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Gabriele Landrini

Daphne Scoccia. Fight Girl

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Quattro anni fa ha interpretato la protagonista fuori dagli schemi di Fiore di Claudio Giovannesi, convincendo pubblico e critica e guadagnandosi una nomination ai David di Donatello alla sua prima apparizione sullo schermo. Oggi Daphne Scoccia gira un film dopo l’altro, ma non ha accantonato l’indole ribelle che l’ha sempre contraddistinta. All’inizio, però, questo successo non se lo sarebbe mai aspettato: «Per me era impensabile anche solo l’idea di poter recitare. Nella mia vita sono sempre stata una ragazza abbastanza timida: anche se conoscevo molte persone, facevo fatica a esprimermi e il più delle volte mi bloccavo. Tuttavia, quando ho deciso di venire a Roma, ho voluto più di ogni altra cosa rivoluzionare la mia vita e credo di avercela fatta… Anche se in un modo totalmente inaspettato!»

[questionIcon] Ci racconti come hai iniziato?

[answerIcon] Mi hanno lanciata in questo mondo come una fionda! Sono stata scoperta da Claudio Giovannesi, il regista di Fiore, mentre facevo la cameriera in un’osteria. Una volta avrei detto che è stato un caso, ma ormai non credo più alle coincidenze. Comunque, Claudio mi ha raccontato che erano diversi mesi che stava cercando una ragazza che interpretasse il ruolo della protagonista nel suo film, ma nessuna le sembrava adatta. Parlando con lui, ho scoperto di avere diversi punti di contatto con il personaggio e, senza rendermene conto, ho iniziato quest’avventura.

[questionIcon] Come è stato affrontare il set per la prima volta?

[answerIcon] Ero contentissima e, devo ammetterlo, i primi giorni non ho avuto nemmeno tanta paura… Mi aspettavo di peggio! Le primissime scene che ho girato erano corali, quindi mi sentivo protetta dal gruppo. Le vere difficoltà sono iniziate il quinto giorno, quando mi sono resa conto di quello che stavo facendo. Dovevo interpretare una telefonata e, ovviamente, dall’altra parte della linea non c’era nessuno. Mi sono guardata intorno e ho visto che tutti gli occhi erano puntati solo su di me. In quell’istante ho pensato davvero di non farcela, però, con l’aiuto del regista, la paura è passata.

[questionIcon] Hai iniziato un po’ per caso, ma poi hai continuato per scelta.

[answerIcon] Grazie a Fiore ho capito di voler diventare attrice. La recitazione è diventata una passione, che a sua volta si è trasformata in un obiettivo. Quello che mi interessa non è però apparire sullo schermo, ma lasciare qualcosa nel pubblico, fare in modo che gli spettatori si pongano delle domande e si chiedano il significato di ciò che stanno vedendo. Nel mio piccolo, vorrei fare una piccola rivoluzione, aiutando chi guarda i miei film ad aprire gli occhi su ciò che stiamo raccontando.

[questionIcon] Cos’è accaduto dopo Fiore?

[answerIcon] Fiore mi ha portato molta fortuna. Ho cominciato come protagonista assoluta, poi il Festival di Cannes, una candidatura ai David di Donatello subito dopo, Ciak d’oro come rivelazione dell’anno, Nastri d’argento… Mi sono ritrovata in una giostra! Per fortuna ho sempre avuto accanto persone splendide, a partire da Claudio Giovannesi, che è diventato una sorta di fratello maggiore per me.

[questionIcon] Dopo Giovannesi hai lavorato con un altro giovane regista italiano: Fulvio Risuleo.

[answerIcon] Il colpo del cane è stata un’altra esperienza indimenticabile. Fulvio è un regista onirico, che possiede una grandissima umanità, anche nel suo rapporto con gli attori. Per me è sempre interessante poter lavorare con menti giovani che hanno qualcosa di diverso da dire e che soprattutto non hanno paura di azzardare.

[questionIcon] Com’è cambiata la tua vita con il successo?

[answerIcon] Credo di aver restituito un po’ di dignità a me stessa. Ho sempre lavorato, ma prima di entrare nel mondo del cinema non riuscivo a costruirmi una vera carriera, mentre ora un passo alla volta ci sto provando. A livello personale poi mi sento diversa, riesco a esprimermi molto meglio e ho perso quel pudore che in passato mi bloccava. Però non ti nego che, quando qualcuno mi riconosce, mi sento ancora un po’ in imbarazzo… Non riesco ancora ad abituarmici!

[questionIcon] Hai un ricordo a cui sei particolarmente legata?

[answerIcon] Sicuramente il Festival di Cannes, quando è stato presentato Fiore. Gli applausi mi rimarranno sempre nel cuore, così come il momento in cui tutta quella gente si è alzata in piedi solo per noi. Ogni tanto mi capita di rivedere il video di quel momento e mi commuovo ogni volta.

[questionIcon] Cosa consiglieresti a un giovane attore che vuole fare cinema?

[answerIcon] Non saprei dirti cosa realmente serva per avere successo e non so nemmeno se esista veramente un fattore X. Faccio ancora fatica a credere di averlo io! Comunque, sono dell’idea che sia importante imparare da coloro con cui si lavora, lasciando però emergere quel pizzico di unicità che ci contraddistingue. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei grandissimi professionisti come Claudia Cardinale, ad esempio, e ho imparato moltissimo da tutti loro.

[questionIcon] Nel tuo futuro cosa si prospetta?

[answerIcon] È uscito da non molto Lontano lontano, dove ho avuto l’onore di interpretare la figlia di Ennio Fantastichini nel suo ultimo film. A Berlino, invece, ho presentato Palazzo di giustizia, opera prima di Chiara Bellosi, nella quale interpreto la mamma di una bambina di sette anni. Un ruolo molto diverso dai precedenti! Poi sarò nel film Nel bagno delle donne, un’altra opera prima, diretta da Marco Castaldi e interpretata da Luca Vecchi, e in La danza nera di Mauro John Capece, con Franco Nero. In televisione, invece, uscirà prossimamente la seconda stagione di Nero a metà, sempre con Claudio Amendola.

