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Gabriele Landrini

Amanda Campana, “la piccola del set” è cresciuta

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Giovane, talentuosa e, come lei stessa si definisce, fieramente femminista: Amanda Campana, classe 1997, non è solo una delle giovani attrici più lanciate del momento, ma sa cosa vuole e non ha paura di mettersi in gioco per ottenerlo. Dopo essere stata scoperta da Yvonne D’Abbraccio, che le ha assegnato una borsa di studio nella propria scuola, ha esordito come attrice in una delle più note produzioni italiane firmate Netflix e da quel momento non si è più fermata. Ma è stata proprio Sofia, la solare e allegra adolescente che interpreta in Summertime, a permetterle di capirsi meglio, non solo come attrice: «Nel corso delle due stagioni, Sofia è cresciuta con me: entrambe siamo diventate più consapevoli, trovando anche il coraggio di guardarci dentro, di capire cosa vogliamo davvero nella vita e di fare di tutto per ottenerlo. Nella seconda stagione, uscita su Netflix a giugno, mi sono sentita ancor più vicina a lei. Proprio come Sofia, ho fatto i conti che le mie paure e i miei dubbi, imparando ad affrontarli a testa alta».

Sofia è stato anche il tuo primo personaggio. Come ti sei trovata a esordire su Netflix?

È difficile spiegarlo: io non mi sono resa conto di essere sul set di una serie Netflix. Ho iniziato per caso, non era nei miei programmi fare l’attrice: ho fatto il liceo artistico, poi la truccatrice e la modella, fino a quando ho avuto l’occasione di entrare in Accademia e ho deciso di accettare la sfida. Quando sono stata presa per Summertime non avevo esperienza alle spalle, quindi non ho sentito che quel set fosse diverso da altri. La presa di coscienza l’ho avuta solo dopo, quando la serie è uscita, e vendendomi ho pensato: sono davvero su Netflix!

Netflix o meno, quello è stato il tuo primo set. Come lo hai vissuto?

La prima volta che ho messo piede sul set non avevo scene da interpretare: ero andata solo per farmi un’idea su ciò che avrei dovuto affrontare. Non ti nego che all’inizio ero piuttosto inquieta. Ho cominciato a pensare che quando sarebbe toccato a me l’ansia mi avrebbe mangiata viva e che non sarei stata capace di proferire parola. Quando sono tornata per le mie scene, invece, mi sono resa conto che le mie paure erano infondate: mi sono sentita molto a mio agio davanti alla macchina da presa, grazie alla sintonia che si era creata con il regista e la produzione. Anche gli altri membri del cast sono stati fantastici: ci trovavamo tutti catapultati in una realtà bellissima, ma per molti di noi totalmente nuova.

C’è un particolare evento che ricordi con piacere?

Ci sono tanti aneddoti che porto del cuore, sia del set della prima stagione, sia della seconda, quando ormai i rapporti tra me e gli altri membri del cast si erano fatti più stretti. È difficile scegliere un singolo ricordo, ma forse ti direi la scena dell’abbraccio tra me e Andrea Lattanzi nel corso delle ultime puntate della prima stagione. È stato un momento molto reale, un abbraccio vero e sincero, perché con il tempo io e lui siamo diventati quasi fratello e sorella. In quell’abbraccio non c’erano solo Sofia e Dario, ma anche Amanda e Andrea.

Dopo Summertime è arrivato il successo. Come lo hai vissuto?

Molto serenamente. La mia vita non è realmente cambiata: faccio sempre le stesse cose, vedo i miei amici e passo il tempo con la mia famiglia. Ho qualche follower in più su Instagram, cosa che mi rende molto felice, perché amo le persone e adoro confrontarmi con gli altri. In particolare, la cosa che mi fa molto piacere è che, se prima di fare l’attrice ero seguita principalmente da ragazzi invece che da ragazze, ora è il contrario: mi considero una femminista e credo sia bellissimo vedere ragazze che supportano altre ragazze.

Accanto alla serialità, hai esordito anche nel cinema.

Sì, poche settimane fa è uscito Bastardi a mano armata, che ha rappresentato per me una grande esperienza, perché mi ha permesso di lavorare con grandissimi attori del cinema italiano. Prima delle riprese ero terrorizzata, avevo paura di sentirmi fuori luogo, perché ero la piccola del set: ero la più piccola di età, la più piccola di aspetto, ma anche quella con la carriera più breve alle spalle. Mi sentivo minuscola! Però, quando ho iniziato a girare, mi sono resa conto di essere circondata da persone meravigliose a cui non interessava il fatto che fossi poco più che esordiente. Mi sono sentita subito parte di qualcosa di magnifico.

Bastardi a mano armata ti ha portato anche a confrontarti con un personaggio molto diverso da quello a cui ci ha abituato in Summertime.

Certo, da un punto di vista recitativo è stata una sfida: se Sofia è l’estate e il sole, Fiore è più cupa e particolare. Non è stata una figura facile da creare, ma sono contenta di averla potuta interpretare, perché mi ha permesso di mettermi in gioco. Avevo voglia di fare qualcosa di diversissimo dal passato, anche per provare a me stessa di essere capace di uscire dai miei confini. E nel momento in cui ho accettato questa sfida, la mia competitività ha avuto la meglio, e ho dato il massimo!

E nel futuro cosa si prospetta?

Uscirà un film di cui non posso dire nulla, che ho girato in realtà ancora prima di Bastardi a mano armata. Oltre a questo, ho concluso qualche mese fa le riprese de Il mostro della cripta, un horror ambientato a Bobbio negli anni Ottanta… Mi sono divertita come una matta a girarlo! È stato un set fantastico, anche se molto complicato a causa della pandemia. Dovevamo girarlo tutto in inverno, ma per colpa del lockdown ci siamo dovuti interrompere, ricominciando poi in primavera inoltrata, bloccandoci nuovamente in estate e ricominciando ancora in autunno. Aggiungici poi che le riprese per un periodo coincidevano con Summertime: alternavo i costumi da bagno con i giubbotti invernali. Non è stato facile, soprattutto quando giravo entrambe le cose contemporaneamente, ma mi ha reso molto felice: andavo a dormire esausta, ma con il sorriso.

Cosa consigli a chi vuole intraprendere questa carriera?

Non è facile rispondere. Se io tornassi indietro non saprei che consiglio dare nemmeno a me stessa! Credo che un aspirante attore o attrice debba semplicemente fare quello che si sente, avere pazienza e non demordere. Poi, non bisogna dimenticare l’importanza di essere professionali: si parla tanto di talento e creatività, che sono cose ovviamente fondamentali, però a volte si perde di vista la professionalità. Per quanto sia un lavoro bellissimo e particolare, recitare è comunque un lavoro: sul set, bisogna sì ridere e scherzare, ma è fondamentale anche avere rispetto di tutto e di tutti.

E sognando, cosa vorresti fare?

