Il banchiere anarchico. Giulio Base e il suo Pessoa

il banchiere anarchico

Dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, in concorso nella sezione Sconfini, giunge nelle sale Il banchiere anarchico. A dirigerlo, interpretarlo e sceneggiarlo è Giulio Base. Un passato con tanta fiction e le candidature a David di Donatello e Nastri d’Argento per il regista romano, ma è questa la sua prova più difficile. Mette in mezzo Fernando Pessoa e il suo testo dalle miriadi di sfaccettature per farne un rigoroso bianco e nero dall’impianto teatrale. Tutto girato nel Teatro 6 di Cinecittà in appena tre settimane, il film di Base ha visto diversi mesi di prove con l’attore che gli fa da controparte, Paolo Fosso. Nei panni del fedele e danaroso dipendente del suo grande capo, si reca da lui a cena per il suo compleanno. In un’altera solitudine che cozza con le straordinarie ricchezze del banchiere, la conversazione tra i due girerà tutta intorno alla scoperta sconcertante della sbandierata anarchia del banchiere.

il banchiere anarchico

Si rincorrono teorie filosofiche e sociologiche tra teorizzazione dell’anarchismo e individualismo accelerato, che oggi potremmo applicare giusto alla neo-società dei social. Per il resto il quadro è rigidamente novecentesco. Si respira un’aria massonica intorno al protagonista, un uomo solo e singolarmente avvolto dal proprio eloquio che giustifica il suo stesso potere irrefrenabile. Lo enuncia del resto lo stesso regista apponendo a inizio film una frase di Pasolini che suonerebbe inizialmente come dura critica: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole”. Sfoggia piccoli segni esoterici quest’omino rileccato che vorrebbe somigliare allo scrittore portoghese ma forse potrebbe ricordare più le ombre contorte di un certo Hitler. La sua gestualità, elegantissima ma gelida, viene studiata al millimetro da Base come una cervellotica danza ridotta all’osso. La voce gli si fa profonda, tragicamente fredda nell’espressione pur nel calore sonoro che dovrebbe comunicare. Probabilmente la sua interpretazione della vita, ma sarebbe stata perfetta, gigantesca, se l’attore non si fosse lasciato a rialzare il tono in certi momenti dove il personaggio va su con la voce, riportando Base alle sue tonalità vocali, naturalmente più alte. A parte queste finezze, una buonissima prova attoriale.

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La tirannia dell’aiuto è un’altra delle barriere ove il suo interlocutore si arrovella fino al terrore di bruciarsi la carriera e una vita di soddisfazioni e ricchezze. Mai contraddire chi ti dà il pane, sembra dirci violentemente questo film, che parla in realtà di dittatura più di quanto volteggi la parola anarchia. L’estetica e la messa in scena strizzano l’occhio a Bergman. Si gioca anche a scacchi, come da testo originale di Pessoa. Il clima è teso per tutto il minutaggio, tranne un siparietto musicale dove il banchiere accenna a ballare con una canzonetta sull’essersi svegliati anarchici. Senza neanche l’ironia di un Gaber e per giunta un pezzo inspiegabilmente fuori dal mood rispetto alla ottima, rigidissima atmosfera del film. Anche il finale, o meglio la scena dopo i titoli di coda, tempistica un po’ in stile Marvel, si troverà un momento musicale di backstage con tutta la troupe a coreografare con le mani un pezzo rock ridotto a versione curiosamente happy. Forse da queste svirgolettate che ci appaiono come défaillance un po’ disturbanti, potendo essere un grido, un graffio critico contro il capitalismo borghese travestito da anarco-superliberismo dell’individuo, come dall’incipit pasoliniano, il film di Base si manifesta, invece, più come culla del più forte.