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Francesco Di Brigida

Il sol dell’avvenire. Il Moretti che aspettavamo da tanto

Dopo la prova opaca di Tre piani torna da protagonista Nanni Moretti. Dalle prime immagini Il sol dell’avvenire trasmetteva già buone sensazioni, ma alla visione si rivela come una folgorante rinascita. Il suo alter ego è Giovanni, regista autoriale e navigato, che tanto gli somiglia, alle prese con il suo set ambientato nel quartiere Quarticciolo di una Roma del ’56, dove il Partito Comunista raccordava parti importanti della vita e del lavoro delle persone.

Moretti escogita un intreccio di metacinema tra la Roma borghese attuale, popolata di personaggi assortiti, ognuno con la sua piccola fragilità, ognuno con la sua stortura, e il quartiere popolare di quasi settant’anni fa. Da psicoterapeuti che rispondono al telefono durante le sedute a produttori francesi dalla doppia vita; da registi ciecamente dediti a una compiaciuta violenza filmica fino ad attrici impuntate sull’improvvisare oltre il copione. Queste e tante altre le piccole e grandi rigidità e tic Moretti ce li fotografa nella sua nuova galleria con una lucidità giocosa e pedante a fasi alterne.

Il regista si prende cura dello spettatore con lezioni di cinema e sogni politici rivolti al passato togliattiano, ma profondamente attinenti alle tante svolte che hanno portato a oggi. Ma ipotizza pure un Quarticciolo ancora senza luce negli anni Cinquanta, e magari qualcuno potrebbe prendersela per la licenza, più che poetica, cinematografica. Resta il fatto che Moretti mostra a modo suo l’impegno politico attraverso il grande schermo con Silvio Orlando e Barbora Bobulova, segretario di sezione del PCI lui, sua moglie sarta tesserata e militante lei. Grazie a loro, la comunità artistica di un circo ungherese fuggito dalle repressioni sovietiche troverà il sostegno del PCI e del quartiere. Barbora e Silvio sono gli attori che seguono Giovanni, anche se i sabot della prima saranno motivo di reprimende morettiane da consegnare all’immaginario dei fan. 

Tanto autocitazionismo negli stilemi, inevitabile per un grande vecchio – lo fa anche Spielberg nel suo ultimo lavoro – ma anche tanto puro morettismo che inevitabilmente dividerà. Ma la costruzione del pastiche è così complessa e ricca di stratificazioni che potrebbe coinvolgere anche ben oltre il pubblico degli aficionados. Certo, Cannes arriva tra un mese, e l’affermazione sulla Croisette dov’è in concorso, spingerebbe Il sol dell’avvenire ulteriormente. 01 Distribution intanto scommette impegnandoci ben 500 sale.

Ed è una scommessa anche per i produttori. Nel ruolo della moglie produttrice di Giovanni abbiamo una Margherita Buy schiacciata dallo sguardo iperuranico del marito regista. E grazie a lei, Moretti, insieme alle sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, ci schiude le vie alternative, professionali e non, di una donna giunta al capolinea del proprio matrimonio. La fotografia di Michele D’Attanasio esplode meglio che in Tre piani per lscelta del colore. Splendidi poi nella loro leggerezza musicale gli intermezzi sognanti ed estemporanei con Blu Yoshimi e Michele Eburnea, in un’epoca a metà strada tra il ’56 e il nostro 2023. Certo anche Moretti, come tanti registi italiani, non molla il vizietto della cantatina corale in macchina. Ma è con i suoi ben noti cliché che torna in sala un Nanni profondamente autoironico e giocoso, proprio passando attraverso la sua stessa pedanteria. Come il grande soliloquio sul set di un giovane regista assetato di sangue, al quale metterà i bastoni tra le ruote. Scena surreale, ma al tempo stesso lezione di cinema altissima quanto tragicomica perché disseziona il concetto di violenza estetizzata. Una sequenza della quale si parlerà certamente in futuro.

il sol dell'avvenire
Silvio Orlando e Barbora Bobulova,

Il sol dell’avvenire si scopre come il lavoro più complesso e multiforme di Moretti. Quindi giù con stilettate folgoranti al mercato delle piattaforme streaming; lo sguardo sensibile contro pregiudizi sull’omosessualità; la riflessione sull’accettazione di coppie etero con età molto distanti; le co-distribuzioni internazionali “strada facendo” necessarie alla sopravvivenza di un set; il musical come punteggiatura estetica; dire qualcosa di sinistra attraverso il cambiamento sociale a prescindere dalle bandiere rosse; la sostituzione della vespa coi monopattini elettrici; l’egocentrismo pervicace dei vecchi, registi e non; l’impiego di grandi attori europei come Mathieu Amalric, Jerzy Stuhr, Zsolt Anger; e alcune curiose preveggenze. Una è il pericoloso orso fuggito dal circo, sembra scritto apposta pensando al triste caso JJ4. Invece il film è stato girato l’anno scorso, in estate, e con la sua vitalità fa centro perché fa ridere e commuovere.

 

 

Il ritorno di Casanova. Salvatores torna a volare alto

Due storie parallele si rincorrono in questo nuovo lavoro di Gabriele Salvatores, che dopo Comedians continua a seguire la strada della bottega dei sogni. Se nel film del 2021 setacciava un laboratorio attoriale, i drammi da spogliatoio e le ambizioni di un gruppo d’attori, con Il ritorno di Casanova sdoppia la sua attenzione su un regista di successo e lunga esperienza giunto a una resa dei conti con la propria vita, parallelamente al Casanova imbolsito del suo film da ultimare.

In questo raffinato snodo di metacinema i timonieri sono Toni Servillo, avvolto con il suo regista Leo Bernardi da un bianco e nero che ridisegna morbidamente il piano della vita reale, e Fabrizio Bentivoglio, il Casanova decadente del film di Bernardi, che respira a colori le sue ultime avventure tra vizi sopiti e amare constatazioni. Bernardi è un uomo solo con la sua fredda domotica e il suo montatore e amico accogliente interpretato da Natalino Balasso. L’incontro con una contadina molto più giovane di lui, durante il set, gli ha cambiato l’esistenza facendogli perdere ogni certezza. Così come Casanova, spirito avvizzito e squattrinato nuovamente investito dal desiderio. Entrambi i personaggi dovranno vedersela col tempo che passa, anzi, già passato, così Salvatores intreccia una doppia riflessione sulla vecchiaia e la passione per una donna molto più giovane. Ognuno di loro confligge con un giovane antagonista, che sia un ufficiale spadaccino o un regista all’opera seconda poco importa, perché in regista di Mediterraneo sfodera un’opera solida e densissima.