[questionIcon] Sogni di interpretare un personaggio in particolare?

[answerIcon] Una donna cazzuta. Non che fino a ora non l’abbia fatto, ma mi piacerebbe essere la protagonista di un film action pieno di combattimenti!

Luna Gualano: Go Home, una produzione dal sottoterra!

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«Una produzione dal sottoterra»: con queste semplici parole Luna Gualano definisce Go Home, il suo nuovo lungometraggio da regista presentato durante la rassegna festivaliera di Alice nella Città, sezione parallela ma indipendente della Festa del Cinema di Roma, e in sala il 15, 16 e 17 aprile. Una spiegazione breve ma estremamente calzante che, forse, descrivere al meglio un film come questo: Go Home è infatti una rilettura tricolore dei più tradizionali zombie movies che, strizzando l’occhio tanto a Romero quanto al cinema di genere italiano, recupera la mitologia dei non-morti, non prescindendo dalle valenze metaforiche che gli sono proprie.

Anche a livello produttivo, l’opera della romana d’adozione trova le proprie origini dal basso o, meglio, dal sottoterra: «L’idea è nata mentre ero in macchina con lo sceneggiatore Emiliano Rubi e, fin da subito, entrambi ci siamo resi conto che una storia di questo tipo necessitava di un approccio differente anche nella sua lavorazione, libero cioè da qualsiasi padrone. I centri sociali e Zerocalcare sono stati i primi a interessarsi concretamene, ma poi si sono uniti a noi artisti, associazioni e micro-finanziatori che hanno resto tutto questo possibile».

go home

[questionIcon] Realizzare un lungometraggio dal basso significa anche doversi confrontare con un budget spesso estremamente circoscritto. Questo è stato un problema durante la lavorazione di Go Home?

[answerIcon] Non giudico Go Home una produzione low budget in senso tradizionale del termine. Credo anzi di essere riuscita a sopperire alla mancanza di fondi grazie alla profonda ricchezza umana e professionale delle persone che mi hanno costantemente aiutata. Naturalmente, anche se abbiamo avuto a disposizione moltissime attrezzature, il confronto con i capitali limitati non è stato sempre semplice. Sono tuttavia convinta che un’esperienza del genere possa essere uno stimolo creativo non indifferente, anche per eventuali progetti futuri. La scarsità di denaro ti permette di scardinare i preconcetti che ti poni in quanto professionista, portandoti a superare i tuoi limiti e a trovare soluzioni alternative.

[questionIcon] Il film si confronta con una tradizione fortemente sedimentata nell’immaginario statunitense e internazionale: quella dello zombie. Come ti sei approcciata ad una figura mutata considerevolmente nel corso dei decenni?

[answerIcon] L’idea alla base del progetto era riscoprire le origini degli zombie movies, ricaricando quindi la figura del non-morto della sua funzione simbolica e metaforica. I lungometraggi di Romero fanno proprio questo: criticano la società consumistica e capitalistica attraverso narrazioni horror. Per me e per Emiliano Rubi è stato automatico rifarsi al passato. Paradossalmente, sarebbe stato veramente difficile rappresentare questo mostro nel modo in cui viene fatto oggi, ovvero svuotato da qualsiasi connotato implicito. Insomma, dare un significato metaforico allo zombie è la cosa più naturale che possa esserci!

[questionIcon] Proprio il sotto-testo è uno punti più discussi di Go Home. Questa apocalisse sembra riflettere la società e la politica contemporanea.

[answerIcon] Esatto, la politica è un argomento che conosco bene e il film vuole in parte raccontarla. Non bisogna però credere che sia una critica ad un determinato partito. Certo, la storia si apre con una manifestazione neofascista, ma è comunque inserita in un contesto di quartiere che coinvolge molti cittadini. Il nostro intento era quindi fare una riflessione più ampia, che coinvolgesse tutta la società civile al fine di svelarne i paradossi. Da un lato, si mostra come un certo tipo di ideologia tenda a portare a sé una fetta di popolazione come un’epidemia; dall’altro lato, lo stesso pensiero è fomentato dalle masse, che non sono realmente cattive ma sicuramente ignorano la realtà dei fatti.

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[questionIcon] L’assenza di cattiveria o di bontà è un tema che pervade la caratterizzazione dei personaggi. Il protagonista Enrico, neofascista costretto a nascondersi in un centro d’accoglienza, è sicuramente una figura significativa in questo senso.

[answerIcon] Io e lo sceneggiatore abbiamo discusso molto sul protagonista, dato che non volevamo rappresentarlo in modo univoco rendendolo automaticamente il cattivo. Abbiamo tentato di mettere al centro delle vicende un ragazzo che semplicemente ignora la complessità del mondo che lo circonda. Fondamentale è stato l’apporto di Antonio Bennò, giovane attore che ha reso benissimo il concetto di camminare sul filo del rasoio, perché Enrico doveva destare simpatia senza mai permettere una vera e propria immedesimazione dello spettatore… Alla fine resta pur sempre un fascista!

[questionIcon] Go Home è stato uno dei primi film ad essere proiettato ad Alice Nella Città, che è indubbiamente una vetrina in Italia e in Europa. Siete soddisfatti del riscontro ottenuto?

[answerIcon] Assolutamente, la cosa bellissima è stata che siamo stati contattati direttamente dai selezionatori e il film è piaciuto immediatamente. Ero indubbiamente agitata, è stato un lavoro che ha coinvolto così tante persone che ho sentito il peso di moltissime responsabilità, però sono felice di come sia andata. Adesso stiamo valutando diverse proposte per la distribuzione italiana e estera, tanto che il film probabilmente riuscirà ad arrivare in sala l’anno prossimo.

[questionIcon] Dal tuo futuro invece cosa dobbiamo aspettarci?

[answerIcon] Un altro horror! Sempre con Emiliano Rubi, sto lavorando ad una nuova pellicola con la stessa impronta ambivalente e metaforica di Go Home, ambientata però nelle mura domestiche; poi chissà, magari un film di fantascienza!