Io amo mettermi alla prova, quindi vorrei provare a confrontarmi con figure totalmente distanti da me: con i personaggi che ho interpretato in passato ho sempre avuto qualcosa in comune. Vorrei interpretare un cattivo, un antagonista! Poi, ti dirò la verità, durante la quarantena mi sono sparata una maratona di cinecomics e ho pensato a quanto sarebbe bello interpretare una supereroina Marvel. So che è un mondo distante da me, e io sono una persona con i piedi per terra, ma nella vita mai dire mai, non credi?

fotografa ROBERTA KRASNIG
assistenti fotografa LAURA AURIZZI ELISA MALLAMACI
stylist STEFANIA SCIORTINO
sandali CASADEI
occhiali da sole SAFILO
collant EMILIO CAVALLINI
capelli ADRIANO COCCIARELLI @ HARUMI / GIADA UDOVISI @ HARUMI
prodotti per capelli BODY E SUN SCHWARZKOPF PROFESSIONAL
trucco ILARIA DI LAURO @ IDLMAKEUP
location NUOVO CINEMA AQUILA

Warner Bros. Italia, Pier Paolo Luciani executive director ci racconta tutte le novità

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Pier Paolo Luciani, Executive Director Local Productions, ci racconta cosa si prospetta nel futuro di Warner Bros. Italia tra potenzialità commerciali, sale cinematografiche e HBO Max.

È tra le case di produzione e di distribuzione più famose al mondo, grazie ai suoi film e alle sue serie di successo. La Warner Bros., però, ricopre un ruolo fondamentale anche all’interno dell’industria cinematografica più specificatamente italiana, per merito di prodotti sempre attenti al mercato nazionale e, di conseguenza, al pubblico che ne fa parte. E mentre grandi novità sembrano prospettarsi all’orizzonte – HBO Max vi dice qualcosa? –, Fabrique ha avuto il piacere di intervistare Pier Paolo Luciani, Executive Director Local Productions di Warner Bros. Italia, e di scoprire qualche segreto del mondo Warner. 

Il vostro catalogo cinematografico ha sempre avuto un occhio di riguardo per le produzioni italiane: da film d’autore come La dea fortuna di Ferzan Ozpetek a opere giovani con I peggiori di Vincenzo Alfieri, a scommesse (vinte) come Me contro te a hits del box office come Poveri ma ricchi. Quali caratteristiche distintive deve avere un film prodotto da Warner?

La Warner Bros. Italia ha una lunga tradizione alle spalle: negli ultimi 20 anni abbiamo prodotto circa 70 film italiani, per un totale di oltre 200 milioni di euro di box office. Nel momento in cui cerchiamo o sviluppiamo un lungometraggio, facciamo attenzione che sia un prodotto o un’idea con un potenziale commerciale e che possa incontrare il gradimento del pubblico. Tendiamo a non focalizzarci su un singolo genere o tema, ma a lavorare su un ventaglio di produzioni eterogenee con diversi target di riferimento. Grazie a un lavoro di profilazione degli utenti e di data maintenance, vagliamo sia progetti pensati a priori per il cinema, sia operazioni più particolari che crediamo possano diventare theatrical.

Accanto alla produzione cinematografica, la serialità gioca un ruolo sempre più importante nel mercato audiovisivo. Quali sono invece le politiche di Warner Italia? La serialità entrerà a far regolarmente parte delle vostre logiche produttive?

Noi stiamo lavorando a dei progetti che possono avere un potenziale di serialità anche in vista delle novità che si prospettano nel nostro futuro. WarnerMedia ha lanciato negli Stati Uniti una nuova piattaforma over-the-top, HBO Max, che sbarcherà anche in Europa. Al momento non abbiamo una data certa, ma crediamo sia importante lavorare su idee che possano, in prospettiva, servire questa nuova realtà. Tra Warner e HBO Max ci sarà osmosi, è importante essere pronti.

Warner film La scuola cattolica
“La scuola cattolica”, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati.

Con l’avvento del Covid, l’assetto distributivo delle pellicole è stato totalmente sconvolto. Quanto la pandemia ha intaccato il vostro lavoro? Come credete che l’industria possa affrontare al meglio questa pandemia e le sue conseguenze?

La pandemia ha portato uno stravolgimento delle abitudini dello spettatore: con la chiusura delle sale cinematografiche, ci siamo tutti abituati a una fruizione domestica del film. Personalmente credo però nella centralità e nell’importanza della sala cinematografica che ha sempre dimostrato di essere un perno della nostra socialità; nonostante abbia infatti subito negli anni attacchi da nuovi supporti, nuove modalità di fruizione e da nuovi media, l’esperienza della sala è sempre rimasta vitale, spesso uscendone addirittura rafforzata. Pensare che il mercato post-Covid sarà uguale a quello che conoscevamo prima della pandemia non è certo plausibile ma questo non esclude che i diversi consumi di prodotto potranno e dovranno coesistere in modo integrato: la sala avrà sempre un ruolo di prim’ordine ma dovrà imparare a convivere con altre forme di sfruttamento. Questa sarà la vera sfida che anche noi produttori e distributori dovremo affrontare: dovremo essere capaci di intercettare i nuovi gusti degli spettatori e di invogliarli ad andare in sala, con storie diverse e sempre di alta qualità. Dovremo ragionare e valutare sempre più sulla base delle potenzialità theatrical di un prodotto.

E proprio parlando di futuro: cosa prevede nel suo futuro Warner Bros. Italia?

Al momento stiamo sviluppando e producendo molto. Dal 21 aprile sarà disponibile in digitale Non mi uccidere di Andrea De Sica, che unisce elementi da horror gotico con una linea più romance e teen. Tra i progetti già girati, ti posso citare La scuola cattolica, tratto dal romanzo di Albinati vincitore del premio Strega. È un film a cui teniamo molto, diretto da Stefano Mordini, che vanta nel cast grandissimi attori come Valeria Golino, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca, ma anche giovani leve come Benedetta Porcaroli e Giulio Pranno. Abbiamo poi pronto il secondo capitolo dei Me contro te: il primo film ha incassato quasi 10 milioni di euro. C’è poi Sulle Nuvole, storia d’amore a suon di musica, firmata da Tommaso Paradiso. In partenza, abbiamo invece il remake della commedia francese Tanguy e il nuovo film di Emanuele Crialese con Penelope Cruz, ma è ancora presto per parlarne…

WandaVision guida le novità 2021 Disney+: ne parliamo con Alessandro Saba, Director Original Production

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La serie Marvel WandaVision è l’ultima arrivata della corazzata Disney+, sbarcata in Italia da meno di un anno con la potenza di un catalogo difficilmente eguagliabile e grandi ambizioni per il futuro. Alessandro Saba, Director Original Production di Disney+, anticipa a Fabrique scenari interessanti anche per gli autori e i produttori italiani.

Disney+ ha in programma di produrre sistematicamente serie e film anche in Italia, coinvolgendo magari i nuovi talenti del panorama audiovisivo italiano?

La risposta è sì: stiamo parlando con tutti i produttori per cercare i migliori contenuti originali italiani. In questi mesi abbiamo valutato e studiato decine di progetti e siamo entrati nella fase di sviluppo su alcuni di questi. Stiamo cercando storie cariche di ottimismo, che possano interpretare al meglio i valori Disney di comunità e di inclusione. Abbiamo l’obiettivo di creare contenuti ad alto standard qualitativo, lavorando con i migliori talenti creativi italiani, sia per quanto riguarda la scrittura che la regia. Ci stiamo focalizzando sullo sviluppo di contenuti seriali che possano evolversi in più stagioni, che abbiano una grande rilevanza locale per il pubblico italiano e che contemporaneamente parlino di tematiche universali per cui possano essere apprezzati anche all’estero. Per questo siamo molto accurati nella scelta dei contenuti e dei professionisti, con uno sguardo attento ai talenti emergenti e a nuove realtà produttive e creative.