Il ritorno di Casanova Pieno d’idee registiche ben realizzate, colpi di scena gustosi, ricollocazioni di attori comici – Ale & Franz in testa – momenti magici tra Servillo e Serraiocco da cinema francese vecchio stile, citazioni di Banksy e un velo di nostalgia che sfiora ogni momento del suo procedere, questo Casanova tra le mani di Salvatores brilla di maturità. Forse anche troppa, ma solo nel senso di un pubblico di riferimento che tenderà a escludere probabilmente il giusto appeal di massa per i giovani in sala. Sulla carta fuori target.

Fino a pochi anni fa una durata di un’ora e mezza non avrebbe destato interesse, ma al tempo della competizione più ardua contro le serie tv, questo film dimostra pragmaticamente come si possa raccontare in maniera concisa, profonda, sfaccettata, complessa, e soprattutto completa, una doppia storia. Due pletore di personaggi che ruotano armonicamente nella sceneggiatura firmata da Umberto Contarello, Sara Mosetti e dallo stesso Salvatores. Uno dei rari registi di casa nostra a destreggiarsi senza rete tra i generi, non sempre con risultati felici (come i due Ragazzi invisibili), ma affamato di novità e generoso con le nuove sfide, il regista milanese sembra aver trovato una nuova dimensione di saggezza matura nel raccontare il mondo artistico dal quale proviene.   

Infatti c’è una piccola perla venuta fuori dalla masterclass di Bentivoglio al Bari International Festival, dove è stato presentato ufficialmente il film. L’attore ha voluto rivelare un particolare inedito: “Quando Gabriele mi diede da leggere la sceneggiatura, il mio personaggio era genericamente indicato come ‘l’attore che interpreta Casanova’. Terminato di leggerla, lo chiamai al telefono e gli dissi: il mio personaggio si chiama Federico Lolli, come quello che avevo interpretato in Turné. E lui mi ha risposto: ‘mi hai fatto venire i brividi!’. Questa cosa è rimasta tra me e lui, nessuno della troupe ne è mai venuto a conoscenza. Ma è per dire che nel film c’è un sottotesto, quello per cui in un certo modo esso racconta tutta la nostra vita!”.

 

Educazione fisica: un esercizio di stile tra lupi, agnelli e genitori

Proviene da un testo teatrale il nuovo film di Stefano Cipani, dopo il premiato Mio fratello rincorre i dinosauri. La palestra di Giorgio Scianna, pièce del 2012, con trattamento per il cinema e sceneggiatura di Damiano e Fabio D’Innocenzo diventa così il muscolare e provocatorio film Educazione fisica, al cinema dal 16 marzo. I genitori di tre ragazzi vengono stranamente convocati dalla preside nella palestra della scuola. Una brutale violenza sessuale è stata subita da una compagna di classe, secondo la confessione fiume della ragazzina scioccata proprio alla direttrice. Inizia così uno sconcertante colloquio, un falò delle vanità e del compromesso destinato ad assumere le fattezze di un vero e proprio thriller.

Il padre business-man con tendenze bulle e razziste ha spalle, faccia tosta e un sovrappeso studiato di Claudio Santamaria. La madre del secondo ragazzo è divorziata, apparentemente fragile ma all’occorrenza calcolatrice, con lo sguardo tagliente di Raffaella Rea. La coppia placida e un po’ stagionata del terzo invece, lei prudente, lui fiducioso, è composta da Angela Finocchiaro e Sergio Rubini. Il regista in una sua dichiarazione ha confessato d’essersi ispirato ai cartoni animati anni ’70 di Ralph Bakshi, al cinema di Buñuel e al punk. Infatti la messa in scena decadente, le geometrie degli attrezzi rugginosi e le ombre delle ventole per il ricambio d’aria sugli intonaci vecchi e bicolore mettono lo spettatore nel mezzo di una disputa senza esclusione d’idee per farla far franca ai propri figli. Cipani ci mostra ad arte lo scontro tra i genitori e la direttrice in un cane mangia cane volto a scoprire i lati più inconfessabili del perbenismo borghese. È un confronto dove un lupo potrebbe finire come un agnello, e dove l’agnello potrebbe rivelarsi lupo.

Educazione fisica
Giovanna Mezzogiorno.

Cardine di tutto si rivela proprio questa direttrice che dovrà farsi carico di tutte le ansie dei suoi interlocutori. Giovanna Mezzogiorno ne mette in scena la seraficità turbata, il senso del dovere e l’ottimistica ingenuità di fronte a genitori che altaleneranno tra vittimismo, pressappochismo e malcelata perfidia i loro discorsi difensivi. Educazione fisica si stampa in mente come piccola vetrina sulle brutture del genitore medio nel nostro tempo. Indaga con originalità sul tanto decantato “buon senso” e gioca sadicamente con uno degli scenari più contrarianti: la violenza carnale praticata da minorenni figli di coppie “per bene”.

È questa la stonatura sociale che il film abbraccia intrappolando tra le sue spire lo spettatore. Il senso di claustrofobia emotiva nonostante lo spazio ampio della palestra colpisce forte allo stomaco. E per quanto una storia così secca non possa evitare di sembrare mero esercizio di stile, mette in scena cinque personaggi in maniera quasi pirandelliana. La regia riesce così a danzare tra dialoghi serrati e tagli d’inquadratura che nelle sfocature di controcampi e personaggi sullo sfondo trasmettono un senso di disagio perché nei dialoghi si mescolano sapientemente le buone intenzioni, il male e il senso di giustizia come fossero un mazzo di carte truccate e dal punteggio incerto fino alla fine.

 

Mixed by Erry: quei bravi ragazzi di Sydney Sibilia

Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, quei supporti fisici che erano la musica negli anni ’80, videro il fenomeno tutto partenopeo di Mixed by Erry. Tre ragazzi, i fratelli Frattasio, iniziarono quasi per caso a copiare e vendere cassette musicali a Forcella, poi l’exploit che divenne business perché nelle personalizzazioni di Erry, i loro amici si ritrovavano canzoni extra e rimandi ad artisti e generi musicali nuovi per approfondirli con altri acquisti. Altre cassette. Altro business.