Box Office 2018: crescita e ottimismo per il cinema italiano

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Come ogni anno, Cinetel ha pubblicato durante la seconda settimana di gennaio i dati ufficiali relativi all’andamento economico del mercato cinematografico italiano. A un primo sguardo generale, diverse sono le tendenze che puntualmente si sono riconfermate. La più importante è sicuramente la decrescita, costante ma non eccessivamente marcata, degli incassi totali: se nel 2017 il botteghino tricolore aveva guadagnato € 584.554.941 con un numero di presenze pari a 92.264.159, nel 2018 gli stessi valori sono scesi rispettivamente a € 555.445.372 (-4,98%) e 85.903.642 (-6,89%).

Nonostante queste cifre avvalorino un’idea di crisi che da anni si accompagna a qualsiasi discussione sull’economia del cinema italiano, altri dati – in questo caso in controtendenza rispetto a quelli proposti in precedenza – fanno invece presagire l’esatto contrario. Nel momento in cui ci si focalizza maggiormente sui lungometraggi nazionali, appare infatti palese che il cinema di produzione o co-produzione italiana esca assolutamente vincente dall’anno appena concluso. Rispetto ai dodici mesi precedenti, i lungometraggi nazionali hanno incassato complessivamente € 127.869.334, ovvero € 24.628.540 in più rispetto a quanto stilato lo scorso gennaio. Inoltre, è in crescita anche il numero di biglietti, che nel 2018 ha sfiorato i 20 milioni (per l’esattezza 19.920.776), superando di 3.027.820 unità la somma del 2017.

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Questo incremento del +23,86% nei guadagni prettamente tricolore appare ancor più sorprendente nel momento in cui si prendono in esame i titoli che lo hanno permesso. Conclusa da tempo la remunerativa parentesi dei cinepanettoni e in mancanza di grandi supercampioni come Quo Vado o Perfetti sconosciuti (che nel 2016 incassarono rispettivamente € 65.365.655 e € 17.370.302), il pubblico sembra aver voluto puntare non esclusivamente su singoli poli d’attrazione – che essi siano attori, registi o anche storie rodate –, ma sul cosiddetto cinema medio, più tematicamente variegato.

Prendendo come campione i 27 titoli italiani (8 in più dell’anno precedente) che hanno registrato un incasso superiore al milione e mezzo, tale multiformità appare evidente, lasciando trasparire anche un desiderio da parte degli spettatori di confrontarsi con un nuovo modello di cinema. Sebbene sia inviolato il tradizionale predominio di commedie come ad esempio Benedetta follia con Carlo Verdone o Un gatto in tangenziale con Paola Cortellesi, non mancano dramedy famigliari (A casa tutti bene di Gabriele Muccino o Euforia di Valeria Golino), melodrammi d’amore (Napoli velata di Ferzan Ozpetek), thriller all’italiana (Il testimone invisibile con Miriam Leone) e perfino film d’autore (i due Loro di Paolo Sorrentino o Dogman di Matteo Garrone).

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La grande vastità di titoli nazionali prodotti sembra aver permesso al cinema italiano di ritagliarsi uno spazio tra i grandi blockbuster americani, il cui dominio resta comunque incontrastato. Proprio questi ultimi risultano però curiosamente in perdita: con un incasso di € 333.515.100 e delle presenze pari a 50.958.345, il cinema a stelle e strisce è stato infatti vittima di una netta inflessione, come dimostrano il -14% degli introiti e il -15,29% dei biglietti venduti rispetto all’anno scorso.

Ad uno sguardo retrospettivo, il 2018 sembra dunque essere stato un buon anno per il cinema italiano, non solo da un punto di vista qualitativo, ma anche economico. Sebbene una lenta curvatura a ribasso accompagni gli incassi totali da circa un triennio – ovvero dal 2016, non casualmente l’anno di uscita del già citato Quo Vado –, l’offerta delle produzioni nazionali risulta sempre più vincente, non solo grazie ai tanto conclamati volti noti che lo popolano, ma anche (e forse soprattutto) per merito di giovani addetti ai lavori maggiormente disposti a sperimentare.

Country for Old Men

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Il cinema di finzione ha tentato svariate volte di mettere in scena il cosiddetto American Dream e almeno altrettante volte il suo fallimento: il sogno americano si è infatti rivelato spesso una mera illusione, che si sfoca inesorabilmente davanti a problemi quotidiani quali la dispendiosa sanità a pagamento o il poco controllato commercio d’armi. A partire da questa realtà, il documentario Country for Old Men racconta quindi l’infondatezza dell’utopia a stelle e strisce, focalizzandosi su una galassia di figure tanto importanti quanto poco considerate: gli anziani.

Alternando alcune interviste a spaccati di vita quotidiana, i documentaristi italiani Pietro Jona e Stefano Cravero si muovono tra le strade di Cotacachi, un piccolo agglomerato urbano dell’Ecuador che negli ultimi dieci anni ha visto crescere la propria popolazione, dopo che diversi pensionati statunitensi – chiamati anche economics refugees – vi si sono trasferiti.

Alla ricerca di un sogno che nella loro terra natia era sembrato ormai impossibile, queste figure eccentriche ma estremamente reali si susseguono pertanto davanti alla cinepresa, raccontando a proprio modo il passato ma soprattutto il presente.

Divisi tra i resoconti di vita vissuta e le logiche del reportage d’inchiesta, gli old men evocano i problemi di una nazione sterminata e contraddittoria come gli Stati Uniti: Claudia e Bruce, ad esempio, sono una coppia che, tra una torta cucinata in casa e un pomeriggio in giardino, ricordano come la decisione di lasciare la propria terra sia stata dettata dalla necessità del marito di curarsi, non potendo fare fronte alle altissime cifre richieste dalla sanità statunitense. Diane invece è una psicologa ormai in pensione che, dopo aver offerto sostegno ad alcuni sopravvissuti alla strage di Columbine, ha abbandonato la propria nazione per trasferirsi in un luogo dove il possesso d’armi non è consentito.