Non a caso, avete annunciato la prima serie originale Disney+ italiana: I Cavalieri di Castelcorvo. Cosa potete dirci a riguardo?

I Cavalieri di Castelcorvo è il primo prodotto locale a target kids, 6-12 anni, che rilasceremo sulla piattaforma. È una produzione realizzata insieme a Stand By Me, che nasce sulla solida eredità delle produzioni italiane dei Disney Channels. Negli ultimi venti anni, in Italia i Disney Channels hanno prodotto molte serie live action diventate cult come Violetta (co-prodotta con LatAm), Alex&Co., Quelli dell’intervallo, fino ai recenti successi di Sara e Marti #Lanostrastoria e Penny on M.A.R.S., tutti a target kids/young adult. Con I Cavalieri di Castelcorvo siamo andati per la prima volta nel territorio del genere mistery per bambini. In futuro per Disney+ ci focalizzeremo su contenuti a target più ampio.

L’animazione è sempre stato un genere chiave del mondo Disney. Pensate di portare avanti produzioni originali italiane anche in versione animata, o preferite focalizzarvi su live action come fatto su Disney Channel o da piattaforme concorrenti? 

In questa prima fase di sviluppo e produzione di contenuti ci stiamo focalizzando su serie scripted returnable. Ci sono stati presentati anche dei progetti di animazione, ma per ora non lo riteniamo un elemento cruciale per la produzione locale. All’interno dell’offerta di Disney+ c’è già un gran numero di titoli di animazione: dai classici film Disney, alle straordinarie produzioni cinematografiche Pixar, da tutte le serie animate di Topolino, fino alle stagioni dei Simpson. Questo non esclude che in futuro, in una fase matura della piattaforma, non si possa considerare di produrre un contenuto di animation Disney “made in Italy”.

I Cavalieri di Castelcorvo serie Disney+
I Cavalieri di Castelcorvo, prima serie italiana originale di Disney+.

Disney si è sempre contraddistinta per creare prodotti pensati per un target giovane e family-oriented. La linea editoriale di Disney+ rispecchierà questa idea?

La linea editoriale di Disney+ è orientata a produrre contenuti co-viewing per tutta la famiglia. Stiamo cercando storie che possano appassionare contemporaneamente bambini, ragazzi e adulti. Come amiamo dire con i nostri colleghi di Los Angeles: contenuti che l’intera famiglia possa vedere insieme, senza che i genitori debbano mai mettere la mano davanti agli occhi dei propri figli. Questo significa che ci possono essere tematiche più forti e complesse che i genitori devono spiegare ai figli piccoli, ma sempre senza creare disturbo. Allo stesso tempo sono necessari elementi interessanti per i genitori che devono potersi godere il contenuto; in ogni storia è fondamentale che ci sia un entry point sia per i più piccoli, che per il pubblico più adulto. Faccio un esempio personale, che spero possa rendere bene l’idea: nel 1982 ero bambino e ho visto E.T. al cinema tre volte di seguito; in questi anni, da genitore, ho rivisto il film insieme a mio figlio altrettante volte e sempre con piacere. I nostri sviluppi si stanno concentrando su alcuni generi principali: il mistery, l’adventure e il fantasy. Per il mercato italiano è una bella sfida cimentarsi su questi generi tradizionalmente poco realizzati a livello locale. Un’altra traiettoria editoriale che stiamo perlustrando per Disney+ è la commedia familiare di alta qualità. In Italia è stato fatto un lavoro eccellente negli ultimi anni nell’ambito della commedia cinematografica; i produttori hanno realizzato film comedy familiari molto solidi e ben scritti e ci sono grandi talenti tra gli attori italiani di questo genere.

L’inclusione di diverse culture e minoranze è centrale nelle produzioni seriali contemporanee. Anche Disney+ America, con High School Musical: The Musical: La Serie, ha introdotto il primo personaggio ricorrente dichiaratamente omosessuale di una serie Disney. L’inclusione sarà un elemento centrale anche delle vostre politiche editoriali?

L’inclusione è già oggi un elemento centrale nelle nostre scelte editoriali. Solo per fare un esempio, nell’ultima stagione di Penny on M.A.R.S., sono presenti personaggi di origini diverse, espressione della multiculturalità che caratterizza la nostra società e che Disney valorizza e promuove. Il lavoro che stiamo facendo con il nostro team per affrontare concretamente le tematiche della diversity e dell’inclusione si sviluppa in due direzioni: la prima è raccontare storie e personaggi contemporanei, aperti, che diano voce a tutte le espressioni sociali senza preclusioni; in secondo luogo pensiamo che per fare questo sia necessario costruire gruppi creativi e produttivi che al loro interno possiedano un alto tasso di eterogeneità e siano  dunque composti da membri capaci di esprimere voci alternative e complementari. Storie attente alla diversità hanno maggiori probabilità di essere rappresentative del contesto sociale reale quando la stessa comunità creativa e i team di produzione sono composti da elementi polifonici. Stiamo lavorando anche per fare in modo che le nuove produzioni includano iniziative di formazione, con particolare attenzione ad attrarre talenti e troupe di professionisti giovani, con un bilanciamento di genere e di diversa provenienza geografica e socio-economica, per migliorare l’accesso e ampliare la diversità in tutta l’industry dell’audiovisivo.

 

 

 

Alessandra Mastronardi. Express Yourself

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È tra le attrici più amate del grande e del piccolo schermo: in poco più di un decennio, Alessandra Mastronardi ha fatto breccia nel cuore degli italiani e non solo.

Dalla giovane Eva de I Cesaroni fino alla dolce Alice de L’allieva, passando per serie come Romanzo criminale o I Medici e per numerose produzioni internazionali (Woody Allen vi dice qualcosa?), Alessandra Mastronardi ha condotto con successo una carriera divisa tra l’Italia e l’estero, tra la televisione e il cinema, alla costante ricerca di nuovi modi per esprimere se stessa. E, in occasione del suo ruolo di madrina e giurata dei Fabrique du Cinéma Awards 2020, non può che ricordare ciò che l’ha portata a essere quella che è oggi: «È iniziato tutto per gioco: da ragazza per me la recitazione non era niente di più che un passatempo. Mentre le mie amiche andavano a danza, io facevo provini per spot televisivi o piccoli ruoli. Solo a diciannove anni, quando sono stata scritturata per I Cesaroni, ho capito che recitare sarebbe potuto diventare un mestiere a tempo pieno. Non a caso, di quel set porto ancora nel cuore le parole del produttore Carlo Bixio, che mi disse che se fossi riuscita a fare della mia passione un lavoro, sarebbe stata una grande fortuna per me. E oggi non posso che dargli ragione».

Hai iniziato con la televisione, a cui ancora oggi fai regolarmente ritorno. Cosa rappresenta per te il piccolo schermo?