Anche con il suo precedente L’incredibile storia dell’Isola delle Rose il regista Sydney Sibilia raccontava di un curioso evento di cronaca, a cavallo tra anarchia e poesia. Qui invece Erry, Enrico, insieme ai suoi fratelli Peppe e Angelo infrange con spensieratezza tutte le regole sul Diritto d’Autore, materia che in quegli anni ancora non acquisiva l’istituzionalità delle maiuscole.

Questo film ci parla a diversi livelli. C’è la storia di una famiglia che vive d’espedienti, tre fratelli legatissimi e in ascesa un po’ come Quei bravi ragazzi di Scorsese, ma in salsa comedy. Luigi D’Oriano, Erry, potrebbe corrispondere al De Niro leader; Giuseppe Arena, Peppe, il fratello maggiore e anche il più posato e responsabile, a Liotta; e alla scheggia impazzita Pesci somiglia per certi versi il personaggio del piccolo di casa, quindi Emanuele Palumbo. I tre giovani talenti innestano un motore dai tempi comici perfetti. Il gatto e la volpe a due tempi, sono però Adriano Pantaleo, nei panni del papà traffichino dei ragazzi, e Fabrizio Gifuni, manager milanese e inamidato che li porterà oltre ogni sogno più sfrenato. La loro nemesi trova invece il muso e l’irresistibile toupet di Francesco Di Leva nei panni del finanziere che indaga sui protagonisti.

Con leggerezza Sibilia sfiora anche stragi di camorra di quegli anni senza mai perdere il timone della commedia intelligente e d’intrattenimento. Ci mostra il celebre fuoco d’artificio, il Pallone di Maradona, prima che venisse battezzato, gli interni del Teatro Ariston di Sanremo durante il Festival, immagini dal primo scudetto del Napoli e di repertorio fuse con il lavoro scenografico dal sapore pop niente male di Tonino Zera. Apre al pubblico del 2023 e soprattutto ai suoi millenials i vicoli di una storia tappezzata di poster di Cioè sui muri delle camerette degli adolescenti, motorini, cuffiette e musica. Racconta l’esigenza della musica, la mancanza della musica dove non c’erano negozi di dischi, la proverbiale arte di arrangiarsi del Sud e quella fiducia nel futuro che caratterizzava quegli anni. In verità i Frattasio sono stati antesignani di Napster, ma utilizzavano già rimandi e suggerimenti in stile Spotify. Del resto Erry lo dice candidamente: “Io volevo solo fare il Dj”.

Mixed by ErryIl film targato Groenlandia, quindi della premiata ditta Sydney Sibilia – Matteo Rovere, esce al cinema il 2 marzo. Belle queste nuove scorpacciate vintage di anni ’80 che mostrano Napoli nella sua vitalità, nei suoi colori e nelle sue speranze. A partire dalla Mano di Dio di Sorrentino, la serie La vita bugiarda degli adulti, e approdando ora a Mixed by Erry. Chissà cosa ne avrebbe pensato Nanni Loy, che di truffaldine trovate napoletane ne raccontò così tante proprio in quegli anni.

 

Monica Galantucci e la sua M74 Post: “La mia rivoluzione nella post-produzione”

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Il mercato dell’audiovisivo sta vivendo un momento di grande espansione, rendendo sempre più necessario un attento lavoro di post-produzione su film e serie TV. Nascono nuove realtà altamente specializzate come M74 Post, uno studio giovane che si occupa di effetti visivi e post produzione e che, tra gli altri, ha già nel suo portfolio serie come Boris 4, Il nostro generale, Le fate ignoranti, Call my agent; e film come I migliori giorni, Lamborghini, The Land of Dream, Pantafa. Founder e anima del progetto è Monica Galantucci, che ha voluto radicare la sua società nel centro di Roma, nel quartiere Prati, principale polo del settore audiovisivo.

Come nasce M74 Post?

Nasce dopo anni d’esperienza nel settore. Personalmente ho cominciato come producer degli effetti visivi, poi sono diventata supervisor, ma anche questo ruolo cominciava a starmi stretto. Così ho deciso di fondare un’azienda tutta mia. M74 è nata nel settembre 2019 e dopo mesi di ristrutturazione, siamo entrati nella nuova sede appena due giorni prima del lockdown. Nonostante la pandemia, abbiamo portato avanti i nostri progetti da remoto, fortunatamente già da fine aprile abbiamo avuto la possibilità di far tornare gli artisti in presenza.

I progetti che seguite sono molto vari. Serie come Vita da Carlo, Il santone e Zero; film per piattaforme come Lasciarsi un giorno a Roma o Divin Codino; ma anche film in sala come Belli ciao, Tapirulan, Si vive una sola volta. Senza contare, spot, opere prime, e sfide internazionali come quella teatrale di Chiusi fuori.

Proprio nel caso di quest’ultimo che hai citato il regista Giorgio Testi ha voluto insieme Colin Firth e Stefano Accorsi. Però uno era in teatro a Firenze, mentre l’altro in studio a Londra. Noi con il nostro lavoro e in piena pandemia li abbiamo messi insieme sullo stesso palco in un corto ispirato all’opera Aspettando Godot di Samuel Beckett.

Come si collega la post-produzione al set di un film nell’epoca digitale?

Anche se il nostro lavoro viene fatto in post, gli interventi vengono stabiliti in pre-produzione: è in questa fase infatti, che occorre confrontarsi con il cliente per capire quali siano le sue aspettative ed accompagnarlo nella giusta direzione. Ci sono scelte che devono essere fatte prima dello shooting, e in accordo con gli altri reparti.

M74 Post
L’evento natalizio 2022 con lo staff di M74 Post.

Siamo ad un 2023 appena iniziato, col Covid alle spalle e un linguaggio che si è evoluto, è cambiando. Si fa cinema per piattaforme tv, le serie si stanno trasformando e troviamo moltissimi effetti visivi anche in prodotti insospettabili come le commedie. Spesso il pubblico neanche lo sa. Quali sono le nuove esigenze del mercato audiovisivo, le nuove sfide alle quali rispondere?

