Finis terrae: due amici, una scomparsa

Finis terrae
Ryan Masson e Micah Flamm sono i protagonisti di "Finis terrae".

Tommaso Frangini, milanese, ha convinto i selezionatori di vari festival con il suo cortometraggio Finis terrae, a partire dalla Settimana Internazionale della Critica veneziana della scorsa edizione fino al Figari Film Fest dello scorso giugno. Il battesimo cinematografico Tommaso lo ha ricevuto da Andrea Pallaoro di cui è stato assistente sul film Hannah (con Charlotte Rampling, in concorso alla 74ª edizione del Festival di Venezia) e, seguendo le orme del regista trentino ormai trapiantato all’estero, ha continuato con studi al CalArts (California Institute of the Arts) di Los Angeles, scuola fondata da Walt Disney ma con una forte anima indipendente e sperimentale. Finis terrae (distribuito da Zen Movie) è appunto il corto di diploma che Tommaso ha girato negli USA poco prima del rientro (causa Covid) a Milano.

«I miei primi lavori erano fantasy, Finis terrae è la prima volta in cui mi sono voluto dedicare a un cinema personale e intimista: l’idea mi è venuta durante uno dei ritorni a casa per le vacanze in Italia, quando studiavo negli USA. Fra gli amici di sempre, qualcuno non c’era più e mi dicevano che si era perso, che aveva interrotto i contatti. Ho cominciato a chiedermi come mai ragazzi che vivono in una condizione privilegiata, al centro di Milano, possono arrivare a perdersi. Inoltre una sera, uscendo con un amico, mi sono reso conto che non avevamo granché da dire, non parlavamo più la stessa lingua: da lì è nata la prima scena del corto, che ho poi sviluppato decidendo di ambientarlo in un luogo del tutto diverso, una costa rocciosa a picco su un mare invernale».

A proposito, dove l’hai girato?

È un parco naturale in California che si chiama Montaña de Oro: me lo ha consigliato il mio direttore della fotografia. È un parco suggestivo ma poco conosciuto, non troppo grande, scarsamente frequentato, quindi ideale per girare.

La storia dei due ragazzi sfrutta un modello narrativo nobile, a partire dal capostipite dei film sulla scomparsa improvvisa di un personaggio, L’avventura di Antonioni. È stato il tuo esempio?

È una cosa che in molti hanno osservato, ma anche se amo molto il cinema di Antonioni L’avventura non era fra le mie reference: piuttosto ho guardato a film come Jerry di Gus van Sant e Old Joy di Kelly Reichardt (ora sugli schermi con First Cow). Anche a livello stilistico e visivo, Antonioni era molto lontano da quello che volevo fare. Diverso se vogliamo guardare ai temi, che sicuramente hanno molto in comune: c’è il tema dell’incomunicabilità fra i due amici e quello del del malessere esistenziale di Peter, che è resa dal suo essere fisicamente ferito, danneggiato, ha dei cerotti sulle mani e sul volto di cui non viene detta la causa.

La dinamica fra Peter e Travis richiama quella di un’attrazione fisica: si può leggere anche come una storia di amore non corrisposto?

Quando sviluppavo la sceneggiatura al CalArts, la mia professoressa mi disse che sentiva una grande tensione anche sessuale fra i due ragazzi, le sembrava che uno fosse un po’ innamorato dell’altro. Ho deciso però di non esplicitarlo, anche perché non volevo addentrami in un terreno complesso (soprattutto in America) come le questioni sessuali, gender e così via senza conoscerle a fondo, senza averle vissute. Invece volevo che il punto fosse quella sorta di amore platonico che si crea fra amici soprattutto in una situazione di bisogno, che la tensione fosse nell’aria ma non fosse assolutamente dichiarata. Ho voluto raccontare un momento fra amici che non sanno più come comunicare. Finis terrae significa la fine del mondo conosciuto, che per loro era l’amicizia, la loro vita post adolescenziale.

Una tensione efficace anche grazie all’interpretazione e alla fisicità di Ryan Masson, Peter.

Ryan era un attore amico di amici, ci incontravamo ogni tanto alle feste e all’inizio non mi era nemmeno molto simpatico: poi, durante un barbecue ad Halloween, un po’ brillo, ho avuto l’intuizione che fosse perfetto per la parte e gliel’ho proposto lì seduta stante. Da allora siamo diventati molto amici e ci teniamo sempre in contatto. L’altro attore era più giovane e meno professionale, un surfista di Santa Barbara che un giorno, fra una ripresa e l’altra, è andato appunto a surfare ed è tornato in ritardo tutto bagnato, ma abbiamo lavorato bene, se i due attori non avessero funzionato insieme il corto non sarebbe così efficace.

Adesso? Torni in America o resti in Italia?

Per ora resto qui, sto lavorando a un lungometraggio: continuo ad aver voglia di raccontare qualcosa che conosco ovvero, l’ho già detto [ride], la vita di un ragazzo in una società privilegiata come quella della Milano-bene. Stando negli USA mi sono accorto quanto questo ambiente sia superficiale, chiuso alle novità, si vive dai 14 anni ai 50 chiusi negli stessi gruppi. Anche qui c’è un ragazzo in cerca di identità. Forse non è un tema di per sé originale, ma oggi non sono molti i film che ne parlano: invece penso che la mia generazione abbia bisogno di essere raccontata, c’è poca indipendenza vera, molta precarietà e mancanza di passioni. Ci è stato promesso un mondo che in realtà non avremo, e questo ha creato un dissesto che credo sia importante descrivere in un film.