Io sono nata in televisione, quindi tornare sul piccolo schermo è come tornare a casa. Quando ho iniziato c’era un po’ di snobismo verso gli attori di fiction, e fare il salto verso il cinema non era facile, ma la televisione ha sempre rappresentato per me un mezzo unico per poter entrare in contatto con le persone. Se con il grande schermo sono gli spettatori ad andare in sala con l’intento di vedere il film, con la fiction televisiva devi essere tu a entrare nelle loro case, ad adattarti ai ritmi di chi guarda e a catturare l’interesse del pubblico. Infatti, non amo i progetti eccessivamente adrenalinici o, per così dire, rumorosi: la televisione è come andare a cena a casa di un estraneo, e proprio per questo devi presentarti con eleganza, in punta di piedi.

E poi è arrivato anche il cinema.

Il cinema per un’attrice è un regalo, per un semplice motivo: il tempo. Quando sei la protagonista di una fiction, in una giornata puoi arrivare a girare anche otto o nove scene e, per quanto tu possa impegnarti al massimo per rendere al meglio, il tempo è limitato e non hai possibilità di esplorare il personaggio quanto vorresti. Con i film, invece, generalmente non vai oltre le tre scene al giorno, se non di meno, e puoi prepararti al meglio, dando libero sfogo alla tua gioia creativa, sperimentando e cercando di andare oltre i tuoi limiti.

Cinema e televisione ti hanno portata anche fuori dall’Italia. Oltre al film di Woody Allen (To Rome with Love), hai preso parte a film come Life o a serie come Master of None, solo per citarne un paio.

Nella mia carriera ho sempre cercato nuove sfide e nuove possibilità, non mi sono mai accontentata. Io credo che un attore possa lavorare ovunque e trasmettere emozioni indipendentemente dalla nazionalità e dalla lingua che parla, e questo emerge proprio quando ci si mette in gioco fuori dall’Italia. Per ogni attore, l’esperienza all’estero è diversa: io posso dire che ci sto ancora provando. È dura perché sei una goccia in un oceano, ma non bisogna arrendersi.

Tanti set e tante esperienze, quindi. C’è un progetto che più di altri porti nel cuore?

Tanti, tantissimi! Potrei veramente raccontare molti momenti importanti della mia carriera. In particolare, però, ricordo con piacere Atelier Fontana di Riccardo Milani, perché è stata la prima volta che ho interpretato un personaggio realmente esistito, che non si creava solo nella mia testa. È stata una grande responsabilità, ma mi ha dato anche grandissime soddisfazioni. Anche Master of None è stato un progetto che mi ha regalato moltissimo: ho avuto la possibilità di cimentarmi non solo come attrice, ma anche come scrittrice, creando in prima persona il personaggio di Francesca.

Hai molti fan che ti seguono e ti apprezzano. Come vivi il rapporto con loro?

Non ti nego che la notorietà all’inizio è stata traumatica: ero giovanissima e il successo de I Cesaroni è stato travolgente. Uscivo di casa e la gente mi chiamava Eva! Non ero pronta psicologicamente a perdere l’anonimato e la privacy, infatti in un primo momento mi sono chiusa in una sorta di conchiglia di protezione. Con il tempo, però, sono cresciuta e ho capito che l’amore dei fan è una cosa meravigliosa, che va sempre rispettata. Ancora oggi qualcuno mi chiama Eva, ma non posso che esserne felice: è bello sapere che un personaggio che hai interpretato è entrato così tanto nel cuore della gente.

Sei giurata e madrina dei Fabrique du Cinéma Awards. Che cosa credi serva a un ragazzo o a una ragazza giovane per imporsi nel mondo del cinema oggi?

A parte il coraggio, dici? Assolutamente la caparbietà, quella è fondamentale. Le risposte negative, le porte in faccia e i rifiuti sono all’ordine del giorno quando intraprendi una carriera nel mondo dello spettacolo. Credo però che un giovane autore oggi abbia bisogno anche di un’altra cosa: una buona storia. Abbiamo validi esempi di persone che hanno fatto film di grandissima qualità con pochi fondi, e questo perché hanno qualcosa da raccontare. Non è più necessario tentare di convincere i grandi produttori, magari snaturando l’idea iniziale: oggi, più che in passato, ci sono tanti modi per farsi conoscere, tante piattaforme per mostrare al mondo il proprio talento e anche molti festival e riviste, tra cui proprio Fabrique du Cinéma.

Nel tuo futuro, cosa si prospetta?

Al momento sono sul set di The Unbearable Weight of Massive Talent, produzione internazionale diretta da Tom Gormican e interpretata da attori di primissimo livello come Nicholas Cage, Tiffany Haddish, Sharon Hogan e Pedro Pascal. Come attrice, poi ho ancora tanti sogni da realizzare: mi piacerebbe interpretare personaggi più ambigui, ragazze di cui non ti puoi sempre fidare. Inoltre, voglio dare libero sfogo alla mia creatività: dopo l’esperienza di Master of None vorrei fare ancora un salto dall’altro lato della macchina da presa. Non come regista, ma come sceneggiatrice o produttrice, così da permettere ai nuovi talenti di dar voce alle loro idee e alle loro storie.

fotografa ROBERTA KRASNIG
abiti FENDI
in collaborazione con OTHER

Gianmarco Saurino, da zero a cento

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È uno dei volti giovani più amati delle fiction Rai: dal casanova dal cuore d’oro Nico di Che Dio ci aiuti al medico combattivo ma fragile di Doc. Nelle tue mani, Gianmarco Saurino si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica, dando inizio a una carriera sempre più in ascesa. E mentre l’anno prossimo lo vedremo cimentarsi anche con il cinema, nel ruolo di un giovane ragazzo omossessuale all’apparenza sicuro di sé, l’amore per la recitazione continua a crescere fin dai tempi della scuola: «Non credo che ci sia stato un momento preciso in cui ho deciso che la recitazione fosse la mia strada. Sicuramente, però, è stato verso la fine della scuola superiore: a quell’età ci si interroga su cosa si vuole fare nella vita. Io avevo frequentato dei laboratori di teatro e avevo lavorato come animatore in un villaggio turistico, e mi ero reso conto che stare sul palco mi piaceva, che mi faceva sentire bene. Allora ho deciso di buttarmi nell’arena!».

E ti sei trasferito a Roma…

Quando ho deciso di tentare questa carriera, non avevo idea del percorso da intraprendere. Vengo da un paese di provincia, quindi non avevo chiaro come dovessi muovermi per fare concretamente l’attore. Ho pensato fin da subito che la formazione fosse fondamentale, cosa in cui credo anche oggi, e ho provato a entrare al Centro Sperimentale, riuscendoci. Da lì, la strada è stata tutta in salita, ma poco alla volta mi sono sempre più convinto di aver seguito la direzione giusta.

Hai iniziato partecipando a diverse fiction Rai come Che Dio ci aiuti e Non dirlo al mio capo. Come è stato passare dalla scuola al set?

Da zero a cento in sessanta secondi! All’inizio non ti nego che è stato straniante. L’approccio che ti da la scuola è essenzialmente teorico, “di mestiere”: ti insegnano i metodi americani, che spesso ritrovi concretamente a teatro. I set televisivi sono invece un mondo totalmente a parte: ti senti immerso in un meccanismo più grande, dove tutto è più pragmatico e in certi sensi artigianale. Una volta superato l’impatto iniziale, ho però imparato a capire cosa di ciò che avevo imparato fosse importante, e mi sono trovato a mio agio. Poi, iniziare con ruoli grandi e periodi di riprese molto lunghi mi ha insegnato la disciplina. La lunga serialità è molto formativa per un giovane attore… Permette di farsi il fisico!