La prima strategia è agire in tempo. Come hai detto, è evidente che l’andamento del settore cinema è in forte crescita e di conseguenza anche quello della post produzione e degli effetti visivi. Le produzioni sono tante e sempre più veloci purtroppo. L’intervallo tra pre-produzione e post-produzione si è notevolmente assottigliato. Quindi lavorare tanto e ad un ritmo serrato mantenendo uno standard molto alto non è facile. È questa la grande sfida: mantenere la qualità in tempi strettissimi.

C’è un episodio che puoi raccontarmi su un cambio di programma poi risolto e migliorato dalla vostra post-produzione?

Una volta è capitato che l’attore protagonista non potesse essere sul set il giorno di riprese poiché affetto da Covid. Quindi abbiamo risolto con un replacement del viso. Bloccare un set può essere molto costoso, operazioni come quella che abbiamo fatto danno la possibilità di girare comunque, risparmiando in costi e tempi.

Come nasce la necessità di un effetto e come funziona la relazione professionale e umana con i registi?

Il regista viene da noi, ci spiega la sua idea e noi cerchiamo di realizzarla al meglio, rispettando il budget di produzione. Come primo step leggiamo la sceneggiatura facendo uno spoglio sui possibili interventi visual. Ci si riunisce poi di nuovo con il regista per discutere nel dettaglio il progetto e prendere le decisioni finali per procedere. Il fascino del nostro lavoro è anche quello di poter lavorare con i vari reparti e creare una vera e propria sinergia.

Com’è organizzata M74 rispetto alle diverse tipologie di servizi che completate con i vostri interventi digitali?

Il nostro core business è sicuramente quello degli effetti visivi, possiamo seguire progetti che richiedono l’ausilio del 2De del 3D e di animazione. Abbiamo un reparto di Motion Design. Anche il reparto video è ben strutturato con 2 Colorist, (oltre ai freelance che chiamiamo al bisogno), il reparto Delivery e QC. Ci occupiamo della sola parte video, per l’audio, quando necessario possiamo contare su partner esperti del settore. La nostra è un’azienda innovativa, che punta al mercato internazionale. Credo molto nella crescita dei miei collaboratori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche dal punto di vista umano, e tutti abbiamo frequentato corsi di comunicazione, gestione del tempo e lavoro di gruppo.

Romantiche. Pilar Fogliati è “un sacco bella”

Quest’inverno ha tenuto compagnia al pubblico delle piattaforme con una serie commedia sull’anima gemella da trovare entro Natale per sfidare la propria famiglia. Ma in Odio il Natale era solo protagonista Pilar Fogliati. Nel suo film Romantiche invece fa molto di più. Scrive la sceneggiatura con Giovanni Veronesi e Giovanni Nasta, esordisce dietro la macchina da presa, ma soprattutto interpreta le quattro protagoniste con le caratteristiche che ricalcano il suo famoso video virale dove s’immergeva in parlate e tipologie di ragazze romane a seconda dei quartieri e delle estrazioni sociali. Un inconsueto e gustoso reel di quelli che restano impressi.

Roma si fa crocevia delle avventure e disavventure di queste quattro ragazze di belle speranze, ognuna molto diversa dalle altre, ma tutte in cerca di realizzare i propri sogni o mantenere il proprio status. C’è Tazia, fidanzata determinata e bulletta di Roma Nord che insieme alle sue amiche parioline dovrà affrontare una sfida inaspettata; Michela, giovane e morigerata negoziante, prepara il suo matrimonio a Guidonia cercando di sopravvivere ai parenti del promesso sposo; la logorroica Eugenia invece fugge da Palermo per diventare sceneggiatrice nella città del cinema; e infine Uvetta, giovane nobile un po’ boccalona, deciderà di tuffarsi nel mondo del lavoro per conoscere gente nuova. O cambiar vita, chissà.   

Ha trent’anni Pilar Fogliati, quanto Carlo Verdone quando uscì Un sacco bello quasi 40 anni fa. Altra epoca, tre personaggi maschili, ma stessa esigenza di portare al cinema i tic della propria generazione, del proprio tempo e della loro stessa città. Roma appunto. Fogliati, divide tutto in capitoli netti, scrolla visivamente le sue protagoniste sulla home di un social per proporci le storie delle sue quattro romane, ma soprattutto le raccorda attraverso lo studio della psicoterapista Barbora Bobulova, dove tutte loro finiranno per raccontarsi e cercare di riprendere le redini ognuna della propria vita un po’ scombussolata.

Un pizzico buonista negli intenti, ma bilanciata grazie ad alcuni sketch spietati e gustosi, Fogliati sbeffeggia il mondo dei sogni di gloria legati al cinema; scoperchia punzecchiandole certe ipocrisie dei ricchi, che siano nobili o soltanto borghesi; e con leggerezza racconta il modernissimo tabù del denaro e altre paure e rigidità della classe lavoratrice. Fa parlare la provincia microimprenditrice quanto i quartieri agiati, fino ai non luoghi nobili dove il lavoro è considerato poco più di un esotico hobby. Il romanticismo inseguito dal titolo sembra più un’amara chimera quindi, ma proprio in questo spazio liminale lo zampino di Veronesi si fa sentire in alcune sequenze.

RomanticheNel cast sono spalle di Fogliati alcune belle facce da commedia brillante come Giovanni Anzaldo, Emanuele Propizio, Diane Flerì, Ubaldo Pantani, il veterano Rodolfo Laganà, e poi un’outsider, Levante, che oltre a un cameo dove interpreta sé stessa, firma musiche e canzoni per il film. Proponendo comicità e tormentoni tutti al femminile, Romantiche, che sarà al cinema dal 23 febbraio 2023, distribuito da Vision Distriburtion, si presenta come un esordio un sacco bello, e chissà se nell’immaginario dei millenial Fogliati imbroccherà la stessa buona strada di Verdone.

Pantafa: Emanuele Scaringi riparte dal Torino Film Festival

Il suo esordio al lungometraggio non fu dei più felici. Il suo Armadillo scialbo fece infuriarie Zerocalcare, così è passato alla serie Bangla, prodotto più formattizzato e forse meno rischioso. Ci riprova con il cinema Emanuele Scaringi, presentando il suo Pantafa in concorso nella nuova sezione competitiva Crazies del Torino Film Festival, dedicata al cinema horror e fantastico.