Prodotto da GraffitiDoc in collaborazione con RAI Cinema e con il sostegno di MIBACT, Piemonte Doc Film Fund e del Programma Creative Europe – MEDIA dell’Unione Europea, Country for Old Men è stato presentato in anteprima al Trieste Film Festival 2018 e sarà distribuito da Lab80 a partire da ottobre.

Andrea Carpenzano. Solo la noia può salvarci

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È tra i giovani attori più richiesti del momento, ma Andrea Carpenzano non sembra essere cambiato. Nonostante il successo, solo di una cosa non può fare a meno: la noia.

Un ragazzo comune che desidera solo non smettere mai di annoiarsi: così potrebbe essere definito Andrea Carpenzano, uno degli attori più promettenti del panorama cinematografico italiano. La sua è una vita sull’onda degli eventi, che lo ha condotto a cimentarsi in lungometraggi, cortometraggi e serie televisive.

Carpa – così lo chiamano i suoi amici – ha infatti esordito sul grande schermo appena ventenne, conquistando il favore della critica grazie a Tutto quello che vuoi, commedia agrodolce dove vestiva i panni di un giovane turbolento ma di buon cuore. Reduce dall’esperienza televisiva di Immaturi – La serie, la consacrazione è arrivata con La terra dell’abbastanza, un intenso dramma ambientato nella periferia romana: il suo Manolo, proprio come Alessandro nel lungometraggio precedente, ha affascinato grazie alla sensibilità che traspare anche nelle parole del suo interprete.

Nonostante una carriera nel mondo del cinema pronta a spiccare il volo, Andrea sembra non aver perso l’umiltà, tanto che è difficile per lui definirsi un attore: «Non rifiuto questa etichetta perché la giudico negativamente, anzi, amo molto quello che faccio e sono immensamente grato a chiunque creda in me. Tuttavia non riesco ancora a giudicarmi un vero attore. Quando me lo chiedono, dico sempre di lavorare nel cinema, ma anche questo mi sembra incredibile».

Davvero così poca autostima, Andrea?

Forse esagero un po’, ma credo che proprio questo mi abbia permesso di essere come sono oggi. I film a cui ho preso parte sono figli del mio modo di essere: sono sicuro che, se avessi avuto troppa stima in me stesso, non sarei riuscito a interpretare Manolo e Alessandro allo stesso modo. Anche nella vita di tutti i giorni non faccio altro che affrontare una giornata alla volta: non ho mai sentito la necessità di avere successo a tutti i costi e non mi metto in competizione con chi mi circonda. Sono convinto che questa assenza di aspettative sia fondamentale al giorno d’oggi, è una realtà difficile e solo un’incertezza consapevole può aiutare la mia generazione ad affrontarla.

Incertezza o meno, le tue interpretazioni in Tutto quello che vuoi e ne La terra dell’abbastanza sono state molto apprezzate da critica e pubblico. Hai qualche cosa in comune con i tuoi due personaggi?

In realtà preferisco non giudicarmi, quindi trovo difficile paragonarmi ai ragazzi che interpreto. Sono persone totalmente diverse da me, ma entrambe presentano una forte sensibilità che, anche se rimane celata per gran parte del tempo, traspare dai loro comportamenti e soprattutto dalle loro scelte. Personalmente, non saprei dire se il punto di contatto sia proprio questa tenerezza nascosta ma, stando a quello che dice mia madre, sono un ragazzo sensibile, quindi fidiamoci di lei!

Continuando a parlare dei film che ti hanno visto come protagonista, come hai vissuto l’esperienza sul set?

Non ho mai pensato di fare l’attore e non ero minimamente preparato a quello che stavo per affrontare. Mi sono presentato al provino di Tutto quello che vuoi praticamente per caso. Inizialmente ero in lizza per un ruolo minore ma, dopo varie prove con il regista Francesco Bruni, mi è stata affidata la parte da protagonista. Ero terrorizzato e adattarmi ai ritmi è stato difficilissimo, ma con la troupe si è creata un’ottima intesa. Lo stesso è successo per La terra dell’abbastanza e per Immaturi – La serie: anche in questi casi mi sono tranquillizzato quando mi sono reso conto dell’umanità e della pazzia di chi mi circondava.

Hai detto che non pensavi di fare l’attore. Cosa ti sarebbe piaciuto fare se non avessi intrapreso questo percorso?

Prima di iniziare a recitare ero comunque interessato al mondo del cinema, ma più al dietro le quinte: guardavo molti film e non
mi sarebbe dispiaciuto fare il montatore. Quando uscivo con i miei amici portavo sempre con me una videocamera, con cui riprendevo e raccontavo la mia quotidianità. A ogni modo, la vita mi ha portato a intraprendere un’altra strada.

E proprio questa strada ti ha condotto a essere dove sei oggi. Cosa è cambiato nella tua vita da quando sei diventato un attore o, meglio, un non-attore?

In realtà, non molto. Sono stato sempre abituato ad avere pochi soldi e, nonostante adesso la situazione non sia molto diversa, tutto quello che guadagno lo investo in alcolici! Scherzi a parte, ho stretto amicizie con alcuni colleghi, ma preferisco uscire con i miei vecchi amici. Credo sia importante confrontarsi con persone che non fanno il tuo stesso lavoro, così da poter apprezzare realtà differenti. Inoltre, rispetto al passato, adesso occasionalmente qualcuno mi ferma per strada chiedendomi una fotografia…

Cosa consiglieresti a un tuo coetaneo che vuole intraprendere latua stessa carriera?

Credo che chiunque voglia fare questo mestiere debba imparare
a non prendersi troppo sul serio. Siamo costretti a dover costantemente dimostrare di essere capaci di fare cose diverse, ma in realtà è importante riscoprire anche l’arte della noia, perché ci permette di apprezzare le piccole cose e di dedicare il giusto tempo alle aspirazioni che giudichiamo realmente importanti.

E il futuro?