Ora sei sul piccolo schermo con Doc. Nelle tue mani, fiction Rai di enorme successo. Come è stato interpretare Lorenzo?

Lorenzo è il personaggio più difficile che io abbia mai interpretato. È un ragazzo fragile, con una marea di cicatrici nascoste, che soprattutto in questi nuovi episodi stanno emergendo. Io amo dare vita a personaggi difficili, a cui a un certo punto manca la terra sotto i piedi, perché ciò li rende più umani e sfaccettati. Inoltre, quando ho iniziato a lavorare su Lorenzo, mi sono dovuto confrontare anche con una professione complessa come quella del medico. Ho avuto la fortuna di seguire come un’ombra alcuni dottori, respirare in prima persona l’aria dell’ospedale, capire che ciò che per noi è straordinario per i medici è la normalità. Questo mi è stato molto utile.

Stai per esordire anche in un lungometraggio: Maschile singolare, opera prima di Matteo Pilati e Alessandro Guida.

Maschile singolare è un film che parla di amore: pur avendo protagonisti LGBTQ+, credo sia un racconto universale, in cui non è davvero importante l’orientamento sessuale dei personaggi, ma l’amore che si vuole mettere in scena. Io interpreto Luca, un giovane omosessuale dal carattere forte. Sulla carta, Luca doveva essere un ragazzo solido e risolto, tanto nella vita privata, quanto in quella professionale. Discutendo con i registi, ho cercato però di aggiungerci qualcosa di mio: ho voluto mostrare anche la sua fragilità e la sua umanità, che credo l’abbiano reso più vero. Come con Lorenzo in Doc, mi sono divertito a far emergere le sue ferite e le sue insicurezze.

Gianmarco Saurino in Maschile Singolare
Gianmarco Saurino in “Maschile Singolare”

Dopo questi successi, come è cambiata la tua vita quotidiana?

Mi ritengo una persona molto fortunata: sto facendo non solo un mestiere che amo, ma un lavoro veramente fuori dall’ordinario. Quando qualcuno mi riconosce per strada o al supermercato, non posso che esserne felice, ma soprattutto ne sono grato, perché se sono dove sono è anche grazie a chi segue le cose che faccio. In questo senso, amo molto fare teatro, perché rispetto al cinema e alla televisione ti permette di avere un rapporto più diretto con il pubblico: infatti, lo dico sempre, sono un teatrante prestato volentieri alla televisione.

Cosa consiglieresti a un ragazzo che vuole seguire le tue orme?

Ho tenuto diversi laboratori di teatro con ragazzi giovani, e molto spesso mi è stata posta questa domanda. Mio padre, quando gli dissi che volevo intraprendere questa carriera, mi rispose di provare con tutte le mie forze, ma di avere la coscienza di sapere che se avessi dovuto fallire non sarebbe stata colpa mia. Credo che questa frase racchiuda la risposta a questa domanda: il mestiere dell’attore è difficile, bisogna impegnarsi al massimo, ma non è detto che poi ce la si faccia. Credo però che il primo passo sia la formazione, perché lo studio è fondamentale, ma poi serve fortuna, tenacia e, come si dice a Roma, la tigna!

E nel futuro, cosa ti si prospetta?

Nell’immediato, le ultime puntate di Doc, ora in onda. Poi, l’uscita di Maschile singolare, prevista per il 2021. Al momento sto girando la sesta stagione di Che Dio ci aiuti, mentre il Covid ha messo in stand-by altri progetti. Il prossimo anno vorrei prendermi un periodo per fare un po’ di teatro e andare a studiare all’estero, magari a Londra. Credo che ogni tanto sia giusto prendersi una pausa dal set.

Che personaggio vorresti interpretare, se te ne venisse offerta la possibilità?

Come avrai capito, mi piacciono i ruoli drammatici. Poi, sarà banale, ma mi piacerebbe interpretare un cattivo, che è una figura fragile per eccellenza. Oppure, anche l’esatto contrario: non mi ci vedresti come protagonista di una commedia romantica?

The Ladies Diary: come un doc indipendente approda su Amazon

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Sei donne provenienti dal Myanmar. Sei mestieri molto diversi tra loro. E sei storie di vita uniche nel proprio genere.

“The Ladies Diary”: un progetto nato da un’idea originale

Così potrebbe essere riassunto The Ladies Diary, nuovo documentario italiano prodotto dalla casa di produzione indipendente bresciana Walking Cat Productions e distribuito in esclusiva su Amazon Prime. E, proprio in occasione dell’uscita del film sulla nota piattaforma, Fabrique ha avuto il piacere di intervistare Sara Trevisan e Luca Vassalini, rispettivamente la regista e l’autore del progetto.

Un’idea non scontata la vostra.

Luca: È una storia più lunga di quanto sembri! Con gran parte dei collaboratori, ci conosciamo fin dal liceo o dall’università e, nonostante la vita ci abbia portato in certi momenti su strade diverse, abbiamo sempre avuto una passione in comune: il cinema. Nella speranza di poter creare qualcosa di nuovo e stimolante, l’anno scorso abbiamo fondato una casa di produzione, la Walking Cat Productions, con una linea editoriale ben precisa: raccontare realtà all’apparenza diverse dalla nostra. Proprio per questo motivo, dopo varie ricerche, ci siamo interessati al Myanmar, che ci ha offerto tanti spunti. Naturalmente, non volevamo restituire l’immagine da cartolina che spesso viene rappresentata sul piccolo e grande schermo, ma desideravamo raccontare il paese reale e i suoi abitanti.

E avete deciso di raccontare la storia di diverse donne…

Sara: Esatto! In realtà, l’idea di mostrare il mondo femminile c’era fin dall’inizio. Il caso del Myanmar è infatti molto interessante in questo senso: ad uno sguardo esterno, si ha un’immagine idealizzata della nazione, così come delle figure femminili che la popolano. Ma noi volevamo mostrare come fosse lo status della donna nel suo quotidiano, raccontando di figure comuni molto diverse tra loro. Era importante per noi far capire che, oltre a esponenti politiche come Aung San Suu Kyi, c’erano e ci sono tante voci di donna che è ugualmente importante ascoltare.

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Una delle protagoniste di “The Ladies Diary”

Come avete scelto le protagoniste di The Ladies Diary?

Sara: Volevamo sei donne, e quindi sei personalità, diverse le une dalle altre. Ci interessava molto il lato spirituale, perché nel Myanmar la componente buddhista è predominante. Per questo, abbiamo fin da subito cercato una monaca e ci siamo imbattuti in Ketu Mala, una ragazza molto giovane ma che si è prodigata in prima persona per la comunità. La figura della donna è poco considerata nel buddhismo, e le monache sono spesso viste quasi come un peso, ma Ketu Mala è la prova del contrario.