Siamo nel reatino, Lago del Turano, in una località fittizia battezzata per l’occasione Malanotte. Una madre con la figlia dodicenne si trasferisce dalla città in un piccolo borgo di poche anime per vivere a contatto con la natura. Nel folklore abruzzese, leggenda oggi nota da quelle parti perlopiù a persone anziane, la pantafeca era una specie di strega spettrale che durante la notte si sedeva sul petto dei dormienti rubando loro il respiro. Era una credenza ancestrale, piuttosto comune in forme simili anche in altre culture, per spiegare il fenomeno medico delle apnee notturne. Ma questo lo sappiano noi, mentre i personaggi del film dovranno lentamente scoprire, a spese della figlia, interpretata dalla giovanissima Greta Santi, e della madre, una Kasia Smutniak ben centrata nella parte, l’esistenza di un’entità malvagia.

Pantafa

Scaringi ci mostra la sua Pantafa con le sembianze di una giovane donna fantasmatica, e sibilante che ricorda tanto gli spettri in sottoveste usciti dal giapponese Ringu, e poi The Ring per gli americani. Insomma, parliamo di un horror con un incipit antropologico molto originale, visto il ripescaggio di una leggenda perduta in territori poco noti sul grande schermo. Il potenziale era buono, ma le invenzioni vere latitano e la riuscita è tutt’altro che positiva. In primis perché nulla di ciò che accade ci mette in guardia, né ci spaventa, e tantomeno ci sorprende facendoci saltare dalla poltrona. A parte qualche rivelazione abbastanza telefonata. “Le storie servono a trasformare le cose brutte in qualcosa che non fa paura”. Spiega ad un certo punto la Smutniak alla figlioletta prima di dormire. Una frase anche interessante, che però sembra sia stata presa sin troppo alla lettera dal regista stesso.

La messa in scena è sempre molto semplice, a volte si scimmiotta il Midsommar di Ari Aster, provando ad elevarsi anche con l’utilizzo del drone su questa fetta al confine tra Lazio e Abruzzo. E vista l’attenzione al respiro non si può non pensare a Suspiria, dal quale siamo ben lungi. A prescindere da citazioni volute o involontarie, pur con alcune piccole idee non male, si rimane privi di quel piglio psicologico o registicamente tecnico necessario a un horror per catturare davvero il pubblico. Soprattutto quello giovane, target principale del genere. Uno sprazzo, per esempio, è legato a I’ll be your mirror. Il pezzo dei Velvet Underground performato da Nico nel 1967 viene però utilizzato per la classica cantata in macchina dei protagonisti, scena ricorrente di tanto cinema italiano degli ultimi anni.

Avendo un bel parterre di personaggi e attori che parlano abruzzese poi, come Betti Pedrazzi, nel ruolo dell’anziana vicina esperta di rimedi magici fatti in casa, Mauro Marino e lo stesso Francesco Colella, si potrebbe avvertire quasi la nostalgia dei Parenti Serpenti di Monicelli, ambientato nella vicina Sulmona. Ma i meccanismi narrativi qui, a prescindere dai generi, sono molto più basici. Insomma, un cast decisamente solido, ma si è sprecata una ghiotta occasione perché ci si poteva costruire un piccolo cupo giocattolo della paura.  

 

 

 

Le Space Monkeys di Aldo Iuliano: “Il mio sguardo positivo per le nuove generazioni”

Se nel suo premiato cortometraggio Penalty parlava per immagini di immigrazione, Aldo Iuliano con Space Monkeys mette in scena un ritratto di una generazione Z sperduta tra sogni, deliri e irresponsabilità. Si tratta di un’opera prima molto visionaria, un teen drama low budget con 5 anni di gestazione e soli 30 giorni di set, scritta insieme al fratello sceneggiatore Severino Iuliano.

Abbiamo parlato con il regista di Crotone in occasione del lancio del film, prodotto dalla Freak Factory di Andrette Lo Conte insieme a Rai Cinema e nelle sale dal 28 novembre. Il suo film è un qui e ora che non voleva dichiarare backstories dei personaggi che nella loro parte equilibrata sono in relazione con i propri genitori giusto tramite cellulare, ma fra di loro, forti del branco formato in questa notte folle, arriveranno a giocarsi la vita con una pericolosa challenge.

È il tuo esordio al lungometraggio, ma non dietro la macchina da presa. Come cambiano le cose da un corto a un lungo?

Per me è cambiato poco perché con mio fratello, che è sceneggiatore, lavoriamo sempre tantissime ore sulle storie, sul soggetto. Penso sia anche una grande responsabilità raccontare qualcosa alla gente, sia in un corto che in un lungo. Poi tecnicamente è diverso, certo, ma “cosa vogliamo ascoltare” è la domanda che ci poniamo più spesso. Così scriviamo e riscriviamo sempre. Come per Penalty, anche qui avevo letto un suo high concept che mi aveva interessato. Con Space Monkeys volevo fare una fotografia di questi tempi un po’ strani, a cavallo tra sogno e realtà, tra virtuale e reale. Mentre prima si discuteva del confine, dalla Generazione Z in poi questo confine non c’è più. Quindi l’idea di rappresentarlo ha iniziato ad affascinarmi così ho cominciato con i miei calcoli di script e scrittura visiva. Per me la regia è una scrittura in più che aggiunge alla sceneggiatura.

Con tuo fratello come vi dividete il lavoro, come convivete o come vi scontrate?

Lui è uno sceneggiatore puro: classico uso del computer, una volta macchina da scrivere, e pensa solo a scrivere. Certe volte io e lui insieme facciamo delle robe indipendenti, soprattutto quando siamo lontani da progetti grossi. Facciamo delle cose tutte nostre, lui come sceneggiatore, io invece arrivando dai fumetti ho questa ossessione per le immagini. Amo la semiologia del cinema. Ai tempi dell’università ero affascinato dalle lezioni di Italo Moscati, mi perdevo nei libri che rimediavo tra Crotone e Teramo. Ero affamato di tante cose, ma con Severino non ci accavalliamo perché la mia scrittura visuale arriva dopo la fase del soggetto, che è più sua. Lui inizia a scrivere, io sono presente ma non invasivo. Il resto è surf!

Space Monkeys richiama l’esperimento delle scimmie inviate sole nello spazio. Cos’è lo spazio per i tuoi personaggi?