Non riesco a prevedere cosa succederà, perché tutto ciò che mi è successo finora non l’avrei mai immaginato. Sognando, mi piacerebbe recitare in un film di Harmony Korine, perché ho amato molto Gummo e anche Ken Park, di cui non è regista ma sceneggiatore. Per il momento però sto concludendo le riprese de Il campione, un film dove interpreto un personaggio molto diverso dai precedenti, e poi si vedrà.

      

Foto ROBERTA KRASNIG
Stylist STEFANIA SCIORTINO
Assistente fotografa ANITA XELLA
Makeup ILARIA DI LAURO@HARUMI
Hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI
Abiti GUCCI
Special thanks PALMERIE

Andrea De Sica: Baby, il ritratto universale di una generazione

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Approdata su Netflix lo scorso 30 novembre, Baby è sicuramente la serie italiana più chiacchierata del momento. Nata con lo scopo di raccontare lo scandalo che nel 2014 ha visto protagoniste due baby squillo dei Parioli romani, la serie ideata dal collettivo GRAMS* si discosta fin dalla prima puntata dalla cronaca, preferendo mettere in scena un affresco corale.

Il regista Andrea De Sica, dopo I figli della notte, torna dunque dietro la macchina da presa per raccontare un’altra storia pensata, almeno all’apparenza, per gli adolescenti: «Il progetto nasce con un target definito, gli adolescenti appunto. Netflix voleva realizzare una serie young adults che fosse più graffiante rispetto alle canoniche produzioni nazionali. In Italia siamo abituati a prodotti teen popolati da simpatici cazzoni che vivono problematiche facilmente risolvibili, mentre con Baby abbiamo voluto raccontare una realtà differente, più drammatica ma anche maggiormente reale.»

Nonostante il pubblico di riferimento sia quello adolescenziale, credi che Baby possa piacere anche agli adulti?

Certo! In questi giorni alcune mamme mi hanno raccontato di essersi identificate con gli eventi della serie, soprattutto ricordando la preoccupazione che provavano quando i loro figli uscivano la sera. Secondo me questo è stato possibile perché le vicende sono raccontate con una tale serietà che anche una persona matura può facilmente rispecchiarcisi. Ad ogni modo, sono molto felice dell’ottimo riscontro nazionale e internazionale ottenuto dalla serie perché, nonostante il target di riferimento, abbiamo avuto commenti positivi tanto dai giovani, quanto dagli adulti.

andrea de sica

In quanto serie young adult, Baby si confronta con archetipi narrativi abbastanza sfruttati nel cinema americano: c’è la brava ragazza che diventa cattiva, la festaiola fragile, il ragazzo omosessuale, il bello e dannato ecc. Come hai dato a queste figure bidimensionali uno spessore più definito?

Innegabilmente la serie adotta alcuni archetipi tradizionali delle produzioni teen ad ampio spettro, ma ho tentato di rifuggire qualsiasi stereotipo mantenendomi saldo ad una realtà tangibile e contemporaneamente universale. Non volevo realizzare una serie di denuncia o di cronaca, ma volevo raccontare con empatia la nuova generazione, mostrando l’umanità dei giovani e tentando di rendere universali le loro storie. Proprio per questo un espediente fondamentale è la coralità: al contrario de I figli della notte dove ho lavorato sull’astrazione, per Baby mi sono immerso nella quotidianità di diversi adolescenti, anche parlando direttamente con alcuni di loro, e ho cercato di restituirla sullo schermo. Significativo poi è stato l’apporto dei GRAMS*, ovvero il collettivo che ha sceneggiato la serie, i quali, essendo giovanissimi, hanno raccontato loro stessi e il mondo che li circonda.

Sembra che l’elemento comune dei tuoi progetti siano i teenagers. Non hai paura di legare troppo il tuo nome a questo tipo di figure, diventando una sorta di cantore degli adolescenti?

Questo non mi dispiacerebbe! L’adolescenza è stata una fase molto importante della mia vita, quindi raccontare questi anni mi piace. Inoltre, anche da un punto di vista prettamente cinematografico, amo ribaltare i canoni tradizionali a cui sono legati in Italia i prodotti teen. Ad ogni modo, non penso di meritare l’epiteto di cantore degli adolescenti: sono all’inizio della mia carriera e in futuro potrei raccontare altro. Ad esempio, al momento sto lavorando ad un progetto diversissimo, ovvero un horror che si discosta totalmente da I figli della notte e Baby… Però non posso dire altro.

Oltre allo sguardo sui giovani, un altro elemento ricorrente dei tuoi lavori è l’agiatezza economica dei protagonisti. Non ti piacerebbe raccontare altri ambienti sociali?

Io credo che un regista non sia un sociologo e che, nel momento in cui decide di dirigere un film, debba trovare una storia che gli sia congeniale, indipendentemente dallo status sociale dei protagonisti. In Baby, uno dei protagonisti è Damiano, un ragazzo che proviene dal Quarticciolo e che si ritrova catapultato nella realtà pariolina. Nonostante non sia ricco, questo personaggio è quello che ricordo con maggior affetto e che considero quasi come un figlio. La sua storia è stata pensata naturalmente dai GRAMS* ma io l’ho plasmato sullo schermo: per interpretarlo ho scelto Riccardo Mandolini, un attore non professionista che però si è dimostrato perfetto, anche perché infondo è realmente Damiano.

andrea de sica

Nonostante la coralità, Chiara e Ludovica sono le protagoniste della serie. Dopo aver raccontato di un collegio maschile in I figli della notte, come è stato rapportarsi con dei personaggi femminili? 

L’idea di confrontarmi con le figure femminili non mi ha fatto paura, anche perché sono convinto che nel mondo di oggi ragazze e ragazzi siano abituati a stare insieme e, proprio per questo, non ci sono più preoccupazioni nel dialogare e nel raccontarsi a vicenda. Tutte le polemiche sulle differenze di genere, che in seno al mondo del lavoro sono motivate, credo siano già superate da un punto di vista strettamente culturale, proprio grazie a una parità che si promuove fin dagli anni della scuola. Proprio questo mi ha permesso dunque di avere un confronto diretto con Benedetta Porcaroli e Alice Pagani, che mi hanno poi ripagato dicendomi di essersi sentite raccontate da un coetaneo.

