
La maggiore età è una cosa complessa. Arriva con un soffio e porta via. Ed è il diciottesimo compleanno a consacrare il diventare adulti, o il primo film, se si è un regista all’inizio della carriera. Lo sa Christian Filippi, che nel suo lungometraggio d’esordio ha condensato tutto questo: la smania di diventare grandi e di dirsi responsabili, la gioia per una vita che si scopre con occhi diversi, e un’ingenuità che, a causa di vicende sfortunate, si è dovuta abbandonare già da un pezzo. Il film si chiama Il mio compleanno e racconta la storia di Riccardino (Zackari Delmas), quasi-diciottenne separato da quattro anni dalla madre (Silvia D’Amico), donna con forti disturbi di personalità, e costretto a vivere in una casa-famiglia, una «struttura di tipo familiare con sede in abitazioni civili» destinata a ospitare minorenni, anziani, disabili e adulti in difficoltà o con problematiche psicosociali.
Vivace ma stranamente assennato, in un certo modo più grande della sua età, Riccardino ha un solo desiderio: ricongiungersi con la madre. Questo a discapito delle voci, soprattutto quella dell’educatrice Simona, che gli dicono che non è ancora tempo, non il momento giusto. E che sarebbe auspicabile che il ragazzo intraprendesse un percorso diverso per rimanere ancora qualche anno nella struttura, sfruttando la possibilità fornita dalla legge di prolungare il suo soggiorno oltre il compimento della maggiore età. Ma Riccardino sceglie la strada di quella che a lui pare la più desiderabile delle indipendenze. E riunirsi con la madre lo obbligherà a un duro scontro di realtà, tra desideri e aspettative che nemmeno soffiare su una candelina potrebbe realizzare. Il mio compleanno (prodotto da Leonardo Baraldi per Schicchera Production in associazione con Media Flow, scritto da Filippi con Anita Otto) è ora in sala distribuito da Cattive Produzioni. Noi abbiamo incontrato Christian per parlare di sogni, fragilità e nuovi inizi.
Chi è Christian e come è arrivato al suo primo lungometraggio?
Ho iniziato a studiare cinema da adolescente, al Rossellini di Roma, l’unica scuola in Italia incentrata sul cinema ma che di fatto è un liceo. Ero già appassionato, certo, ma c’era anche una grande componente di gioco. Dopo il diploma ho frequentato l’Accademia di Belle Arti e ho iniziato a smacchinare sui set, a fare l’attrezzista e girarmi tutte le varie posizioni. Ero arrivato a essere aiuto alla regia, facevo aiuto casting sui film di Claudio Giovannesi per esempio. Poi mi sono preso un anno sabbatico, sono tornato all’università per studiare editoria. Lì mi sono concentrato di più sulla parte di scrittura, sia di cortometraggi (Filippi ne ha tre all’attivo, Marciapiede, Il nido e Il custode e il fantasma, ndr), sia di documentari e videoclip. Quindi ho sempre vissuto il cinema a metà tra il sentirmi una maestranza e il sentirmi un regista. E poi è arrivata l’occasione della Biennale College che mi ha permesso di girare questo film.
C’è un’evoluzione o una comunanza tematica tra i corti e il lungometraggio?
Parlo sempre di personaggi che si trovano in una gabbia. Il primo corto, Marciapiede, era la storia di una prostituta anziana che non riesce più a lavorare. Il secondo, Il nido, parlava di un professore di scuola che aveva vissuto per cinquant’anni con la madre. Il terzo raccontava di un custode di cimitero che ha paura dei fantasmi. Quindi c’è sempre la fame di libertà, la voglia di uscire da questo recinto che si sono costruiti o che hanno attorno. Il mio compleanno è nato in un momento particolare: sono stato per un po’ in contatto con istituti di detenzione minorile e case-famiglia. È da lì che arrivano quelle storie. Frequentando i ragazzi e gli educatori ho scoperto che cosa vivono realmente, difficoltà che spesso non conosciamo o che non vengono sufficientemente alla luce.
Tra gli argomenti trattati c’è l’articolo 25, anche questo forse sconosciuto ai più.
Esatto. L’articolo concede ai ragazzi che stanno in casa-famiglia, al compimento dei 18 anni, il diritto a rimanervi altri tre anni. Non tutti riescono a usufruirne, alcuni non vogliono, credono che fuori ci sia qualcosa di meglio. È quello che succede a Riccardino. Per poter accedere a questo beneficio è necessario portare avanti un percorso con gli educatori, convincere il giudice. Serve una direzione di crescita insomma, che sia studiare o frequentare un corso di formazione professionale. Non è scontato, però, anche perché tenere i ragazzi nelle strutture è un costo e i fondi sono fermi dal 1990, mai aumentati. Le case-famiglia sopravvivono grazie al volontariato, ai bandi, alle donazioni, non certo alle istituzioni. Quindi concedere l’articolo 25 a un ragazzo significa togliere il posto a uno più giovane che potrebbe averne più bisogno.
Come mai senti questo tema così vicino?