È quel luogo dove realtà e virtuale coesistono. Ho voluto creare questa specie di bolla perché mi piace giocare col tempo. Il cinema ti concede di manipolare tempo e spazio. Con la Generazione Z secondo me ci ritroviamo in una nuova umanità. Le scimmie spaziali non esistono, e per questo volevo un’allegoria su qualcosa che spaventasse e meravigliasse perché non c’era prima. Se ci pensi, lo Space Monkeys era anche la challenge del Choking Game, il gioco del soffocamento sul web. Per questo ho capito che era il titolo giusto. Lo spazio dove si muovono i miei personaggi è interiore. Ma se parli con i ragazzi, capisci che non hanno confine tra reale e virtuale. Sono capaci di skippare da un discorso online a sentimenti provati con delle persone due giorni prima. Parlano varie lingue e a loro modo sono meravigliosi. Volevo ritrarre senza giudizio questa generazione nuova, infatti nel film mi calo in mezzo al gruppo, con l’obiettivo di vederli vivere da vicino le loro situazioni. 

Aldo Iuliano sul set di Space Monkeys
Aldo Iuliano sul set di “Space Monkeys”.

Si avverte un forte senso di smarrimento nei ragazzi, nella generazione che racconti. Tutta questa solitudine, quasi spaziale abbiamo detto, in cosa può essere trasformata?

Nelle situazioni più estreme ci ricordiamo di essere umani, e non scimmie. E in quanto umani abbiamo delle potenzialità. Credo che questa generazione abbia grandi potenzialità. Tendono secondo me a non voler perdere il contatto col reale. I loro sentimenti non sono diversi dai nostri quando eravamo adolescenti. Quindi per me Space Monkeys è un augurio positivo per il futuro. Il mio è uno sguardo positivo su di loro. In questi anni ho avuto la fortuna di insegnare in alcune accademie, e sono loro che mi hanno istruito per questo film. Insegno regia per puro spirito di restituzione, non perché mi consideri arrivato, infatti dai ragazzi prendevo appunti sulle storie che mi raccontavano, mi passavano i loro pezzi musicali. Li ho studiati parecchio. Un po’ come avevo fatto con i giovani immigrati di Penalty. Insomma, punto all’immersione totale.

Hai anche fatto scelte molto precise per le location. Una spiaggia, una villa e una scenografia che avvolge i ragazzi come fosse una madre algida. Quasi un personaggio in più.

Hai centrato una cosa che spero arrivi al pubblico. La natura è sempre presente in ogni cosa che facciamo. La misi anche nel campo di Penalty, che era ambientato tutto su una spiaggia. Qui volevo estraniarmi da spazio e tempo. Se guardi bene, ho usato cellulari rotondi che non esistono. In questo ho guardato un po’ ad Arancia meccanica, dove il concetto del “senza tempo” è ampiamente messo in pratica. Con Francesca Sartori abbiamo lavorato per rendere anche i costumi senza un tempo determinato. Abbiamo girato a Crotone perché ci tenevo a inserire i miei luoghi. La Baia dei Greci ha una forma circolare come il telefono tondo e come la piscina nel castello che ho scelto. Quest’altra location è la dimora di un mio amico, immersa nella natura, lì vicino ma già in montagna. Mi aveva rapito perché è molto strana: ha una torre al piano superiore, con un albero e una vasca circolare che di notte sembrava sospesa nello spazio. Paki Meduri è stato fondamentale nello scenografare questo posto così bizzarro completando l’estraniamento di cui avevo bisogno.    

A proposito di Kubrick, il tuo Able sembra una citazione dell’Hal9000 di Odissea nello spazio.

In realtà ho studiato Arancia meccanica per il “senza tempo”, ma dentro ci ho messo quel buco nero di vasca perché la nostra umanità sta andando su altri pianeti. L’intelligenza artificiale Able doveva essere solo domotica. Hal ti spaventava, ma Able replica la furbizia umana. Quando dice “posso fare quello che vuoi, basta che mi autorizzi”, quello è internet che replica lo scarico di responsabilità tipico degli esseri umani. Insomma, il computer diventa figlio di puttana come noi. Quindi non ho pensato a Odissea nello spazio, ma a come il computer sia il riflesso di noi stessi oggi.

Dall’accuratezza dei tuoi lavori si vede che non lasci nulla al caso. Cosa ti ha sorpreso durante questo film di questi attori?

Ho cercato per mesi gli attori. Sono sempre presente ai casting perché voglio ascoltare gli interpreti per capire chi ho di fronte. I cinque attori protagonisti sono giovani che stanno crescendo, e in ognuno di loro ho trovato la giusta scintilla per i personaggi. Li ho sottoposti a un lavoro molto duro, un’esperienza immersiva che li ha messi sotto pressione come volevo. Mi ha quasi sorpreso che si siano fidati completamente perché è stato davvero duro.

Hai già in mente un’opera seconda?

Si, ancora più fuori di testa di questa, non vedo l’ora. Si chiama L’universo è paese. Un film sull’importanza di non arrendersi mai. Dirlo in un periodo storico del genere credo sia urgente. Sarà un dramedy, anche se il genere lo scelgono sempre le storie. E questa è una storia che io e mio fratello curiamo già da tanto tempo. Sai, tutto dipende dalla necessità di quello che vuoi dire. Ma saprai di più quando mi faranno fare il film.

La timidezza delle chiome: due gemelli e il loro coming of age

È ora nelle sale questo originalissimo esordio al lungometraggio. La timidezza delle chiome è un documentario, o docufilm, o un film verità se vogliamo, dove la regista Valentina Bertani segue da vicino l’adolescenza di Joshua e Benji Israel, fratelli gemelli pieni di vitalità e sogni per il loro futuro. La disabilità intellettiva li limita, ma i loro genitori, protettivi e amorevoli ma sempre fermi ed equilibrati, lasciano loro tutto lo spazio per fare le esperienze dei vent’anni. Entra allora in campo l’osservazione discreta e appassionata di questa giovane regista con la quale abbiamo parlato proprio durante il lancio del film.  

Valentina, tu provieni dai videoclip, hai esperienza di spot anche fashion, e i tuoi protagonisti, Joshua e Benji hanno un viso particolarissimo. Sembrano quasi modelli. Ma vivono un disagio che racconti molto intimamente nel tuo film. Come si sono incrociate le vostre strade?

