subodorando della disobbedienza, decide di darla in sposa a un uomo molto più grande della figlia. Come la storia della letteratura insegna, non si può sapere se ciò porterà a nulla di buono.

    «L’idea originaria per il corto era di fare una sorta di Romeo e Giulietta nei Balcani. Nel tempo è evoluta, la storia si è fatta da sola. Anche perché credo che sia solo un velo, sotto cui s’innestano altri temi, anche diversi per ognuno». Lo stesso vale per l’ambientazione. Mi dice Giulia: «Il cinema per me ha anche la facoltà, che poi diventa anche un compito, di creare uno spostamento. Crea delle onde, arrivano oblique su diversi aspetti della realtà e li illuminano in modi inaspettati. Per parlare del presente, insomma, credo sia più efficace spostare il punto di vista. Se la si fa troppo facile, troppo calata nel reale, diventa quasi più difficile identificare ciò di cui si vuole parlare. Questo non vuol dire perdersi per strada, soprattutto in un cortometraggio non si può fare; ma arrivare al punto attraverso una rotta diversa». Proprio quella che l’ha portata, nel 2019, a conoscere un luogo che altrimenti non avrebbe avuto sulla mappa?

    «Sai, ci sono tante cose che si sono inanellate bene in questo progetto. L’estetica del posto, perfetta per quello che volevo girare. L’accoglienza delle persone, la loro disponibilità a essere “invasi” dal cinema e dai suoi processi, li abbiamo coinvolti come comunità. Pensa che il solo attore professionista era Sean Cubito, nel ruolo del co-protagonista Miloš. I miei compagni albanesi hanno lavorato tutti con grandissima generosità, accogliendo noi italiani con grande rispetto. E il fatto che diversi abitanti di Ersekë parlassero la nostra lingua ci ha molto aiutato nelle fasi di produzione». Ci pensa un attimo. «Ah, un’altra cosa. Erano ben dieci anni che lì non nevicava a dicembre. Idealmente avrei voluto la neve non solo per questioni narrative, ma anche estetiche: per rendere quel paesaggio profondo, ben delineato tra prato/montagna e cielo. E come per magia, il primo giorno di set è venuto a nevicare per davvero». Chiamatela aura o coincidenza, ma un corto che finisce ai David ed è realizzato così, è frutto del destino.

    Ma quindi, le chiedo, i costumi e gli oggetti di scena? Sospensione dell’incredulità, o veri oggetti “del posto”? «Alcuni oggetti o capi d’abbigliamento li abbiamo chiesti in prestito, altri acquistati. Generalmente, però, è stato tutto studiato dall’Albania, ma realizzato in Italia. Valeria Polieri (scenografa), Martina Mele (arredatrice), Martina Latorre (costumista) e Irene Del Brocco (parrucchiera e make-up artist) sono state incredibili, hanno capito subito la mia visione, l’atmosfera che avrei voluto dare. E hanno realizzato tutto con grande artigianalità, con metodi da cinema classico, se vogliamo chiamarlo così». Giulia mi racconta come hanno realizzato una finta pecora per una scena: «Abbiamo preso le misure di una pecora vera di scena, poi il 3D designer Edoardo Tedone (anche VFX Artist del corto) ha realizzato il modello per la stampa in plastica. I pezzi sono passati sotto le mani di Nicolas Tangorra per la pittura e infine il reparto di  scenografia ne ha costruito il corpo».

    MajonezëCi sono cose che vibrano insomma, attorno a Majonezë. Che, sì, intende proprio la mia salsa preferita a base di uova. «Mi interessava lavorare sugli opposti. Il bianco e il nero, per cui ringrazio il mio direttore della fotografia Ilya Sapeha e tutta la sua magnifica squadra. I ritmi sospesi e scene più sincopate, ringraziando il lavoro svolto con il montatore Niccolò Notario. Il maschile e il femminile, il nuovo e l’antico. Ed in questo mondo ricco di dicotomie tra bianchi e neri, alla fine emerge una realtà ricca di scale di grigi. Dove a un certo punto è il colore oro a prendere il sopravvento. Tutto questo per dire che in un mondo fatto di opposti, da dove si parte per cambiare qualcosa? Forse da qualcosa di piccolo? Come la scelta di una salsa, per esempio? E la mia speranza è che, se una sera c’è qualcosa che non va e a un certo punto ci si ritrova davanti a un barattolo di maionese, ecco io spero che qualcuno possa ricordarsi di questo film. Sentirsi meno solo e trovare il coraggio di compiere un atto di rivoluzione. Perché si inizia sempre dalle piccole cose».

    E comunque, la maionese non è affatto una cosa di poco conto. Mangiate, ricordate, guardate. È tutto ciò che il cinema, o almeno questo, vi chiede.