Con Riccardino sento di avere varie connessioni. Di sicuro è un personaggio che mi è affine, non perché abbiamo vissuto le stesse esperienze ma perché mi rivedo nei suoi sentimenti, nell’emozione di quell’età, nei sogni di libertà, del poter vivere fuori dalle regole. Mi interessa anche il suo confronto con lo spazio della casa-famiglia, vissuto alla stregua di un carcere, ma che in realtà gli salva la vita. Altra cosa che mi appassiona è la relazione tra Riccardino e la madre, il loro passato che di fatto non vediamo mai, ma che andava costruito, e lasciato intuire, lungo tutto il film.
Relazione che mi pare mettersi in dialogo con quella che Xavier Dolan costruisce in Mommy, però ribaltata.
Sì. Prima di fare cinema sono uno che il cinema lo ama. Vedendo quel film, ricordo che avevo trovato tantissime emozioni simili a quello che avevo provato io, a quello che avevo vissuto all’interno della mia famiglia. I riferimenti però sono andati oltre. Con Zack abbiamo guardato a Il mattatore di Dino Risi, mi interessava come si muoveva Gassmann in quel film. Oppure Fish Tank di Andrea Arnold e, tornando indietro, anche Accattone. Era quella Roma che volevamo riprendere, fuori dal tempo. Quindi sì, ci sono tanti riferimenti cinematografici.
Come hai conosciuto Zack?
Anni fa, sul set di un cortometraggio di amici. Lui era davvero giovane, quattordici-quindici anni, ma già sveglio, aveva tutta la furbizia che si vede adesso nel Mio compleanno. Così quando abbiamo iniziato i casting per il film è tornato fuori. Arrivavano ragazzi molto bravi ma che avevano già sui vent’anni, studiatissimi. E io volevo qualcuno più scavezzacollo, che fosse “grezzo” come si è a diciott’anni. Zack era l’unico Riccardino possibile, ha la sua energia. Che poi non lo so perché a un certo punto la si perde: è inconsapevolezza, sporcizia nel parlato e nei modi del corpo. Se continua così, Zack potrà solo andare lontano. Per il film provavamo tutto il giorno e la sera andava a scuola guida per fare la patente. Drittissimo.
I giovani con le loro storie sono presenti nel cinema italiano?
Credo ci sia un nuovo filone in tutte le arti che racconta le età più giovani. Però mi sembra che manchi un po’ d’onestà, dovremmo essere più sinceri. I ragazzini sono ironici anche nell’approccio ai drammi che vivono, e io volevo restituire questo aspetto. Si fanno film su adolescenti arrabbiati e depressi, ma poi li conosci davvero e non sono così, sono spavaldi, dissacranti, spacconi. È così che si proteggono dai problemi della vita quotidiana. Quindi sì, li raccontiamo, ma forse non li conosciamo abbastanza. Poi certo, lavori come Fiore di Giovannesi o Manuel di Dario Albertini, sono sui giovani e sono stupendi.

La colonna sonora de Il mio compleanno è firmata dai Meganoidi, storico gruppo di Genova. E poi nel film arrivano un paio di momenti coreutici, che si ritrovano spesso nel cinema di oggi. Come mai?
I Meganoidi sono uno dei miei gruppi preferiti: per i titoli di coda volevo Gocce, poi sono stati fantastici a prendersi in mano il progetto totale della colonna sonora. A proposito delle scene di ballo: a me piacciono molto in generale nei film, le ho inserite anche nei corti. Mi divertono, mi piace girarle. Nello specifico, nel film arrivano due momenti di danza per segnalare due tempi di svolta. Il primo racconta il “tradimento” tra Riccardino e Simona, l’educatrice, e allo stesso tempo la voglia di libertà della ragazza, anche lei ingabbiata in una situazione che le sta stretta. Volevo che fosse un momento di dono, un regalo che fa Riccardino ai suoi compagni. La seconda scena parla sempre di una separazione, ma tra Riccardino e sua madre. Dopo un attimo di lucidità, arriva la caduta. Lì Riccardino fa finta di non capire, per lasciarle libertà e gioia. Riccardino vuole sempre lasciare felicità e spensieratezza agli altri.
Abbiamo parlato di tanti giovani, solo che tu vecchio non lo sei. Com’è esordire oggi in Italia?
Purtroppo mi sono trovato davanti a un ambiente ostile. Il primo appunto per Il mio compleanno l’ho preso dieci anni fa, e l’unica persona che mi ha dato fiducia è stato Leonardo di Schicchera. Lui ha sempre creduto in me, ma si tratta di un’eccezione in Italia, non della regola. Nonostante il mio percorso e la relativa fortuna ai festival dei miei corti, le difficoltà sono enormi. O forse non ispiravo abbastanza fiducia, chissà. Mettere su un film oggi può essere un bagno di sangue, per fortuna c’è stata l’occasione della Biennale College. Quindi, per risponderti: esordire in Italia è davvero un terno al lotto, ho colleghi fortissimi che ancora non ci son riusciti.