È successo per caso, in un giorno di sole a Milano. Mentre parcheggiavo il motorino ho notato due gemelli omozigoti così ricci e particolari che mi riportavano al cinema indipendente che tanto amo di Larry Clark e Harmony Korine. Ho deciso di fermarli per sapere se erano maggiorenni, se volevano fare qualche videoclip o fashion film insieme a me, ma non mi rispondevano e continuavano a camminare. Ho capito immediatamente che avevano una disabilità intellettiva perché avevo già avuto esperienze professionali con persone simili. Mentre sparivano lungo i Navigli ho pensato che forse avevo lasciato scappare una bella storia. Sono riuscita a recuperare i loro contatti chiedendo ai negozianti. Per fortuna i loro genitori sono gli ex-proprietari di un locale nei paraggi, Le Scimmie, così sono riuscita ad avere il contatto della madre.

La timidezza delle chiome è frutto di un’osservazione/lavorazione/condivisione con la famiglia Israel molto lunga. Titolo peraltro azzeccatissimo. Che tipo di percorso avete fatto insieme?

È il risultato di una grande storia di affetto tra me, gli sceneggiatori, il direttore della fotografia, la costumista, la produttrice esecutiva e casting director che è mia moglie. Sono tutti stati coinvolti nel rapporto che abbiamo instaurato con Sergio, Monica e i ragazzi. Li abbiamo frequentati per cinque anni e siamo usciti con loro tutte le settimane. Il titolo viene da un momento del film in cui è spiegato il fenomeno botanico della timidezza delle chiome [che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano]. Risulta spiazzante perché in quel momento ci si chiede cosa sia reale e cosa costruito. Per aumentare il dubbio ho inserito un effetto di post-produzione dove le foglie inquadrate si smaterializzano, i rami smettono di toccarsi creando una geometria e regalando una suggestione allo spettatore: quanto c’è di documentario e quanto c’è di finzione in questo film che sto guardando?

Girare un videoclip è sicuramente più lineare. Quanto le tue scelte stilistiche preordinate sono state rivoluzionate sul set dai ragazzi?

Qui ho stravolto completamente il mio modo di raccontare. A livello estetico ho sempre dato priorità al crafting, al camera work, invece in questo caso ho lasciato guidare la storia. A livello umano Benjamin e Joshua mi hanno insegnato delle cose e anch’io a loro. Innanzitutto ho insegnato loro un lavoro, perché adesso sono in grado di recitare, di stare in campo senza guardare in macchina da presa. Abbiamo sempre fatto questo lavoro giocando con un nostro codice. Per esempio ho insegnato loro che l’obiettivo era come Medusa: non potevano guardarlo altrimenti si sarebbero pietrificati. Quello che hanno insegnato loro a me è che quando giri un film così character driven non puoi pensare che esista un dopo, un momento in cui il film finisce. Perché i personaggi possono anche finire di essere raccontati ma le persone non si possono abbandonare.

La timidezza delle chiome In fin dei conti il tuo film parla dell’unione di una famiglia e dell’amore fraterno. Quali sono i temi a te più cari?

Le storie che amo al cinema e quelle che voglio raccontare sono i coming of age. L’adolescenza mi affascina perché è un periodo effimero di passaggio, così come l’infanzia. L’altro argomento che mi sta a cuore è legato alla ricerca della propria identità, quindi anche tutto il cinema con tematiche queer.

La timidezza è il tuo esordio al cinema. Che tipo di film ti prepari ad affrontare adesso?

Il nuovo film che girerò si chiama Le bambine. È un film di finzione, la storia di due sorelle che incontrano una terza bambina piena di così tante difficoltà che non desidera di diventare grande come tutti gli altri bambini, ma vuole esercitare il suo diritto a rimanere piccola. Sarà un film colorato, pop, molto saturo, ambientato negli anni novanta. Ho scritto la sceneggiatura con mia sorella Nicole, Maria Sole Limodio e la supervisione di Barbara Alberti. Se tutto andrà bene lo gireremo nell’estate 2023. Siamo molto felici perché è una co-regia con mia sorella. Ho pensato di farlo con lei perché mi ha insegnato cosa significa davvero la sorellanza.

Da regista e sceneggiatrice, a quali cinematografie e a quali autori o autrici ti ispiri?

I miei registi di riferimento, come accennavo, sono Larry Clark per il suo raccontare senza filtro gli adolescenti, Harmony Korine perché conosce le regole e le stravolge cercando una grammatica tutta sua, e Todd Solondz perché ha un’ironia tagliente che trovo rivoluzionaria. Mentre le registe che mi stanno più a cuore sono Céline Sciamma, perché il suo cinema racconta storie con protagoniste femminili ben delineate e tridimensionali, ed è una continua riflessione sulla tematica dell’identità. E poi Julia Ducournau perché mi piace il body horror. Mi diverte la messa in scena del dolore al cinema. È come andare sulle montagne russe e confrontarsi con la paura del vuoto senza rischiare di cadere davvero. Il suo cinema assomiglia a un luna park: luci colorate, suoni forti e a volte un po’ di gioia mista a nausea.

 

Dalla pagina allo schermo: Dikele e Autumn Beat

Nei giorni dell’uscita su Prime Video della sua opera prima Autumn Beat, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Antonio Dikele Distefano. Ex-rapper, romanziere per Mondadori, editore multimediale per il suo magazine, sceneggiatore di Zero, serie Netflix, Dikele è un trentenne iperattivo e parla quattro lingue. Racconta la Milano del 2010 immersa nella cultura black, agli albori di una nuova scena hip hop con giovani italiani di seconda generazione.

Tito non parla bene ma scrive pezzi rap per il fratello Paco, più spregiudicato e ambizioso. Tra loro una ragazza, tanta musica da scrivere e far conoscere in giro, e intorno tanti amici della crew. A partire da screzi e fraternità, fino alla corsa per il successo, Dikele parla dei figli dell’immigrazione, una nuova fetta di società italiana che sta iniziando a raccontarsi anche nei film.