Da un punto di vista produttivo, rispetto alla tua opera prima, sei entrato in un’azienda enorme come Netflix. Questa collettività ha influenzato il tuo lavoro?

Mi sono trovato benissimo con Netflix e penso che altrimenti Baby non sarebbe stata realizzata in questo modo, puntando cioè su ragazzi giovani e su uno stile dinamico. Questa serie è la prova che rispetto al passato oggi esiste una micro-cosmo che vuole rompere gli schemi produttivi a cui siamo stati abituati. Naturalmente, essendo comunque televisione, ci sono delle regole molto chiare, che non hanno però compromesso la mia libertà. Inoltre, fondamentale è stato il lavoro di squadra: Baby è nato come un progetto collettivo e lo è rimasto per l’intera fase produttiva e post-produttiva. Non credo che il regista debba avere un controllo assoluto sul prodotto, quindi anche durante le riprese c’era un costante dialogo con i GRAMS* e con lo showrunner Nicola De Angelis. Certo, a volte capitava di dibattere e scontrarsi, ma proprio questo mi ha permesso di crescere.

Baby è un progetto seriale e, come con ogni prodotto di questo tipo, non finisce la prima stagione che già si spera in una seconda. Le premesse per un seguito ci sono: c’è possibilità?

Non posso dire nulla a riguardo. Devo però ammettere che mi piacerebbe molto poterla realizzare: sono innamorato del mondo di Baby e sento un forte legame con tutti coloro con ne hanno preso parte, quindi sì, desidererei molto dirigere una seconda stagione.

Fotografie di Francesco Berardinelli.

Shi Yang Shi: un Superman cinese diviso tra due culture

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Arrivato in Italia ad undici anni, Shi Yang Shi si è imposto negli ultimi decenni come uno degli artisti di origine asiatica più importanti e poliedrici del panorama nazionale. Facendo del suo connaturato ibridismo culturale un punto di forza, l’attore – ma anche scrittore ed inviato – ha alternato nella sua carriera esperienze teatrali a ruoli cinematografici, non dimenticando naturalmente il piccolo schermo e facendo incursione perfino nel mondo editoriale. Proprio in occasione dell’uscita del suo primo romanzo autobiografico Cuore di Seta, Shi ha raccontato se stesso e il lungo percorso che lo ha condotto ad essere l’uomo e soprattutto l’artista eclettico che è oggi. Dalle sue parole, tutto sembra essere iniziato dal palcoscenico: «Reputo che il teatro sia la Cenerentola dell’arte, perché richiede uno sforzo quotidiano. Essenziale per la mia formazione è stata l’esperienza di Spazio Compost a Prato: la reputo la mia vera scuola, perché ho potuto trovare un luogo di confronto multiculturale.»

shi yang shi

[questionIcon] Il tuo amore per l’arte è però precedente. Quando hai iniziato ad interessarti a questo mondo e, naturalmente, al cinema?

[answerIcon] In realtà, fin da bambino sono sempre stato un piccolo artista, infatti a 11 anni dipingevo; quando sono arrivato in Italia ho dovuto soffocare questa mia passione, a causa delle difficoltà riscontrate dopo essermi trasferito. Ho iniziato ad interessarmi seriamente al mondo del cinema quando avevo 24 anni; studiavo marketing alla Bocconi e nel frattempo lavoravo come venditore ambulante. La magia del grande schermo mi ha travolto quando ho intrapreso la carriera di traduttore e ho avuto la possibilità di confrontarmi con Gong Li, che si trovava al Festival del Cinema di Venezia come presidente di giuria. È stato proprio a lei che ho confidato il mio desiderio di intraprendere la professione dell’attore ed inaspettatamente mi ha incoraggiato. Anche Tian Zhuangzhuang, regista che quell’anno ha presentato alla kermesse Springtime in a Small Town, mi ha spronato a seguire la mia strada, indirizzandomi appunto agli studi teatrali dato che, mi disse, “noi preferiamo gli attori di teatro perché si impegnano e studiano di più”.

[questionIcon] Hai quindi stravolto la tua vita buttandoti nel mondo dello spettacolo. È stato difficile intraprendere questa strada?

[answerIcon] Sì, è stato molto difficile, ma era una cosa che sentivo di dover fare: mi sarei disperato se fossi diventato un producer per altri. Io provengo da una famiglia che in Cina era abbiente ma che, una volta arrivata in Italia, è diventata molto povera, quindi le aspettative dei miei genitori si concentravano tutte su di me. Quando avevo vent’anni mi sono trovato in una situazione in cui mi rendevo conto di essere incapace di sognare, perché mio padre mi vedeva come un potenziale drago, ovvero secondo la cultura cinese un imprenditore a capo di un’azienda. Io però ho deciso di ribellarmi. Dopo l’esperienza a Venezia, ho cominciato a sostenere provini e a propormi. Sempre al Lido, ho incontrato Gianni Amelio che mi ha assunto come aiuto-regista, oltre che in un piccolo ruolo, nel suo film La stella che non c’è, un dramma sui rapporti commerciali tra Italia e Cina. Da lì ho cominciato a collaborare con diversi registi, come Giuseppe Tornatore, Silvio Soldini e Luca Luccini.

shi yang shi

[questionIcon] Cineasti importanti, nonostante il cinema italiano non offra molti ruoli ad attori di origine cinese.

[answerIcon] È difficile per me trovare ruoli complessi. A volte indubbiamente capita: ad esempio, il personaggio che interpreto nella soap-opera Un posto al sole sta diventando davvero stimolante, perché sta prendendo una piega che mi piace molto. Tuttavia, è una realtà difficile, perché non è semplice emergere. Non bisogna però lasciarsi travolgere dal vittimismo, non mi reputo assolutamente una vittima e non voglio esserlo. Io e i miei colleghi continuiamo infatti a scrivere e a recitare. Sono sicuro che con il tempo, e magari con un po’ di ritardo, il cinema italiano ci darà il giusto spazio.