Luca: Le altre protagoniste le abbiamo poi scoperte un po’ alla volta: il nostro obbiettivo era raccontare storie di donne che portavano avanti battaglie, e che ci permettessero di restituire l’immagine di un paese scisso tra modernità e tradizione. Abbiamo deciso raccontare la vita di una giornalista, che è anche madre, e deve gestire un lavoro imprevedibile e la famiglia. Oppure, di una lottatrice di arti marziali, che combatte – letteralmente! – contro gli stereotipi che vogliono la lotta come uno sport maschile. O ancora, di una cantante rock, che gestisce una propria scuola di musica, nonostante la giovane età.

E una volta finito, siete arrivati ad Amazon.

Luca: La post-produzione è stata rapidissima, grazie paradossalmente al lockdown. Abbiamo montato da remoto e rifinito poi in laboratorio, una volta che le misure si sono allentante. E poi, sì, è arrivato Amazon… Non ce lo aspettavamo! Semplicemente, abbiamo avuto modo di mostrare loro il film, ed è piaciuto.

Cosa si prospetta nel vostro futuro?

Sara: Continueremo ad esplorare il genere del documentario, che sentiamo particolarmente vicino a noi, perché permette di raccontare la società e il mondo di oggi. Ci sono progetti sul tavolo, nonostante l’incertezza Covid, ma continuiamo le nostre ricerche di mondi lontani. Tuttavia, più cerchiamo, più troviamo punti di contatto con la nostra cultura… Comunque, chi lo sa, magari in futuro racconteremo qualcosa di più geograficamente vicino!

 

Il legame, quando il folklore diventa horror

Il cinema italiano ha alle proprie spalle una lunga tradizione horror che oggi appare però piuttosto appannata. Dopo un grande successo ottenuto tra gli anni Sessanta e Settanta, grazie soprattutto a registi del calibro di Mario Bava e Riccardo Freda, in tempi recenti sono pochi i giovani autori che si cimentano con i racconti del brivido. Se lo scorso anno Roberto De Feo ha convinto critica e pubblico grazie a The Nest, pellicola che ha anche conquistato una nomination ai Fabrique Awards 2019, quest’anno un’altra opera prima a tinte horror è riuscita ad attirare l’attenzione degli spettatori: si tratta de Il legame, esordio targato Netflix di Domenico Emanuele de Feudis.

Ambientato in un piccolo angolo di mondo disperso nella campagna pugliese, questo nuovo lungometraggio prodotto da HT Film e Indigo segue le vicende di Emma (Mia Maestro), una giovane donna che decide di trascorrere qualche giorno di vacanza insieme al futuro marito Francesco (Riccardo Scamarcio) e a Sofia (Giulia Patrignani), la figlioletta avuta da una precedente relazione. I tre si recano nella villa diroccata della madre di Francesco, ed Emma scopre suo malgrado che quel luogo antico cela misteriosi segreti, poggiati su oscure tradizioni e strani rituali magici. Nulla però è come sembra, e la realtà è più terrificante di quanto sembra. O, almeno, vorrebbe esserlo.

Il legame, Domenico De Feudis
Domenico De Feudis sul set de “Il legame”

Seppur lodevole nelle intenzioni di raccontare una storia horror dai connotati interamente italiani, l’opera prima di De Feudis non riesce totalmente a convincere, apparendo vincente nella sua prima parte, ma virando verso soluzioni meno riuscite nella seconda. Se in apertura infatti il regista costruisce una storia particolare, sorretta da una buona scrittura che si muove con destrezza nel folklore del meridione italiano, la conclusione sferza repentinamente verso un immaginario differente e più prevedibile, rileggendo l’intera storia come l’ennesima variazione sul tema della possessione demoniaca, già ampiamente sfruttata tanto in America quanto nella vicina Spagna.

Ciononostante, la regia di De Feudis appare comunque conscia dei suoi predecessori e, pur non distanziandosi da essi, rispetta le regole del genere e riesce comunque a mantenersi in linea con i suoi modelli. Gli vengono in aiuto una buona colonna sonora e un’ottima fotografia, oltre che un parterre di personaggi secondari ben interpretati.

Il legame è quindi un film che, anche alla luce delle premesse che propone, avrebbe potuto (e dovuto) rischiare di più, non rifacendosi solo ai modelli internazionali, ma trovando un proprio elemento distintivo, solo inizialmente accennato. A ogni modo, Domenico Emanuele de Feudis ha il merito di aver esplorato un genere da tempo assopito nell’industria italiana, che oggi, proprio come ieri, ha ancora qualcosa da raccontare.

Coco Rebecca Edogamhe. Endless Summer

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È una delle attrici di punta di Netflix ma, a soli 19 anni, Coco Rebecca Edogamhe è anche un nuovo modello a cui ispirarsi per molte adolescenti. E non solo.

Volto fresco, capelli sbarazzini e tante idee chiare: Coco Rebecca Edogamhe è la giovane protagonista di Summertime (qui il trailer), serie Netflix che ha fatto impazzire i giovani di tutto il mondo, raccontando i primi batticuori, le delusioni e la vita quotidiana di un gruppo di adolescenti di Cesenatico, sul soleggiato lungomare dell’Emilia-Romagna. Il successo è stato immediato, tanto che la seconda stagione è nel pieno delle riprese, ma Coco mantiene saldamente i piedi per terra, pur essendo diventata in poco tempo un nuovo modello per molte adolescenti e non solo: «Io sono bolognese, mia madre è italiana e mio padre nigeriano: sono molto felice di essere riuscita a portare sullo schermo una realtà multiculturale che spesso non è rappresentata in Italia. Sono cresciuta non avendo una figura di riferimento in televisione o al cinema, non trovavo personaggi che avessero le mie caratteristiche estetiche o le mie origini. Spero che Summer aiuti i ragazzi e le ragazze di origine straniera a trovare qualcuno di più vicino a loro, in cui rivedersi e immedesimarsi».

foto ROBERTA KRASNIG
abiti GUCCI
in collaborazione con OTHER

Come hai iniziato?

Il mondo del cinema mi ha interessato fin da bambina e quando si è presentata l’occasione per un ruolo in Summertime ho deciso di non lasciarmela sfuggire. Avevano organizzato dei provini a Bologna e, anche su consiglio di una mia amica, ho deciso di provare. Dopo un paio di settimane mi hanno ricontattata e ho cominciato a fare diversi provini a Roma… All’inizio non lo dissi quasi a nessuno, soprattutto a scuola, perché non sapevo come sarebbero andate le cose. Poi, un giorno, mia madre mi ha detto che mi avevano scelta, addirittura come protagonista! Se ci ripenso, ancora oggi mi sembra incredibile.

Hai esordito nel ruolo di Summer, protagonista di Summertime: come hai preparato questo personaggio?

In realtà, io e Summer siamo molto simili. Il fatto di dover interpretare una persona non diversa da me da un lato mi ha aiutato, ma dall’altro non è stato sempre facile, perché mi ha costretto ad analizzare me stessa e soprattutto parti del mio carattere che non conoscevo pienamente. Certo, tra noi due ci sono anche delle differenze: al contrario di Summer, io amo l’estate, adoro andare alle feste e passo quasi tutto il mio tempo libero con gli amici. Anche il modo di rapportarsi con la sorella è diverso: io e Alicia, mia sorella sia sullo schermo che nella vita, siamo molto più unite e in sincronia rispetto a Summer e Blue.