Il cinema, come la letteratura, risulta spesso un insieme di rimodulazioni drammaturgiche sul vissuto degli autori. Il tuo esordio in regia è una storia di due fratelli, della loro dualità, e in qualche modo ricorda quella tra te e Ghali.
Può essere. Dai, sì, si può dire che siamo stati fratelli, e in un modo o in un altro lo siamo ancora. Ci sono alcune cose in comune. Non abbiamo amato la stessa donna, ma magari la stessa donna era la musica. Però sì, il rapporto fraterno c’era. Nel film si rivedono mie esperienze nel mondo della musica. Ci sono dei momenti dove sono più Tito, e altri dove sono più Paco. Perché anch’io sono un bel “testa di…”.

 

Autumn Beat sembra anche il titolo di un pezzo musicale. Racconti presente, passato e futuro di questa storia rap. Il ritmo narrativo fa pensare a una partitura. Insomma, qualcosa di ancor più profondo dei temi trattati o della colonna sonora.
Se ci pensi l’Autumn Beat è ciò che dà speranza ai due fratelli, ma poi li divide. David ha l’intuizione di fare questo beat. Ma invece di realizzare il loro sogno, è ciò che li allontanerà. Ti dico, inizialmente il titolo del film era diverso. Era quello del mio romanzo, Qua è rimasto autunno. Nonostante mi piacesse molto l’idea, mi rendevo conto che cambiava ogni volta che veniva menzionato da altri. Forse non era così incisivo, lo tradivano. Così abbiamo pensato a Autumn Beat.

Quali sono le suggestioni cinematografiche con cui sei cresciuto, che ti hanno accompagnato, magari anche fino a questo set?
Tra tutti, Wong Kar-wai. Nella mia vita è successa una cosa, e di questo ringrazierò sempre mio cugino. C’è stato un prima e un dopo. Un giorno mi portò a casa un DVD di Old Boy. Dopo questo film, che mi sfracella, inizio a scoprire il cinema asiatico, fino a trovare Kar-wai. Nel progetto, la mia prima ispirazione era vicina a Ferro3 di Kim Ki-duk. Questo ragazzo che entra nelle case degli altri, invisibile, per poter vivere con la donna che ama. Non è andato avanti perché non era possibile. Qui invece ho subito suggerito al direttore della fotografia di Amazon un film ben preciso: 2046 di Kar-wai. Puntavo a quel lavoro over-the-shoulder e a quei colori caldi.

In un’intervista hai dichiarato: “In Prime Video non hanno paura della mia voce e della mia storia”. Cosa spaventa della tua storia?
Ci sono tante regole non scritte, per cui si cerca di soddisfare un pubblico che poi però non esiste. Spesso, quando parliamo di un target, sbagliamo. Le persone non sono tutte uguali, i sedicenni non sono tutti uguali. La cosa che ho trovato in Prime è stata la volontà di mettere prima la storia e poi tutte quelle regole non scritte che ci sono oggi nel mercato. Per esempio abbiamo avuto una chiacchiera lunga e intensa, piacevole, sulla parola “negro”. Non c’è stato subito un “no, non si può dire”, ma un confronto; “ragazzi, voi cosa ne pensate?”. È stato interessante mettere la storia al centro e poi tutto il resto. Per me un’esperienza super. Con loro ho avuto la possibilità di potermi esprimere senza timori, e senza certe regole che per me non hanno alcun senso.

Autumn Beat Dikele Pequeno
Antonio Dikele Distefano e Gue Pequeno.

Infatti con Prime hai firmato un contratto che ti porterà non solo a film, ma anche a progetti più trasversali.
Si, assolutamente. Io nasco sul web e ho un rapporto decuplicato con i social. Mi piace molto lavorare a contenuti e format web, e con loro sto facendo questo. L’obiettivo è quello di riuscire a portare format e contenuti che possono vivere sulle piattaforme di Prime, Twitch, TikTok, YouTube. Ma il mio obiettivo è sempre quello di riportare al cinema, e voglio provare a mettere la mia voce anche lì. Questo perché non sto mai fermo. Tra un film e l’altro dovrei star fermo un anno e mezzo, e per me è impossibile.

La musica si può ascoltare praticamente ovunque e in qualsiasi modo. Un film puoi guardarlo al cinema, in tivù o sui device. Avendo girato per una piattaforma, perdi il gusto del grande schermo. Un obiettivo o una rinuncia?
È qualcosa a cui ho dovuto rinunciare. Lo avrei voluto moltissimo, perché quando uno va al cinema stringe un patto: “ti pago e per un’ora e quaranta mi dedico solo a te”. Invece con la piattaforma non avviene: “ti pago per vedermi tutti i contenuti disponibili, con la possibilità di distrarmi e fare quel che voglio”. Il cinema resta il luogo sacro, la casa dei film. È la cosa che mi dispiace. Ma per come sono fatto, penso già a cose nuove. Spero di poter andare in sala e ai festival con un progetto futuro, se il film sarà di livello.

Da romanziere, come hai vissuto il salto dalla scrittura alla direzione di un set?
Quando fai un percorso di questo tipo, la prima cosa che scopri è che non puoi affezionarti a quello che c’è scritto sulla carta. Se lo fai, sbagli. C’è un continuo confronto, tante terre di mezzo. L’altra cosa che ti sbatte un po’ è il rapporto col tempo. Sul set parlavo con un operatore, Michel, che ha lavorato con Kechiche per La vita di Adele: facevano tre mesi di set! Vorrei anch’io lavorare così. La scrittura invece è come parlare senza essere mai interrotti. Io ho voluto fare la regia perché volevo avere il controllo di un progetto mio. Sono una persona disposta all’ascolto, ma ci tenevo a mantenere l’ultima parola.

Rispecchia anche la modalità di creazione di un pezzo in sala d’incisione.
La capacità vera, per me, è quella di sapersi scegliere le persone. Se ti circondi di persone che vogliono fare il tuo film, è fatta. Spesso invece ci circondiamo di persone che vogliono fare il loro film, ed è un limite. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che avevano tutte la volontà di fare il nostro film.

Invece sui tempi, avete fatto prove con gli attori prima del set?
Assolutamente sì. Abbiamo fatto quattro mesi di prove; avevo paura di sbagliare. Magari alcune cose sono meno riuscite, ma ci siamo massacrati di lavoro. Ad agosto del 2021 eravamo già negli uffici a parlare dei personaggi con il cast. Il percorso è stato lunghissimo e intenso, ma devo ringraziare gli attori.

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