[questionIcon] Dopo il teatro e il cinema, e accanto anche alla tua breve avventura come inviato televisivo per Le Iene, ultimo in ordine di tempo è stato invece il tuo confronto con la scrittura. Come è nata l’idea di raccontare la tua vita in un libro?

[answerIcon] Nel 2015 mi hanno proposto per la prima volta di scrivere il libro Cuore di seta ed io inizialmente non ero convinto. Riflettendo però mi sono reso conto di avere il desiderio di mettere su carta la mia storia, al fine di poter creare un ponte tra diverse culture e anche tra diverse sessualità. Io faccio parte della comunità LGBT+ e naturalmente di quella cinese, quindi volevo raccontare in modo chirurgico ma anche con rispetto queste due realtà, cosicché tutti potessero rispecchiarsi. Il libro non è nato con intenti politici, ma ci sono diritti che devono essere riconosciuti e, parafrasando Camus, la mia arte non fa attivismo ma quando l’attivismo chiama l’arte risponde.

[questionIcon] Cinema, teatro, televisione, letteratura: quattro arti che hai sempre cercato di intrecciare, non dimenticando il tuo essere italiano e cinese. Alla luce di tutto quello che hai fatto, cosa ti si prospetta per il futuro?

[answerIcon] Mi piacerebbe ricominciare a dipingere. La pittura è il mio grande amore perduto. Pensando al cinema, però, vorrei diventare Superman cinese. Certo, abbiamo Jackie Chan e Bruce Lee, ma manca un vero supereroe cinese e io spero di poterlo diventare!

Una storia senza nome, quando il cinema racconta il cinema

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“Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto l’arduo compito di chiudere fuori concorso la rassegna di pellicole tricolore che tra la Selezione Ufficiale, le Giornate degli Autori, Orizzonti e la Settimana Internazionale della Critica hanno riccamente popolato gli schermi del Lido veneziano.

Orchestrato come un gioco di scatole cinesi, la nuova fatica di Roberto Andò è un’opera meta-filmica, che racconta senza prendersi sul serio il mondo che si nasconde dietro l’industria cinematografica italiana. La protagonista Valeria è la segretaria di un produttore e arrotonda il misero stipendio scrivendo segretamente per Alessandro, celebre sceneggiatore nonché suo grande amore. La vita della giovane è totalmente sconvolta quando un misterioso uomo la contatta, invitandola a vedersi per discutere di una storia che lui vorrebbe che scrivesse. Impaurita ma anche incuriosita, Valeria decide dare appuntamento all’interlocutore, senza sapere che quello sarà solo l’inizio di un’avventura ai limiti del possibile.

una storia senza nome

Prodotto leggero e pensato per il grande pubblico, Una storia senza nome (qui il trailer ufficiale) è un film sicuramente azzardato e rischioso, che tenta di divertire sia nella storia raccontata, sia nei toni della messa in scena. La narrazione non è anzitutto prettamente lineare, dato che alterna momenti al presente, flashback in bianco e nero e sequenze meta-cinematografiche. Sebbene questo ibridismo non provochi confusione, le parti realistiche non possono sempre essere definite tali, perché elementi involontariamente inverosimili puntellano il succedersi degli eventi, lasciando trasparire l’assenza di una struttura narrativa forte. I caratteri tipici della commedia non bastano per salvare le sequenze più illogiche, che spesso si concludono con risoluzioni sbrigative o inconsistenti.

Anche la caratterizzazione dei protagonisti è volutamente limitata: preferendo ragionare sui personaggi in quanto maschere (come ad esempio l’ingenua, la sgualdrina, l’egocentrico, ecc.), Andò non desidera dipingere figure a tutto tondo. Ciò riecheggia la bidimensionalità tipica della tradizione teatrale italiana, che oggi però appare innegabilmente anacronistica. In questo micro-cosmo quasi parodistico, si muovono Micaela Ramazzotti, ormai legata al ruolo dell’eroina un po’ naif, e Alessandro Gassmann, inguaribile playboy propenso alla truffa. A rubare la scena sono tuttavia altri due bravi interpreti del cinema italiano, che qui vestono i panni rispettivamente dell’enigmatico detective e della madre impicciona: il primo è Renato Carpentieri, premiato agli ultimi David di Donatello grazie a La tenerezza di Gianni Amelio, mentre la seconda è Laura Morante, vista al Lido anche con La profezia dell’Armadillo.

una storia senza nome

Tornando a quanto detto all’inizio, la messa in scena e il conseguente montaggio possono invece essere considerati il secondo azzardo del progetto. Proprio a causa del già citato intreccio tra sogno e realtà, la linea narrativa si caratterizza infatti di toni differenti a seconda del momento, che spesso però appaiono eccessivamente artificiosi. Anche le sequenze del quotidiano non si caricano di uno sguardo autoriale realmente preciso, provocando un senso di anonimia rappresentativa. Da contro, Andò riesce a orchestrare il ritmo in modo estremamente coinvolgente, permettono allo spettatore di seguire con interesse la storia. L’intrattenimento del pubblico sembra dunque essere lo scopo principale di quest’ultima fatica firmata dal regista palermitano che, nonostante gli innegabili problemi, riesce a divertire e a coinvolgere chiunque la guardi.

Venezia 75: Capri-Revolution, un ritratto al femminile di Mario Martone

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Quest’isola compare e scompare continuamente alla vista
e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie.
In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine
e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo.

Con queste parole della scrittrice italiana Fabrizia Ramondino inizia Capri-Revolution (qui il trailer ufficiale), ultimo lungometraggio italiano in concorso nella Selezione Ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia. Siamo nel 1914 e, con lo spettro sempre di un’imminente guerra, la giovane Lucia, unica figlia di una famiglia di pastori, passa le giornate portando a pascolare il bestiame, tra le montagne della celebre isola del Golfo di Napoli. Stanca dell’arretratezza mentale dei suoi famigliari e dei suoi compaesani, un pomeriggio decide di avvicinare Seybu, il capo spirituale di un gruppo di intellettuali dediti alla natura e alla libertà di pensiero. Nonostante il parere contrario dei fratelli, Lucia stringe un legame sempre più forte con l’uomo e i suoi compagni, scoprendo gradualmente una forza interiore che le permetterà di trovare la propria indipendenza.