Come è stato trovarsi la sorellina più piccola al lavoro?

Molto bello! Io e lei abbiamo un bellissimo rapporto e per me è stata un punto di riferimento in una realtà che era del tutto nuova. A fine giornata ci potevamo confrontare e capire dove migliorare: professionalmente e umanamente è stato molto utile. Comunque, lavorare con tutto il cast è stato fantastico: chi aveva già esperienza mi ha sostenuto moltissimo, aiutandomi a combattere le mie insicurezze. Soprattutto le due settimane di prove che hanno preceduto l’inizio delle riprese sono state fondamentali per me: ho avuto modo di conoscere i miei colleghi e ho capito che tutti condividevamo le stesse emozioni e le stesse paure.

Cosa hai provato a lavorare per la prima volta sul set?

Il primo giorno ero agitatissima, letteralmente nel panico! Non avevo idea di cosa aspettarmi: vedevo tutti che correvano, macchinari ovunque e non capivo bene come dovessi comportarmi. Dopo aver girato la prima scena, però, mi sono sentita soddisfatta e ho capito che dovevo solo lasciarmi andare… Ora non vorrei più smettere di recitare!

Come è cambiata la tua vita dopo questa serie?

Non mi sarei mai aspettata un successo simile! Summertime è arrivata su Netflix durante il lockdown, quindi in un primo momento non ho avuto modo di confrontarmi con l’esterno. Però, grazie ai social, mi sono resa conto che la serie è stata vista e apprezzata. Non ti nego che la mia vita un po’ sia cambiata, perché ho conquistato più notorietà rispetto a prima, ma la mia quotidianità è sempre la stessa: non mi sento diversa e non faccio cose diverse nel mio tempo libero.

Cosa consiglieresti a un aspirante attore che vuole seguire le tue orme?

Non smettere mai di credere nei propri sogni. Bisogna naturalmente mantenere i piedi per terra e non avere troppe aspettative, ma è necessario crederci davvero e provarci con dedizione. Un giovane attore deve tenersi informato su tutto ciò che lo circonda, deve fare provini e cogliere ogni opportunità gli capiti. È anche importantissimo sentirsi a proprio agio con se stessi: è una frase che spesso si dice ma è di vitale importanza, perché quando si sta bene, si trasmettono cose positive anche a chi ti guarda. La professione dell’attore non deve essere concepita come una strada impossibile, ma come una meta che si può raggiungere.

Cosa si prospetta nel tuo futuro?

Al momento sto girando la seconda stagione di Summertime, che uscirà prossimamente su Netflix. Sicuramente la mia intenzione è continuare a recitare: mi piacerebbe studiare e affinare le mie capacità, così da avere delle basi solide. Allo stesso tempo, continuo a coltivare i miei hobby, come la danza e la pittura, e non mi dispiacerebbe riuscire a portarli a un livello superiore. Sono una ragazza molto aperta, quindi non mi precludo nessuna esperienza o possibilità.

E se potessi sognare, invece?

Mi piacerebbe prendere parte a un film ambientato negli anni Settanta, magari interpretando un ruolo femminile forte e di spessore, anche ispirato a una figura realmente esistita. Mi piacciono molto i personaggi interpretati da Viola Davis, un’attrice che trovo molto brava, oltre che un modello a cui ispirarsi. Inoltre, se posso davvero sognare in grande, mi piacerebbe lavorare con Will Smith: credo sia un attore molto sensibile, capace di trasmettere positività. Non mi dispiacerebbe avere qualche consiglio da lui, prima o poi!

Giulio Pranno, la forza di un’opportunità

Ha conquistato l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, grazie al ruolo del ragazzo autistico Vincent in Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores. L’ascesa verso il successo di Giulio Pranno è però solo all’inizio e a confermarlo è la sua recente vittoria del Premio Prospettiva, riconoscimento che annualmente lo ShorTS International Film Festival assegna agli attori più promettenti. In occasione della vincita – e della masterclass di cui sarà protagonista martedì 7 luglio alle ore 18.00, in diretta streaming sulla Pagina Facebook di ShorTS e su quella di MYmovies – Giulio si è raccontato in esclusiva a Fabrique.

Stai per vincere il Premio Prospettiva dello ShorTS International Film Festival: come ti senti a riguardo?

Sono ovviamente molto felice, soprattutto perché ciò che ho fatto è stato apprezzato. Quando esordisci sul grande schermo e la critica ti da un buon riscontro, ti rendi conto che la prima carta te la sei giocata bene. È come avere la conferma di essere pronto per questo mondo, di essere riuscito a trasmettere quello che ti eri prefissato. Certo, la strada è ancora lunga…

Una strada lunga cominciata per caso…

Fare l’attore non era nei miei piani. Ho sempre amato disegnare, soprattutto fumetti, e per una parte della mia vita ho pensato che quello sarebbe stato il mio futuro. Grazie ai consigli di mio padre, ho però deciso di prendere parte a uno spettacolo teatrale alle medie: ho interpretato Puck in Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Da lì, ho capito che ciò che volevo realmente fare era recitare. L’amore per il cinema poi c’è sempre stato… Ho visto Arancia meccanica a otto anni!

Il tuo primo progetto cinematografico è stato Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores. Come sei stato coinvolto?

Durante l’adolescenza ho studiato recitazione, prima in parrocchia e poi in una scuola professionale. Tuttavia, non ho cercato io il ruolo nel film di Gabriele Salvatores. Francesco Vedovati e Emanuela De Santis erano alla ricerca di un attore emergente che interpretasse Vincent. Avevano contattato varie scuole ed è saltato fuori il mio nome. Inizialmente pensavo fosse una presa in giro, perché mi hanno contattato su Facebook: quando sono andato al provino, però, mi sono accorto che era tutto vero!

È stato difficile preparare un personaggio come quello di Vincent?

Devo ammettere che non mi sentivo preoccupato: la sceneggiatura era ottima, il mio personaggio era scritto benissimo e mi sentivo guidato dalle mani esperte di Gabriele. Naturalmente, per prima cosa mi sono informato sull’autismo, ma soprattutto mi sono confrontato con Andrea Antonello, il ragazzo a cui si ispira il film. Ogni ragazzo autistico è diverso, quindi ho cercato di restituire sullo schermo quello che mi trasmetteva lui.

giulio pranno
Giulio Pranno e Claudio Santamaria in Tutto il mio folle amore

Come hai vissuto l’esperienza del set?

Inizialmente non ero preoccupato, infatti il giorno prima delle riprese ho dormito come un sasso. La sera successiva, invece, non ho chiuso occhio, perché avevo tantissima adrenalina in corpo! Non ero mai stato su un set prima, quindi non avevo ben chiaro come dovermi comportare, ma ho imparato in fretta ed è stata un’esperienza indimenticabile. Certo, non è sempre stato facile: il mio personaggio era molto fisico e, anche per colpa della bodycam, arrivavo a fine giornata stremato.

Come è stato il rapporto con Salvatores?

