America Latina: ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

America Latina
Un'immagine da "America Latina", la moglie e le figlie del protagonista (Astrid Casali, Carlotta Gamba e Federica Pala).

È con delle immagini dal sapore documentaristico che Damiano e Fabio D’Innocenzo scelgono di simulare il viaggio che conduce nel regno del loro ultimo film, America Latina, passato in concorso all’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ora nei cinema dal 13 gennaio. Prosegue il sodalizio con Elio Germano, profondamente convincente nei panni del benestante dentista Massimo Sisti, sulla cui villa in provincia di Latina termina quel viaggio in mezzo alla natura della prima sequenza. Una volta dentro, il registro stilistico dei fratelli D’Innocenzo si ripresenta sin da subito nel dipingere un’atmosfera da oscuro presagio all’interno di quello che sembra essere l’idillio di un padre di famiglia che vive con la moglie (Astrid Casali) e le due figlie (Carlotta Gamba e Federica Pala).

La sconvolgente scoperta di una ragazzina (Sara Ciocca) legata nella sua cantina apre le porte al corpo del film: la manifestazione e la costruzione della colpa del protagonista, che scuote i sotterranei della sua casa e aggredisce il suo mondo immacolato. Il conflitto insorge andando ad intaccare quegli elementi simbolo dell’armonia iniziale, come il pianoforte: se prima Massimo vi si avvicina per imparare un’ordinata scala musicale, nella seconda metà del film si ritrova a picchiare con violenza sui tasti, rendendolo un ottimo correlativo oggettivo e sonoro delle oscillazioni della sua mente. Notevole come il lavoro sul suono partecipi in modo estremamente efficace al processo di accerchiamento del protagonista, per cui anche il mangiare una torta assume dei tratti rivoltanti. Un reparto sonoro, arricchito dalle musiche dei Verdena, che completa ciò che già trasmettono i frequenti primissimi piani e alcune (ma significative) inquadrature in controluce, come a mettere l’uomo davanti a un giudizio incombente.

Su quest’ultima osservazione va ad inserirsi una delle maggiori lodi al film, la fotografia, curata da Paolo Carnera. Le pervasive tonalità di rosso e di blu-verde si impongono da una parte come acute risonanze psicologiche, dall’altra come riflessi di una natura, quella del protagonista, sempre più dominata da un istinto selvaggio. Quando insegue in macchina tra le strade di campagna l’amico Simone (Maurizio Lastrico), una caldissima luce infiamma il suo sguardo, che ora sembra quello di un giaguaro che si muove nella foresta (dell’America Latina) in cerca della sua preda, così come in una delle scene finali può essere accostato a un alligatore che nuota in acque gelide. In entrambi i casi si ha l’immagine di un uomo che in solitaria si aggira in un mondo animale, con tutti i suoi simboli e le sue leggi.

Il film si configura come una stratificazione di piani che sfumano alterità e realtà, assurdo e verosimile, un’ulteriore evidente marca stilistica dei fratelli D’Innocenzo, che con America Latina scrivono e dirigono un’altra “favolaccia” in un castello apparentemente perfetto ma circondato dal buio di una palude. Qui dentro si consuma la tragedia di Massimo Sisti, così disperatamente alla ricerca di un bersaglio, di un’espiazione, che finirà per trasformare il suo rifugio in una gabbia, il suo status dominante in quello di preda, in un film che vede distruggere le più alte mistificazioni maschili della vita borghese.