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In uscita nelle sale italiane a Natale, Capri-Revolution segna il ritorno dietro la macchina da presa di Mario Martone, dopo tre anni dal corto Pastorale cilentana e dopo quattro dal successo de Il giovane favoloso con Elio Germano. In continuità con il passato del regista, questo nuovo lungometraggio pone l’accento fin dalle prime sequenze sul paesaggio, che diventa il vero protagonista della narrazione. Grazie alla fotografia di Michele D’Attanasio e alle scenografie di Giancarlo Muselli, gli scorci montani e marittimi dell’isola di Capri si tingono di una luce nostalgica, che riesce paradossalmente a confermare e a contrapporsi ad un mondo antico ormai – almeno teoricamente – non più così diffuso. Se il tema dell’arretratezza è imperante nella narrazione degli eventi e nella caratterizzazione dei personaggi, tale elemento non è dunque totalizzante nella messa in scena, che guarda al passato come ad una realtà non da riproporre concretamente, ma almeno da ricordare.

Nelle strade e nei sentieri di una Capri malinconica, si muove poi un personaggio inconsueto: Lucia, modello archetipico di una femminilità indipendente, rompe con qualsiasi schema pregresso, rovesciando le logiche culturali che la imprigionavano e aprendosi ad una realtà che le è maggiormente consona. Da questo punto di vista, Capri-Revolution è una storia molto moderna: tralasciando azzardati paragoni con la società contemporanea, Martone rappresenta un ritratto al femminile estremamente controcorrente, la cui riuscita è merito anche della convincente Marianna Fontana, vista in Indivisibili di Edoardo De Angelis. Seppur funzionale per le logiche del racconto, tale focalizzazione appare però sbilanciata rispetto alle linee narrative secondarie come quella dei fratelli o della problematica Lilian, che nella parte conclusiva del lungometraggio si perdono in conclusioni sbrigative o completamente assenti.

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Sempre nella seconda ora, più illuminata è invece la decisione di introdurre un tema difficile come quello della Prima Guerra Mondiale che, in modo non eccessivamente marcato, sconvolge il racconto, portando la protagonista a perdere le proprie certezze e a maturarne altre. Non sacrificando il proprio stile velatamente malinconico, Mario Martone gioca quindi sulla figura femminile fino alla fine, permettendo allo spettatore – uomo o donna che sia – di immedesimarsi con un’eroina tanto moderna quanto implicitamente ancorata al passato, senza sfociare in un pericoloso anacronismo.

Venezia 75: Un giorno all’improvviso, la gioventù secondo D’Emilio

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Dopo Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri e Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire, debutta nell’ottava giornata della Mostra del Cinema di Venezia una nuova opera prima italiana, presentata questa volta nella sezione Orizzonti. Un giorno all’improvviso segna l’esordio di Ciro D’Emilio che, dopo una serie di cortometraggi e collaborazioni come sceneggiatore, decide di raccontare una toccante storia di formazione ambientata in una piccola cittadina della provincia campana. Antonio è un ragazzo di diciassette anni che, tra allenamenti e lavoretti, sogna di diventare un calciatore professionista. La sua vita non è però facile come quella di molti suoi coetanei: mentre il padre l’ha abbandonato da bambino senza alcun rimpianto, la madre è estremamente problematica, tanto che spesso lo stesso Antonio è costretto ad occuparsene. Le cose sembrano cambiare quando la squadra di calcio del Parma lo nota e lo invita ad un provino.

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Raccontando i sogni e le speranze di un giovane, il lungometraggio di D’Emilio si allinea con la nuova ondata di pellicole di formazione che sta investendo il cinema tricolore nel corso degli ultimi anni. Rispetto ai predecessori veneziani e non, Un giorno all’improvviso non colpisce sicuramente per inventiva, ma ricorre ad alcune soluzioni narrative e rappresentative comunque molto interessanti.

Più dei precedenti, la storia si focalizza anzitutto su un singolo protagonista che, pur dialogando costantemente con altri personaggi, monopolizza interamente la scena. Proprio per questo, a sorprendere è il giovane Giampiero De Concilio che, al suo esordio sul grande schermo dopo marginali esperienze televisive e teatrali, propone un’interpretazione già estremamente matura ed equilibrata: il suo Antonio si delinea come un personaggio realmente a tutto tondo, capace di mutare i diversi stati d’animo e le conseguenti emozioni senza mai perdere la propria identità. Accanto a lui, si muove anche la brava Anna Foglietta che, nel ruolo minore della madre psicologicamente instabile, offre un ritratto veritiero della malattia mentale, senza sfociare mai nella parodia.

un giorno

Da un punto di vista creativo, la regia di Ciro D’Emilio si presta ad una verosimiglianza linguistica e rappresentativa, votata naturalmente all’intrattenimento del pubblico. Al contrario di molte opere prime, D’Emilio non tenta di caricare il proprio lavoro di echi artistici e cinematografici, ma indaga in modo pulito e ordinato il micro-cosmo che desidera raccontare. Come un moderno cantore, il cineasta piega il proprio stile alle esigenze del racconto, seguendo con costanza Antonio nei suoi confronti con la madre, con gli amici e con la giovane guagliona che gli ha rubato il cuore.

Costretto a diventare adulto prima del previsto, Antonio non è solo il centro focale della narrazione, ma è anche il cuore pulsante della messa in scena che, partendo proprio dallo sguardo innocente del ragazzo, dipinge un affresco mai banale della campagna napoletana, scissa tra il grigio delle strade semi-urbane e il verde dei campi da calcio. Con coerenza ed equilibrio, il regista ha quindi nuovamente evidenziato l’importanza che il protagonista ricopre in quest’opera, riuscendo – a discapito però di qualsiasi rischio – ad intrattenere e convincere.