Fantastico! Considero Gabriele il mio papà cinematografico, è stato il primo che ha scommesso su di me, mi ha dato fiducia, anche con un personaggio non facile come quello di Vincent. È un regista capace di far sentire gli attori protetti e di guidarli lasciando però loro una certa libertà. Uno dei momenti che porto nel cuore riguarda il giorno che abbiamo girato la scena del ritorno di Willy, il padre di Vincent. Non so che corde avesse smosso dentro di me, ma sono scoppiato piangere e abbiamo dovuto interrompere le riprese. Gabriele mi è stato di enorme supporto ed è riuscito a darmi la forza di continuare.

Come è cambiata la tua vita dopo il film?

Mi fa ridere questa domanda. In realtà non è cambiata in nessun modo! I miei amici e i miei famigliari mi vedono ancora nello stesso modo: quando fai un solo film non sei investito da tutta questa notorietà. Se devo essere sincero, al momento però non interessa così tanto il successo: voglio solo essere un bravo attore e fare un bel percorso.

Cosa consiglieresti a un ragazzo che vuole seguire la tua strada?

Ogni tanto qualche aspirante attore mi scrive su Instagram per chiedermi un consiglio: io rispondo sempre, ma non ho formule magiche o strade sicure. Sono però convinto che lo studio sia importantissimo, così come la fortuna. Credo che il successo dipende da quest’ultima, ma solo grazie allo studio si può trasformare il caso in un’opportunità.

E nel futuro, cosa ti si prospetta?

Ho finito le riprese di un progetto di Peter Chelsom, il regista di Serendipity. È un film di produzione italiana, ma spero che venga distribuito anche a livello internazionale. Inoltre, a breve sarò di nuovo sul set: sono molto felice perché per il momento mi stanno proponendo personaggi molto particolari, e ogni film rappresenta una nuova sfida per me. In futuro, sogno invece di lavorare con grandi registi come Matteo Garrone o Paolo Sorrentino, ma anche con giovani autori che apprezzo molto, come i fratelli D’Innocenzo, Roberto De Feo o Paolo Strippoli.

Pride month: 5 film italiani (+ 1) per celebrare l’orgoglio LGBTQ+

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Il 27 giugno avrà luogo il primo Global Pride digitale, conclusione del mese del Pride. Per l’occasione, Fabrique ha deciso di riscoprire alcuni film italiani che hanno raccontato le variegate realtà LGBTQ+: cinque lungometraggi contemporanei – a cui si aggiunge un sesto cult della storia del cinema italiano – che portano sullo schermo le voci di una comunità che oggi più che mai ha bisogno di essere raccontata.

1. Un bacio (Ivan Cotroneo, 2016)

Antesignano dei coming of age italiani a tema arcobaleno, Un bacio di Ivan Cotroneo è – insieme all’ancora più drammatico Più buio di mezzanotte di Sebastiano Riso – uno dei primi lungometraggi incentrati sul rapporto tra omosessualità e adolescenza, binomio che non a caso permette di mettere in scena alcuni dei temi più cari alla narrazione LGBTQ+, come la scoperta e l’accettazione della propria sessualità o i primi e spesso conflittuali amori. Se siamo ancora distanti dai toni leggeri delle produzioni teen strettamente contemporanee, il film di Cotroneo ha il merito di gettare le basi di un filone, quello propriamente adolescenziale, con intelligenza e inaspettata dolcezza.

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2. Il padre d’Italia (Fabio Mollo, 2017)

Se in tempi recenti il nome di Fabio Mollo è legato a Curon, serie Netflix che sta ottenendo un buon successo anche a livello internazionale, sua è anche la regia de Il padre d’Italia, interessante lungometraggio nel quale le logiche LGBTQ+ si declinano in modo insolito. Focalizzandosi sulla nascente amicizia tra un trentenne omosessuale cresciuto senza famiglia (dal volto di Luca Marinelli) e una giovane ed esuberante ragazza incinta (interpretata invece da Isabella Ragonese), l’opera seconda di Mollo è prima di ogni altra cosa la storia di un’amicizia, che sconvolgerà totalmente la vita dei due protagonisti, permettendo al ragazzo omosessuale di combattere i fantasmi del suo passato, dando un nuovo significato al termine famiglia.

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3. Favola (Sebastiano Mauri, 2017)

Parlare in poche righe di un film come Favola non è certo facile. L’opera di Sebastiano Mauri, a suo tempo distribuita come film evento in sala per un periodo limitato, non è infatti solo la storia di una donna dalla vita apparentemente perfetta che nasconde un segreto, ma è soprattutto un vero e proprio manifesto di queer pride. Se da un lato è infatti Filippo Timi a dare il volto alla giunonica Mrs Fairytale, dall’altro il racconto sembra aggiornare e allo stesso tempo distruggere il patinato universo famigliare eterosessuale e patriarcale tipico dell’iconografia americana degli anni Cinquanta, accogliendo la lezione prima di Douglas Sirk e poi di Todd Haynes, ma scoperchiandone i sottotesti LGBTQ+.

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4. Zen sul ghiaccio sottile (Margherita Ferri, 2018)

Presentato in anteprima alla 75° edizione della Mostra del cinema di Venezia, Zen sul ghiaccio sottile (leggi qui la nostra recensione) vira nuovamente verso la storia di formazione, raccontando di Maia, detta Zen, una sedicenne che si sente fisicamente e mentalmente un ragazzo. Costantemente perseguitata dai suoi coetanei, la protagonista sembra trovare finalmente un’alleata nella bella Veronica, ma le cose, si sa, non sono mai così facili. Una storia d’amore, quindi, che sembra però discostarsi dalle classiche dinamiche romance, riflettendo non solo sul legame tra due donne, ma anche sulla scoperta e accettazione della propria identità di genere, che non sempre coincide con il sesso biologico.

5. Mamma + mamma (Karole Di Tommaso, 2018)

Se Margherita Ferri racconta la storia di due ragazze che cercano di capirsi in un moderno – ma sotto certi punti di vista anche tradizionale – coming of age movie, Karole Di Tommaso fa un piccolo salto generazionale, raccontando la storia di due donne, interpretate da Linda Caridi e Anna Bellato, pronte a creare una famiglia. Mamma + mamma (qui la nostra recensione), prima ancora di essere una storia d’amore tra due donne, è infatti una storia di maternità, un ritratto profondo e personale (non a caso autobiografico) che travalica i confini delle storie arcobaleno, per raccontare la storia di una famiglia pronta a nascere.

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+1. Il bell’Antonio (Mauro Bolognini, 1960)

Se in tempi recenti il cinema italiano ha più volte raccontato storie arcobaleno e a tema pride, non bisogna credere che anche nei decenni precedenti manchino racconti di questo tipo: mentre però ora l’omosessualità è spesso esplicita o manifestata, tra gli anni Cinquanta e Novanta tali logiche erano spesso latenti e nascoste, come testimoniano i film di Visconti, Scola e Bolognini. Proprio quest’ultimo, nel suo celebre classico Il bell’Antonio, mette in scena un tema ancora oggi quasi per nulla raccontato: quello dell’asessualità. Antonio, dal volto di Mastroianni, è infatti un apparente latin lover, che però nasconde un segreto: l’incapacità di compiere pienamente un atto sessuale, anche con la donna che ama. Un film coraggioso tanto all’epoca, quanto oggi, che racconta una realtà LGBTQ+ ancora poco narrata, che necessità però come le altre di una propria voce.

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